Divergenze parallele. M5s e Lega alla prova della legge di bilancio

Di Maria Cecilia Guerra Venerdì 16 Novembre 2018 11:35 Stampa



La necessità di raggiungere mediazioni e compromessi su punti di programma per cui vi è disaccordo costringe generalmente i governi di coalizione a adottare provvedimenti meno radicali di quelli che le singole componenti avrebbero adottato. Il governo Conte sembra in-vece seguire una logica diversa, fondamentalmente spartitoria, in cui ciascuna delle due fazioni che lo compongono si riserva un campo di azione, a partire da una divisione equilibrata delle risorse in gioco, rispetto al quale l’altra si astiene il più possibile dall’intervenire. Ne scaturisce un’azione politica non solo priva di una visione organica ma anche molto spesso contradditoria, che tende a enfatizzare quella ricerca del consenso presso particolari categorie di contribuenti/cit-tadini che contraddistingue, non da oggi, l’agire politico. All’indifferenza-insofferenza nei confronti dei vincoli sulle risorse è affidato il ruolo di sanare quella che invece potrebbe essere una con-traddizione di fondo, contenuta nello stesso contratto di governo. Un contratto che amalgama la visione sostenuta storicamente dalla destra – diminuire le tasse, soprattutto quelle che gravano su imprese e contribuenti più ricchi, nell’idea di rilanciare l’economia e favorire per “sgocciolamento” (trickle-down) anche i ceti più disagiati – e che si accompagna all’idea di togliere per questa via il foraggio allo Stato e, in particolare, alla voragine della spesa per welfare – una bestia sempre affamata, come diceva Reagan – con la visione opposta, a forte sostegno dell’intervento pubblico, che contraddistingue le parti del contratto dedicate al reddito di cittadinanza, alla scuola, alla sa-nità, agli investimenti. Non sorprende, in questo quadro, il cammino fortemente tormen-tato della legge di bilancio, imputabile non solo alla scelta, politica e preelettorale, di operare in aperta conflittualità con la Commissione europea, ma anche alla evidente difficoltà di conciliare provvedimen-ti identitari, e per questo irrinunciabili, che, per il loro contenuto e il drenaggio di risorse richiesto, sono però difficilmente conciliabili.

Pur operando con un forte allentamento del vincolo delle risorse, la maggioranza di governo sta poi incontrando difficoltà a tradurre slogan elettorali di grande successo in provvedimenti veri e propri, dimostrando come parole d’ordine quali “abolire la Fornero”, “reddito di cittadinanza”, “lotta alle pensioni d’oro”, “pace fiscale”, non avessero alle spalle una sufficiente elaborazione analitica.

In questo contesto è difficile, e ancora in parte prematuro, vista l’approssimazione delle bozze dei testi di legge di bilancio in circola-zione, esprimere una valutazione compiuta delle proposte in campo, alcune delle quali, come l’aumento degli investimenti pubblici e l’assunzione straordinaria di figure tecniche e professionali di cui le pubbliche amministrazioni sono deficitarie, sono, almeno nelle intenzioni, sicuramente condivisibili. Così come lo è la previsione contenuta nel decreto fiscale, che prospetta la trasmissione telematica degli scontrini fiscali.

In quanto segue mi concentrerò solo sulle misure simbolo dei due partner di governo, per mettere in particolare evidenza le contraddizioni fra alcune di esse, le forzature che esse impongono a istituti esistenti, e le difficoltà che si hanno, anche quando presentano aspetti positivi, a inquadrarli in una visione complessiva.

LA FLAT TAX PER GLI AUTONOMI

La promessa elettorale più radicale in campo fiscale della Lega – ma non del M5S, che proponeva una articolazione dell’IRPEF su tre aliquote, di cui la più elevata al 42%, e un ampliamento della no tax area – riguarda l’introduzione di una flat tax al 15%, accompagnata da una deduzione di base, articolata per la numerosità del nucleo familiare, per salvaguardare un simulacro di progressività.

