Impegno internazionale, diplomazia e politica per uscire dalla crisi libica

Di Federica Mogherini Mercoledì 14 Ottobre 2015 11:31 Stampa

L’esito dell’accordo raggiunto lo scorso luglio in Marocco sotto l’egida delle Nazioni Unite non è ancora definito: diversi sono i nodi da sciogliere e non è chiaro se tutte le fazioni che costituiscono il complesso spettro politico libico riusciranno a trovare un terreno comune sul quale costruire un governo di unità nazionale. Eppure è evidente che l’unico modo di affrontare la drammatica crisi libica è quello della diplomazia e della politica. La comunità internazionale e, in particolare, l’UE giocano un ruolo fondamentale e hanno il dovere e l’interesse a trovare una soluzione affinché il paese sia pacificato e non si verifichi invece un effetto di spill-over sugli Stati confinanti e sull’intera regione. Ma il futuro della Libia è soprattutto nelle mani dei libici. Senza di loro non sarà possibile raggiungere alcun accordo e non sarà possibile gestire i movimenti migratori che dal paese nordafricano defluiscono verso l’Europa.

C’è un paese da ricostruire, anzi da costruire, sull’altra sponda del Mar Mediterraneo. La Libia è in fiamme: quel fuoco non solo brucia alle porte dell’Europa ma rischia di saldarsi ad altri roghi ai confini dell’Unione. Da anni la comunità internazionale, Bruxelles, le capitali dei ventotto Stati membri osservano con preoccupazione quanto accade a pochi chilometri dai nostri confini e non solo per la marea di disperati che approda sulle nostre coste. Molti errori sono stati compiuti in passato, e in un passato recente. Oggi la strada della diplomazia e del sostegno a un accordo politico tra le fazioni non ha alternative. Su questo c’è un consenso unanime tra i ventotto e nelle istituzioni europee. In questi mesi abbiamo dato un forte sostegno politico, economico e logistico alle trattative per la formazione di un governo di accordo nazionale in Libia. La diplomazia è l’unica strada, la politica è l’unica strada. Credo che solo una cornice internazionale, con le Nazioni Unite, possa garantire una soluzione che porti realmente stabilità nel paese nordafricano. Per questo abbiamo lavorato giorno e notte per appoggiare la delicatissima mediazione di Bernardino León, il rappresentante speciale dell’ONU per la Libia, e siamo pronti a fare ancora di più nel momento stesso in cui il nuovo esecutivo si dovesse insediare e le nuove autorità dovessero chiederlo. Se è chiaro che la comunità internazionale ha il dovere di sostenere una nuova Libia, altrettanto chiaro è che una soluzione stabile della crisi non è nelle nostre mani: è innanzitutto nelle mani dei libici. Non si può rimettere assieme la Libia senza il contributo dei suoi cittadini, non si può sconfiggere Daesh se questa non diventa una battaglia comune a tutti i libici. Spetta a loro decidere il futuro del loro paese e costruirlo, con il nostro aiuto e con quello delle Nazioni Unite: a ciascuno le proprie responsabilità, evitando sia le ingerenze sia la tentazione di scaricare colpe su altri. Questo “metodo” è anche una scelta politica, la scelta del multilateralismo e della diplomazia.

Mentre scrivo, non è ancora chiaro se e come le diverse fazioni riusciranno a stringere un patto per un governo di accordo nazionale. Abbiamo alle spalle mesi di lavoro e di preparativi: da quando ho la responsabilità di Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione non c’è stata riunione del consiglio dei ministri degli Esteri europei che non si sia occupata di Libia. Da ministro degli Esteri italiano il mio primo impegno internazionale dopo la nomina fu la conferenza internazionale sulla Libia alla Farnesina, alla quale parteciparono i rappresentanti di quaranta paesi. Un anno fa, ai primi di ottobre, ero a Tripoli con il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon per una delle primissime riunioni tra le fazioni. Abbiamo investito molto, in termini politici, sul futuro della Libia. E siamo disponibili a spingerci ancora più in là.

Se si arriverà a un’intesa, non sarà comunque un punto di arrivo ma un punto di partenza – per provare a gestire il conflitto prima che sia troppo tardi, prima che la crisi si espanda, prima che gran parte del territorio e delle risorse libiche finiscano sotto il controllo di Daesh. L’Unione ha già previsto un consistente pacchetto di aiuti immediati, per mettere in piedi le nuove istituzioni libiche e garantire la ripresa in tempi rapidi dei servizi essenziali e la sicurezza dei libici. Il lavoro da fare sarà enorme, ma l’Europa è già pronta a dare il proprio contributo per formare la polizia libica e per gettare le fondamenta di uno Stato di diritto. Sicurezza e benessere sono impossibili senza queste infrastrutture di base della democrazia. Da mesi lavora a Tunisi una Unità europea di programmazione per sostenere concretamente la missione ONU di assistenza alla Libia (UNSMIL). Se saranno i libici a chiedercelo, saremo disponibili a discutere operazioni di monitoraggio dei cessate il fuoco locali e di sorveglianza delle infrastrutture strategiche, così come della ripresa della missione europea di gestione delle frontiere. E questo è un punto cruciale, perché è dalle frontiere di terra della Libia che passa il flusso di migranti che attraversa il paese e si imbarca alla volta dell’Europa. Dall’altro lato di quel confine di sabbia siamo già al lavoro con le autorità del Niger: per questo a settembre ho fatto visita alla nostra missione ad Agadez, snodo cruciale delle vie di transito di migranti e rifugiati.

