La nuova politica e la scienza regia dell’incompetenza

Di Michele Prospero Martedì 15 Gennaio 2019 16:21 Stampa

I vaccini, l’Istituto superiore della sanità, l’Agenzia dello spazio, sono questioni che perdono ogni autonomia tecnico-scientifica per entrare nel campo degli appetiti politici del governo del popolo. Del resto, la peculiarità della strategia populista è proprio quella per cui al tempo stesso «depoliticizza e iperpoliticizza le relazioni sociali. Il leader po­pulista spesso si pone simbolicamente al di fuori del regno politico, sostenendo che non è un politico».1 Su questa mistica proclamazione di estraneità, il populista fonda l’escursione arbitraria in ogni ambito della convivenza. Dopo aver calpestato la complessità del governo politico, in nome del principio che uno vale uno, il populista invade ogni sfera della società per applicare in qualsiasi ambito che sfiora il dominio del senso comune che non riconosce limiti in nome della metafisica del cambiamento.

Il contenuto specifico portato dal populismo nella sfera pubblica non coincide con la fine della politica. I proclami che si susseguono nel segno dell’antipolitica si convertono, al contrario, in censure contro gli organismi tecnici, le funzioni di garanzia, le competenze gestio­nali che di norma vengono riconosciute agli organi della conoscenza critico-sistematica. «Nonostante tutto lo scetticismo nei confronti dello Stato, i populisti si aggrappano al primato della politica. Sullo sfondo c’è la centralità della presunta volontà popolare».2 L’antipo­litica, in nome della categoria avvolgente di popolo cui tutto deve ricondurre, tende ad attribuire al senso comune, alle credenze origi­narie e infondate dei molti, compiti di valutazione e direzione che invadono l’autonomia dei saperi. Sul piano storico, «la convinzione che i fondamentali documenti scritti siano immediatamente acces­sibili e chiaramente trasparenti, che possano essere compresi da cia­scuna persona senza l’aiuto di esperti o intermediari, è una convinzione di lunga data nei movimenti populisti».3 L’abbattimento delle mediazioni sprigiona conseguenze nefaste quando cade la differenza tra il codice del sapere e il codice della politica. Fu Platone a fissare alcuni punti fermi nel rapporto tra opinione e competenza. Postula­to che “non ogni opinione di chiunque è vera”, occorre stabilire un criterio per accordare una validità alle diverse asserzioni. «Credo che sulla questione se un vino diventerà dolce o aspro, avrà autorità l’opi­nione dell’agricoltore non quella del suonatore di cetra».4 L’opinare si arresta dinanzi al riconoscimento dello statuto invalicabile della conoscenza. Ci voleva il non-partito di un co­mico arroccato al potere per riabilitare l’attualità del grido di Platone contro la retorica degene­rata ed eristica che, in nome dei molti che nulla sanno su un tema, annichilisce la conoscenza ve­rificabile di quanti approfondiscono in maniera specialistica gli strumenti del sapere euristico.

Con il dilettantismo della tastiera, che contrap­pone l’opinione di chiunque al sapere speciali­stico dell’élite intellettuale (“la politica prevale sulla scienza”, asseriscono taluni esponenti del M5S), l’incompetenza giunge al potere di una società occidentale e conia la nuova tipologia: “l’obbligo flessibile”. Dall’alto della sovranità del legislatore, il politi­co nuovo, espresso con i riti delle parlamentarie, pretende di rendere accettabili atteggiamenti scettici, sull’obbligo dei vaccini nella scuola pubblica, che gli ambiti della conoscenza non esitano a stigmatizzare come pericolosi e irresponsabili segni di oscurantismo antiscientifi­co. I rischi involutivi del primato antipolitico della politica affiorano con nettezza nella vicenda dei vaccini, dove riecheggiano peraltro le espressioni di Trump in difesa del «piccino che pesa 5 chili contro il dottore che con i vaccini lo trasforma». Nello scetticismo antiscien­tifico, la sintonia del conservatorismo d’ogni continente è palese nel recupero di parole devianti. Anche il “capitano” Salvini sostiene che solo «papà e mamma decidono, non le multinazionali del farmaco, sulla pelle dei nostri bambini». E dunque è conseguente il suo grido di battaglia: «no allo Stato che mette in vena a bimbi di pochi mesi 10 vaccini». ­ L’accanimento della nuova politica che, su questo e altri campi della ricerca, intende dettare a capriccio la propria legge, incurante delle acquisizioni scientifiche, viene giustificato in nome di verità supe­riori a quelle raggiunte a fatica nei laboratori e naturalmente affidate alla rivelazione che può essere dispiegata tramite il profetismo di un comico o la voce del popolo. Già contro le cure mediche previste contro l’AIDS, il comico fondatore del M5S pretendeva di saperne più della scienza empirica e dei suoi protocolli analitici. La battaglia di Galilei contro il principio d’autorità («contro a quello che ci mo­stra il senso e l’esperienza, in vano si produce l’autorità d’uomini per altro grandissimi» come Aristotele)5 naufraga dinanzi alla pretesa di autorità rivendicata da un comico che si professa megafono del più genuino sentimento del popolo e quindi depositario dei lumi del sapere.