Una proposta di questo tipo è costretta a tradursi in una forte per - dita di gettito, a favore delle classi di reddito più elevate, con una concentrazione del prelievo residuo esclusivamente in capo alle classi medie, essendo i ceti più poveri salvaguardati dalla deduzione di base. Un profilo redistributivo difficilmente accettabile. Ma la realiz-zazione che ci si propone di darne nella legge di bilancio introduce un elemento di ulteriore distorsione. La gradualità con cui si intende introdurre la nuova tassa è infatti di tipo categoriale. La flat tax viene “intanto” riconosciuta ai lavoratori autonomi e agli imprenditori in-dividuali, con ricavi e compensi non superiori ai 100.000 euro ovve-ro, in una ipotesi prudenziale, ai 65.000 euro. Ne risulta un sistema fiscale che, a parità di reddito, riserverà al lavoratore dipendente un prelievo che potrà essere più di due volte quello riservato a un lavo-ratore autonomo (la distanza fra le due figure cresce al crescere dei ricavi e al calare dell’incidenza dei costi). Una iniquità categoriale a cui non si riesce a dare una spiegazione logica. A cui si associa una iniquità di sistema: va infatti ricordato che la progressi-vità per l’insieme dei redditi di lavoro trova una importante giustificazione redistributiva nella sempre più diseguale distribuzione degli stessi.

La tecnica con cui la flat tax degli autonomi è introdotta fa violenza alla coerenza complessiva del sistema fiscale anche sotto altri profili. Per ricordarne brevemente alcuni: si estende im-propriamente il regime dei minimi, pensato per semplificare gli adempimenti sia burocratici che fiscali richiesti a soggetti marginali, privi di una organizzazione im-prenditoriale, a contribuenti che minimi non sono, con volume di affari fino a 65.000 euro, a cui viene riconosciuta la determinazione forfetaria dei costi, l’esenzione dall’IRAP, la possibilità di non adde-bitare l’IVA sui servizi e beni che vendono (a fronte dell’indetraibi-lità dell’IVA sugli acquisti), il pagamento di una imposta sui redditi del solo 15%. A questo regime sostitutivo se ne affianca un altro, praticamente identico, riservato a soggetti con ricavi compresi fra i 65.000 e i 100.000 euro, cui viene però richiesta/riconosciuta la determinazione analitica dei costi. Una scelta di questo tipo apre importanti interrogativi: quale fisionomia si vuole dare a un’imposta come l’IRAP, completamente e progressivamente svuotata del suo si-gnificato originario? Quali distorsioni della concorrenza provocherà l’ampliamento dei soggetti esenti da IVA, che potranno traslare sui prezzi un onere di imposta (quello dell’IVA sugli acquisti) inferiore rispetto a quello imposto ai soggetti non esenti? Quali meccanismi elusivi si potranno mettere in moto per trasferire la fatturazione dei ricavi dai contribuenti con ricavi elevati a soggetti così poco tassati? Quale imprenditore o lavoratore autonomo sano di mente si adope-rerà per superare, senza ricorrere al nero, la soglia dei 100.000 euro e trovarsi così, non solo fuori da un regime di estremo favore, ma an-che a sopportare aliquote marginali di gran lunga superiori al 100%, e cioè a pagare imposte in misura superiore al maggior reddito che ottiene? Questo è in aperta contraddizione con la finalità assegnata alla flat tax di incentivare a produrre maggior reddito.

LA “PACE FISCALE”