ALLE RADICI DELLE MIGRAZIONI

Senza un governo in grado di controllare il territorio libico, smantellare le reti che lucrano sulla disperazione è pura illusione: la gestione dei flussi va costruita assieme al nuovo governo libico, non contro. Chi lascia la propria casa sperando di approdare in Europa spesso è costretto, lungo il viaggio, a drammatiche staffette da un gruppo criminale all’altro, a pagare ogni volta, a subire ogni volta violenze e umiliazioni. Anche su questo stiamo lavorando “a monte” e “a valle” della Libia sulle rotte della grande migrazione.

A tempo di record, nel corso dell’estate abbiamo avviato la missione navale EUNAVFOR MED per smantellare il business dei trafficanti. Si parla spesso di un’Unione divisa che non sa decidere, di un’euroburocrazia che rallenta i piani anche quando le scelte sono state fatte. Abbiamo smentito tutti i luoghi comuni: la macchina militare europea non si era mai mossa così in fretta. In poche settimane abbiamo messo in piedi una missione seria ed efficace, nel pieno rispetto del diritto internazionale, e altrettanto velocemente è stata completata la prima fase di raccolta di informazioni e di intelligence per individuare le rotte, anche grazie all’alta professionalità di un comandante italiano, il contrammiraglio Enrico Credendino. Non solo. Le navi di questa operazione hanno già salvato 1500 uomini e donne da una morte quasi certa nelle acque del Mediterraneo. Il lavoro al confine meridionale della Libia è forse meno visibile, ma non meno importante. In giugno ho incontrato a Bruxelles i ministri dei cinque paesi del Sahel, riuniti per la prima volta nel formato G5 Sahel. Smantellare le reti dei trafficanti di uomini è un interesse comune, oltre che un imperativo umanitario: il denaro degli uomini e delle donne che tentano di raggiungere l’Europa finisce spesso per alimentare il crimine organizzato, i traffici di armi, in alcuni casi anche il terrorismo di matrice jihadista. Entro il 2020 Unione e Stati membri stanzieranno 8 miliardi di euro di aiuti al Sahel per migliorare la gestione delle frontiere, combattere la criminalità internazionale e sostenere lo sviluppo della regione, con particolare attenzione ai giovani e alle donne. In Niger non c’è solo il sostegno antiterrorismo con la missione EUCAP Sahel Niger, stiamo anche cercando di liberare quelle terre dalla dipendenza economica dal traffico dei migranti attraverso progetti di sviluppo alternativo.

Ed è proprio nello sviluppo la chiave per affrontare un fenomeno che è epocale. A patto che sviluppo sostenibile e diritti fondamentali vadano di pari passo. Far crescere il benessere delle comunità sottrae potere a chi su diseguaglianze, corruzione e sfruttamento costruisce le proprie fortune. Investire sull’istruzione di giovani e donne riduce allo stesso tempo le diseguaglianze sociali e quelle economiche.

Sarebbe tanto folle quanto illusorio pensare di fermare con un colpo di bacchetta magica un fenomeno di portata storica come le attuali migrazioni. Da sempre gli uomini si spostano e questi spostamenti sono stati nei secoli fonte di crescita e di sviluppo per i popoli. Oggi a questo si aggiunge il dramma di milioni di uomini e donne che fuggono dagli innumerevoli conflitti della nostra regione e da diseguaglianze e squilibri economici enormi. Dobbiamo continuare a cercare una soluzione politica per le guerre che causano esodi, dobbiamo continuare a lavorare per ridurre gli squilibri economici tra le diverse aree del mondo e dobbiamo fare in modo che nelle nostre società i nuovi arrivati abbiano le stesse opportunità di chiunque altro. È nel nostro interesse, ed è un dovere politico e umano.

UNA DOMANDA DAL BASSO, UNA RISPOSTA MULTILATERALE

Sempre più ci troviamo ad affrontare questioni che scavalcano i confini degli Stati. Il Sahara è quasi un grande mare, come un altro Mediterraneo, in cui le frontiere si confondono e perdono di significato. C’è voluto un attimo, negli anni passati, perché la crisi libica contagiasse il Mali. Non possiamo permetterci che lo stesso accada con la Tunisia, il paese che, dopo le rivolte del 2011, è più di altri riuscito a costruire il proprio futuro, seppur fragile. Tutto quello che accade in Libia tracima nel resto della regione. Ci riguarda e insieme sfida qualsiasi pretesa di onnipotenza europea. Richiede partnership nuove, un’Europa capace di costruire alleanze. È il motivo per il quale tutti i nostri sforzi, ogni canale istituzionale e ogni rapporto personale, nell’ultimo anno, sono stati messi al servizio della mediazione condotta dalle Nazioni Unite. L’accordo sul nucleare iraniano ci ha dimostrato che la diplomazia – e soprattutto la diplomazia multilaterale – funziona. Quando la comunità internazionale è unita, i risultati arrivano.

