La Sinistra di fronte all’obsolescenza del suo approccio al reale

Di Massimo Mucchetti Venerdì 16 Novembre 2018 11:44 Stampa


Nella sua storia secolare la sinistra occidentale ha seguito diverse idee guida, di variabile consistenza: la collettivizzazione della proprietà dei mezzi di produzione, la pianificazione generale, la programma­zione democratica, lo Stato imprenditore e il welfare pubblico, e poi la liberalizzazione dei movimenti dei capitali, delle merci e, meno, delle persone, le privatizzazioni delle partecipazioni statali e del wel­fare, l’impresa come generatrice di valore per gli azionisti, la scoperta della concorrenza. Le prime di queste idee guida appartengono alla radice comunista della sinistra, altre a quella socialdemocratica, altre ancora sono state riprese dalla cultura politica della destra e dall’i­deologia liberista e fatte proprie da una sinistra in crisi d’identità da trent’anni. Potremmo disquisire sull’impatto che tali idee hanno avuto sulle persone e sulle istituzioni politiche. Anzi, dovremmo. Ma in questa sede conviene limitarsi a notare come si tratti di idee che, per lo più, hanno fatto il loro tempo. L’afasia della sinistra di fron­te all’emergere prepotente della protesta populista e sovranista – la “Contro-rivoluzione” di cui scrive Jan Zielonka – si spiega anche con questa obsolescenza delle basi culturali della sinistra medesima prima ancora che con la modestia professionale dei suoi ultimi esponenti, incapaci di rompere la stagnazione economica dei ceti medi che quel­la protesta, come ha recentemente ricordato anche l’“Economist”, ha generato in Occidente.

La sinistra dunque – ma vorrei dire la politica democratica nel suo complesso – non può non ripartire dalle ragioni dell’obsolescenza del proprio approccio al reale. E non faccio certo una scoperta se dico che, a cavallo tra l’oggi e il domani, queste ragioni di fondo sono rintracciabili nella trasformazione digitale dell’economia e, più in generale, dello stile di vita e dei valori morali della società civile con i conseguenti riflessi sull’organizzazione della politica. Una tra­sformazione profonda e diffusa che culmina nell’avvento dell’intelli­genza artificiale, capace non solo di eseguire un comando ma anche di prendere decisioni, in qualche caso perfino di natura etica. Uso la parola avvento deliberatamente per il suo rimandare evangelico alla preparazione dei credenti alla nascita del Figlio dell’uomo che è Dio, e cioè fonte della più importante delle costruzioni scientifico-filosofiche – l’origine del mondo – e dei valori morali e delle regole etiche – i comandamenti. L’intelligenza artificiale, anch’essa Figlia dell’uomo, annuncia la ricostruzione del mondo – una nuova origi­ne – e la tendenziale disintermediazione dell’umanità nelle decisioni, anche etiche e cioè supremamente umane. Big Tech, insomma, che a un tempo è scienza, tecnologia, economia, etica. Anche morale?

Naturalmente, queste radicali novità coesistono con le attività tra­dizionali così come la prima manifattura industriale coesisteva con l’artigianato. E tuttavia ne rinnovano in modo pervasivo le modalità di funzionamento e le riordinano secondo una nuova gerarchia del potere che relega in secondo piano le architravi della società moderna dell’ultimo secolo, e cioè la finanza e l’industria.