Sempre rimanendo nel campo fiscale, il balletto sui condoni ha indubbiamente aperto una contraddizione all’interno della maggioranza, che ha portato a un significativo ridimensionamento dell’aspetto più preoccupante della proposta leghista: la dichiarazione integrativa speciale. Ma ha avuto anche l’esito di avvalorare l’ipocrisia con cui M5S e Lega chiamano “pace fiscale” quello che, in continuità con quanto fatto da tanti governi precedenti, è un sistematico regalo a principale beneficio di evasori fiscali. Ricorreranno al condono non contribuenti ravveduti, ma contribuenti motivati dalla volontà di ridurre le conseguenze dell’essere stati scoperti dalla amministrazione finanziaria: un processo verbale di constatazione, un avviso di accertamento, di rettifica o di liquidazione, un accertamento con adesione. È vero che potranno aderire ai condoni solo coloro che avevano fatto la dichiarazione dei redditi, ma i 120 miliardi di evasione fiscale nel nostro paese sono solo in minima parte imputabili a evasori totali. Nella maggior parte dei casi si nasconde al fisco solo una parte dei propri guadagni, o li si dichiara correttamente ma poi non si versa il dovuto, puntando sulle armi spuntate della riscossione coattiva, sui suoi tempi lunghi, sull’ineluttabile arrivo della successiva sanatoria.

Ipocrisia si riscontra anche nel cosiddetto stralcio delle mini cartelle, che così mini poi non sono, dal momento che il tetto dei 1000 euro si riferisce ai singoli ruoli, che si sommano in capo al singolo contribuente, che si troverà sanato, d’ufficio, per importi ben più elevati. Le difficoltà economiche in cui si sono trovati molti contribuenti a fronte della crisi e che hanno indotto a prevedere generosi programmi di rateizzazione delle imposte dovute continuano a essere addotti come scusa per rottamazioni di cartelle emesse neanche un anno fa (31 dicembre 2017).

Stando ai dati contenuti nell’allegato alla NADEF, l’incidenza dell’e-vasione fiscale per quanto riguarda l’IRPEF dei lavoratori autonomi e delle imprese è stata, negli anni 2013-15, mediamente pari al 68,3%, quella relativa all’IRPEF dei lavoratori dipendenti al 3,5%. Anche la pace fiscale si configura quindi come un intervento che si rivolge a lavoratori autonomi e imprese e lascia a bocca asciutta i lavoratori dipendenti, costretti all’onestà fiscale dal meccanismo del prelievo alla fonte. Meccanismo che, guarda caso, scompare, sia pure nella sua funzione di mero acconto, nel caso della flat tax per gli autonomi.

QUOTA 100

La promessa di smantellare la riforma Fornero, che ha sicuramente assicurato non pochi voti, sembra tradursi, per ora, in una mode-sta, per quanto costosa, riproposizione di un meccanismo di quote: quota 100 (38 anni di contributi e 62 anni di età). Una pensione d’anzianità specificamente diretta a un segmento della popolazione: maschi, del Nord e con una carriera lavorativa continuativa alle spalle, ai quali, diversamente da quanto si è fatto con Opzione donna, non si impone alcun ricalcolo contributivo.

Quota 100 non assegna quindi valore all’equità attuariale (corrispondenza fra contributi versati e pensione ricevuti). Quella stessa equità che è invece posta alla base della battaglia alle pensioni d’oro, per le quali si invoca un ricalcolo contributivo. Poco importa se poi questo ricalcolo non è tecnicamente possibile. La penalizzazione proposta, al di là dei proclami, è infatti funzione della distanza fra l’età in cui si è andati in pensione, per anzianità, rispetto all’età di vecchiaia all’epoca prevista. Viene quindi penalizzata quella stessa pensione di anzianità che è invece invocata con quota 100. E, come rilevato nell’audizione del presidente dell’INPS, la contraddizione emerge per il fatto che quota 100 crea non pochi pensionati d’oro. Sono completamente ignorati, non tanto e non solo dalla legge di bilancio, ma nella prospettiva in cui la stessa dovrebbe essere inserita, problemi fondamentali del nostro sistema pensionistico. Alcuni esempi: quali rimedi si propongono alle prospettive pensionistiche nefaste per i giovani, che entrano nel mercato del lavoro con contratti precari e frammentati, e per le donne, con carriere discontinue? Come si correggono i meccanismi del sistema contributivo che, a regime, condiziona la possibilità di andare in pensione alla maturazione di una pensione adeguata, permettendo così ai lavoratori con più alte retribuzioni di lasciare il lavoro anticipatamente, per anzianità, e costringendo invece i meno agiati a rimanere in servizio oltre l’età di vecchiaia? Non si discute più della pur necessaria revisione del meccanismo che aggancia l’età pensionistica alle aspettative di vita (forse perché nasce con Maroni e non con la Fornero?), anche per tenere conto delle diverse articolazioni che questa aspettativa ha, ad esempio, in funzione della professione svolta.