L’obiettivo è dunque aggregare in un accordo nazionale le forze che hanno a cuore il destino della Libia. La divisione tra le varie fazioni non serve l’interesse dei libici. La Libia è e rimane un paese con risorse gigantesche, ma senza sicurezza è impensabile che le attività economiche tornino alla normalità. La produzione di petrolio, nonostante una lieve ripresa, è ancora al 30% dei livelli precedenti al 2011. E naturalmente vi sono state ripercussioni anche sulla produzione di gas. Per l’Europa, la Libia riveste un interesse strategico, non solo per ragioni di sicurezza e di stabilità regionali. Viviamo un’epoca in cui le crisi diffuse ai confini europei, da Est a Sud, richiedono una diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Stabilizzare la Libia significa anche garantire la nostra sicurezza energetica. Ma è innanzitutto un dovere nei confronti della Libia stessa, per il benessere dei suoi cittadini.

C’è una domanda di unità nazionale che arriva dal basso, dalla base della società libica. Chiedono unità gli imprenditori libici che abbiamo ospitato a Bruxelles nei mesi scorsi, nel contesto del dialogo avviato con leader locali e società civile. Chiedono unità i sindaci delle principali città libiche che, insieme alle altre istituzioni europee, abbiamo incontrato a marzo e a luglio, e che incontreremo ancora a ottobre: in questi mesi hanno saputo negoziare cessate il fuoco locali e scambi di prigionieri, superando faide e divergenza politiche. Hanno fornito alcune prime risposte ai bisogni dei propri cittadini. Hanno rappresentato la voglia di pace e di normalità del popolo libico.

UNA STRATEGIA CONTRO DAESH

La stragrande maggioranza dei libici è stanca del conflitto. I soli ad aver beneficiato della guerra civile sono banditi di ogni tipo e i terroristi di Daesh. Che ora rappresentano un pericolo impossibile da ignorare, per tutto il paese e per i paesi vicini – inclusa l’Europa, che confina con la Libia, separata solo da un braccio di mare. Daesh non ha nulla a che vedere con la storia della Libia o dell’Islam libico. È un prodotto di importazione, in franchising, ma si nutre delle divisioni della società libica e degli scontri tra tribù e milizie per rafforzare il proprio potere. L’unità delle principali forze libiche è l’opzione più efficace per contenere e sconfiggere Daesh. Lo abbiamo visto durante l’estate: dove non riescono a stringere alleanze, gli uomini di al-Baghdadi hanno seri problemi a consolidare il controllo del territorio che conquistano. Anche per questo un governo di accordo nazionale, in grado di ricondurre il maggior numero possibile di milizie sotto il controllo di autorità statali, è una priorità, la priorità.

Non si tratta però soltanto di far collaborare partiti e gruppi. La propaganda di Daesh sta dimostrando una capacità di penetrazione senza precedenti tra le nuove generazioni della sponda Sud del Mediterraneo, e non solo. Questo successo si spiega solo capendo che quella propaganda va a riempire un vuoto. È una risposta – perversa, autodistruttiva – al disincanto dei giovani rispetto a società cui non sentono di appartenere, in cui le generazioni al potere non sembrano lasciar spazio alle nuove.

Racconto spesso quello che mi disse mesi fa una ragazza tunisina, rispondendo alla mia domanda sul perché, secondo lei, così tanti ragazzi della sua età vadano a gonfiare le file di Daesh: quei ragazzi – mi rispose lei – cercano un posto nell’organigramma delle proprie società e non lo trovano. Cercano uno spazio, magari un buon posto di lavoro dopo il diploma e la laurea e non lo trovano. Chiedono un’opportunità di far sentire la propria voce e non la trovano.

Ovviamente nulla giustifica la scelta del terrore. Ma non possiamo ignorare il disagio dei nostri giovani o la battaglia sarà persa. Tanto più che in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa quasi due terzi della popolazione hanno meno di trent’anni. L’unica risposta di lungo periodo a Daesh è costruire società democratiche, inclusive e prospere, che ascoltino i bisogni dei propri cittadini e diano loro risposte. Diano loro spazio, potere.

In Libia esiste già una società civile che rifiuta il terrorismo e chiede l’unità della classe politica, per cominciare a ricostruire il paese. Come Unione europea siamo impegnati ad ascoltare, a sostenere e a difendere questi movimenti dal basso. Giusto un anno fa – il 19 settembre del 2014, uno dei tanti “venerdì neri” della recente storia libica – dei miliziani jihadisti assassinavano a Benghazi Tawfik Ben Saud e Sami Elkawafi, due diciottenni colpevoli di aver chiesto democrazia e diritti civili. «Se sarà data un’opportunità ai giovani», aveva scritto Ben Saud qualche settimana prima, «si troverà una soluzione pacifica». La politica – la nostra Unione europea, la comunità internazionale e i partiti libici – ha il dovere e la responsabilità di costruire questa opportunità.