Sulla base della sua competenza metascientifica, Grillo definì l’AIDS come “la più grande bufala di questo secolo” e negò che il virus dell’HIV potesse trasmettersi a livelli di pericolosità sino a danneg­giare il sistema immunitario delle persone. La stessa esibizione di una conoscenza superiore, diversa da quella empirica e prodotta nei noiosi lavori di laboratorio, Grillo la provò proponendosi come ne­mico dei test e della prevenzione del cancro. In lotta contro il sapere accreditato nei centri di ricerca, il comico scendeva in sostegno del metodo Di Bella per avallare cure alternative a quelle previste secon­do le conquiste terapeutiche del mondo scientifico a livello interna­zionale. Raffigurando Di Bella come un novello scienziato eretico, ingiustamente perseguitato dal sapere ufficiale che agisce in nome di vili interessi economici e di pura cupidità di potere, il comico pretendeva di avere in dote l’autorità di attestare la veridicità delle procedure conoscitive rigettate dalle accademie. «Come fa ad essere un ciarlatano un ometto così? Da trent’anni fa questo lavoro!». In difesa dell’eresia, per il portavoce del popolo era giusto curare il can­cro con il latte di una capra. La storia del grillismo è piena di questi atteggiamenti ostili al paradigma scientifico, di proclami incendiari contro i protocolli medici, le acquisizioni sperimentali.

La novità di oggi è che questi esercizi di un sapere alternativo a quello rivendicato dai professoroni, che indagano i fenomeni con i meto­di dell’epistemologia più accreditata, non sono più le trovate di un comico che sui palcoscenici confessa di possedere una illuminazione misticheggiante da riversare su ogni campo dello scibile, ma sono diventate il fondamento ideologico dell’azione del governo che non riconosce limiti alla volontà del popolo. Il comico confuta la teo­ria del cambiamento climatico e attribuisce alle scarse radici degli abeti veneti il dissesto ambientale. I suoi seguaci imputano le colpe a satana. La trasparenza solo illusoria della rete che attraversa il cyberspazio, produce un oscurantismo effettuale di un non-partito di governo ostile alla sperimentazione e propagandista di fughe irrazionali che minaccia­no il corpo reale delle persone che con-vivono nello spazio sociale.

Le corbellerie pronunciate sul metodo Stamina, quello prediletto dal premier “avvocato del po­polo”, gli pseudo-argomenti lanciati sul clima, il negazionismo pronunciato sull’AIDS rivelano le insidie portate alle differenziazioni funzionali tipiche dei sistemi complessi della modernità, provocate dalla rinuncia ai canoni del sa­pere e della competenza in nome del primato irrazionalistico dell’o­pinione del popolo.6 Anche qui, l’assalto frontale dei populismi è condotto contro un pilastro del moderno che fu stabilito in manie­ra esemplare dalla protesta di Galilei verso l’estensione dei canoni del consenso nella ricerca, un azzardo per cui «è invalso l’uso che meglio sia errar con l’universale, che esser singolare nel rettamente discorrere».7 Il consenso non è un canone della conoscenza, e parlare in nome della gente è del tutto irrilevante nello sciogliere i grandi nodi del sapere. Il principio quantitativo proprio della politica nul­la ha da suggerire nel campo della ricerca indifferente a dinamiche diverse dal vero. Non si può che convenire con l’assioma di Galilei: «Il giudicar dunque dell’opinioni d’alcuno in materia di filosofia dal numero de i seguaci, lo tengo poco sicuro».8

Con la conquista del potere in nome della gente, un ceto dirigente improvvisato e superficiale, che fa dell’incompetenza la nuova “scien­za regia”, invade con il canone della politica i rami della competenza e li dissolve. Sotto la morsa delle tendenze populiste, «il principio egualitario della maggior legittimità di una regola di decisione poli­tica diventa uno standard culturale di produzione che regola tutte le sfere della società».9 Non si tratta solo di pittoresche esibizioni di un sapere alternativo che emergono nel cuore della società della cono­scenza, ma della estensione dell’onnivoro paradigma populista che in nome del semplice, intende demolire ogni complessità, in nome del­la libera doxa cerca di aggredire ogni comprovata episteme, in nome della sapienza degli oracoli del popolo vuole sospendere qualsiasi au­tonomia del sapere.