REDDITO DI CITTADINANZA E PENSIONE DI CITTADINANZA

Le tematiche relative alle pensioni si intrecciano con quelle che riguardano le politiche sociali. Il reddito di cittadinanza, che in quanto meccanismo principalmente diretto a contrastare la povertà assoluta dovrebbe essere universale, cioè rivolto a tutti i nuclei familiari in povertà, viene diviso, secondo un approccio ca-tegoriale, anche questo funzionale a raccogliere consenso, in un reddito di cittadinanza e in una pensione di cittadinanza. Fissare la pensione di cittadinanza a 780 euro, per una persona single, significa tuttavia eliminare ogni premialità per chi ha maturato la propria pensione versando contributi rispetto a chi invece necessita di un intervento prevalentemente assistenziale, in net-to contrasto con l’esaltazione dell’equità attua-riale evocata in tanti frangenti. L’effetto potreb-be essere quello di spingere le persone prossime alla pensione, che non abbiano già maturato una pensione superiore a quella di cittadinanza, a lavorare in nero, perché i contributi che versano non comportano nessun miglioramento nelle aspettative reddituali future.

L’enfasi posta sulle pensioni di cittadinanza, sino a farne una priorità rispetto allo stesso reddito di cittadinanza, è mal riposta: l’incidenza della povertà assoluta delle famiglie diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento. Riguarda, secondo gli ultimi dati for-niti dall’Istat, il 9,6% di quelle con capofamiglia sotto i 35 anni e il 4,6% di quelle con capofamiglia sopra i 64 anni. E allora perché partire proprio dai pensionati che, quando poveri, sono comunque e giustamente già destinatari, come tutti gli altri cittadini, del reddito di inclusione (REI) e potrebbero esserlo anche del reddito di cittadinanza?

Quest’ultima misura, identitaria per il M5S e che ne ha favorito il successo al Sud, è in una fase di definizione dagli esiti ancora incer-ti. Rispetto all’ispirazione iniziale che la vedeva come primo passo verso un reddito “universale e incondizionato”, ha accentuato via via – probabilmente sia in ragione delle pressioni della Lega, da sempre contraria a misure di questo tipo, sia per la paura che un trasferimento di ammontare così più elevato di quello generalmente previsto dalle misure di contrasto alla povertà negli altri paesi possa generare comportamenti elusivi e trappole della povertà (disincentivo al lavo-ro) – l’attenzione al condizionamento. Ciò ha indotto a concentrarsi sui poveri attivabili al lavoro e a mettere in secondo piano, quando non a ignorare, quanto meno nella comunicazione, tutti quelli che attivabili non sono, o perché già lavorano (working poor), o perché impegnati in lavoro di cura, o perché gravemente disabili, e ad assegnare alla pur doverosa e meritevole riforma dei centri per l’impiego un ruolo salvifico che, a fronte della debolezza strutturale, particolar-mente accentuata in alcuni territori, dell’economia italiana, non può ragionevolmente svolgere.

È auspicabile che, al di là delle dichiarazioni roboanti, la ragionevolezza prevalga e l’esperienza accumulata dalle amministrazioni – centrale, locali e INPS – nella faticosa costruzione, per la prima volta, di una misura universale di contrasto alla povertà come è l’ultima edizione del REI, in vigore dal 1° luglio 2018, non venga completamente dispersa. Sarebbe un ripartire da capo in una storia, quella del contrasto alla povertà, che nel nostro paese, anche in ragione delle forti resistenze culturali, fatica ad affermarsi e a cui invece il reddito di cittadinanza potrebbe dare un significativo impulso positivo.