Qui però non si scappa dalle formule lapidarie utilizzate da Galilei. In politica l’opinare è fondativo dello spazio pubblico, nella ricerca ogni argomento presuppone l’apprendimento del linguaggio spe­cialistico che rigetta il chiacchiericcio dell’opinare. Chi non ha la “lingua matematica”, è meglio che taccia sulle questioni della fisica, se non dispone delle tecniche, delle quali «e i caratteri son triango­li, cerchi, ed altre figure geometriche», il puro opinare non riesce a uscire da “un oscuro laberinto”. Insomma, nel­le pratiche scientifiche l’opinare del potere va escluso perché vale il principio per cui «non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua».10 Il governo, che non ha la lingua del­lo specialismo, deve tenersi lontano dalla inva­denza dei territori del sapere rigoroso.

Lo statuto della conoscenza è opposto a quello del politico, per sua struttura ancorato al re­gno mutevole dell’opinare, del volere dei molti. «Anco nelle conclusioni delle quali non si potesse venire in cognizione se non per via di discorso, poca più stima farei dell’attestazioni di molti che di quella di pochi, essendo sicuro che il numero di quelli che nelle cose difficili discorron bene, è minore assai che di quei che discorron male. Se il discorrere circa un problema dif­ficile fusse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval barbero solo correrà più che cento friso­ni».11 Questo di Galilei è un solido argine rispetto all’invasività del potere che non si arresta dinanzi alle speciali procedure del conoscere.

Il populismo è una minaccia perché invade le sfere distinte del siste­ma sociale moderno ed esalta le virtù genuine del popolo per sor­reggere le ambiguità sostanziali dell’iperpoliticismo, le cui pretese grossolane di comando servono per “mantenere preferenze irragio­nevoli” e imporre per vie traverse il trionfo del cattivo potere sulla conoscenza.12 La categoria di popolo come fonte d’ogni cosa condu­ce all’annullamento di importanti conquiste evolutive delle società occidentali in merito al rapporto tra i codici del sapere e i codici del potere. Nell’agitazione populista si ricorre ad analogie, equazioni semplificatrici che appannano le capacità reali di governo perché con assunti insidiosi «i problemi politici e sociali nel discorso pubblico possono essere ridotti a una dimensione monocausale, i fatti non dovrebbero richiedere una spiegazione complessa».13 Questa narra­zione, che attribuisce virtù salvifica e rigenerativa agli estranei non reclutati dalla classe politica corrotta, vacilla quando il populista ge­stisce l’amministrazione secondo dei puri calcoli di bassa politica e il rendimento dei sistemi complessi non dà segnali apprezzabili di efficacia.


[1] F. Panizza (a cura di), Populism and the Mirror of Democracy, Verso, Londra 2005, p. 20.

 [2] F. Decker, Parteien unter Druck. Der neue Rechtspopulismus in den westlichen Demokra­tien, Springer Fachmedien Wiesbaden, Amburgo 2000, p. 46.

[3] T. Skocpol, V. Williamson, The Tea Party and the Remaking of Republican Conservatism, Oxford University Press, New York 2012, p. 147.

 [4] Platone, Teeteto, in Dialoghi filosofici, UTET, Torino 1981, p. 277.

[5] G. Galilei, Sidereus Nuncius, Einaudi, Torino 1976, p. 152.

[6] T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici: l’era dell’incompetenza e i rischi per la demo­crazia, Luiss University Press, Roma 2018.

 [7] G. Galilei, Sidereus Nuncius cit., p. 107.

 [8] G. Galilei, Il Saggiatore, Einaudi, Torino 1977, p. 44.

[9] T. Meyer, Populismus und Medien, in F. Decker (a cura di), Populismus. Gefahr für die Demokratie oder nützliches Korrektiv?, Springer Fachmedien Wiesbaden, Amburgo 2006, p. 94.

 [10] G. Galilei, Il Saggiatore cit., p. 33.

 [11] Ivi, p. 212.

[12] W. M. Epstein, The Masses are the Ruling Classes. Policy Romanticism, Democratic Po­pulism, and American Social Welfare, Oxford University Press, New York 2017, p. 78.

 [13] F. Hartleb, Rechts-und Linkspopulismus, Springer Fachmedien Wiesbaden, Amburgo 2004, p. 51.