In verità, anticipando la politica, i mercati finanziari hanno rico­nosciuto già da alcuni anni il nuovo ordine. Quattro delle prime cinque società al mondo per valore di Borsa sono piattaforme digitali o motori di ricerca, tutte di recente fondazione. Non sono le prime per fatturato e meno che mai per occupazione. Dieci anni fa, al ver­tice c’erano storici produttori di automobili e di risorse energetiche. Non è irrilevante notare come questi nuovi signori dell’universo, in gergo gli over-the-top (tutti americani o cinesi), punta di lancia del Big Tech, non abbiano debiti né ricorrano ad aumenti di capitale. Crescono ma non hanno bisogno dei soldi degli altri per crescere. Investono molto, è vero, ma guadagnano ancora di più. Ad esempio, Google spende in ricerca e sviluppo quanto Volkswagen, pur aven­do dimensioni fisiche meno imponenti, ma una parte cospicua dei profitti le resta in casa come liquidità. Di più, essendo considerata un’impresa innovativa, la società californiana non subisce nemmeno le pressioni dei mercati finanziari per remunerare gli azionisti con dividendi e riacquisto di azioni proprie. Accumula. Potenza che si aggiunge a potenza. Potenza di mercato, che soffoca sul nascere i concorrenti nei settori d’elezione: non avrai altro motore di ricercaal di fuori di Google (o Baidu, se operi in Cina) o social network globale al di fuori di Facebook. Potenza finanziaria, che emancipa gli over-the-top dalla schiavitù del debito e dall’obbligo di ripagare il capitale con i profitti d’impresa al quale obbligo invece, come ricor­da William Lazonick, si è subordinata pure una Microsoft costretta da Wall Street a indebitarsi per acquistare azioni proprie. Potenza operativa, che tende a subordinare l’industria: Apple progetta l’auto senza conducente, i costruttori la realizzeranno e Apple, data la sua ricchezza, potrà decidere se comprarsi uno o più costruttori, aggiun­gendo un business alla sua offerta, o se diventare il fornitore strategi­co dei costruttori lasciando loro il ruolo, che hanno sempre avuto, di integratori di sistemi. Potenza pura, infine, nel momento in cui gli over-the-top si saldano con l’intelligenza artificiale.

Le cronache ancora brevi degli over-the-top e le prospettive fanta­scientifiche dell’intelligenza artificiale inducono a domandarsi se non stiamo entrando a vele spiegate nel postcapitalismo: in un tem­po nel quale formazione e utilizzazione del capitale sembrano as­servite all’accrescimento senza fine della potenza dell’impresa prima che alla remunerazione del capitalista. La quale remunerazione resta, ma avviene solo o principalmente attraverso l’aumento delle quo­tazioni. È una domanda, questa, non una conclusione. Ma tendo a pensare che il nuovo ordine non riproponga la visione di Walter Rathenau, secondo il quale il fine primario della compagnia di navigazione era quello di collegare le città sul Reno essendo la remunerazione dell’armatore la conseguenza premiante del buon servizio reso dai battelli. Se volessimo inquadrare in termini filosofici i più recenti sviluppi dell’economia e della tecnologia, dovremmo chiederci se Marx non debba cedere il passo a Emanuele Severino: se il trionfo del capitalismo, seguito al crollo del muro di Berli­no, non sia un trionfo apparente che lascia infine emergere il vero trionfo che è il trionfo della tecnica; se, in ultima analisi, la potenza non risieda nella tecnica più che nel capitale e dunque, se la critica classica della globalizzazione, da papa France­sco a Dani Rodrik, per quanto suggestiva, non rischi di rimanere al di qua della sfida più radicale, che non si esaurisce nella critica allalibera circolazione dei capitali ma entra nel nucleo teorico fondante di Big Tech.

Ora, se queste domande hanno un senso, è la politica a chiedere di essere ripensata. E la sinistra potrà continuare a esistere se saprà far valere nel tempo nuovo i suoi valori. Valori che si presuppongono eterni, valori di origine in qualche modo religiosa. Diversamente, e non me ne sorprenderei, la sinistra perderebbe la propria ragion d’essere politica. Credere di poter reagire alla controrivoluzione po­pulista e sovranista attraverso la denuncia pedagogica dei rischi che questa farebbe correre alla democrazia rappresen­tativa e all’economia, senza capire e correggere i limiti delle democrazie rappresentative rispetto all’evoluzione dell’economia e della tecnologia sperimentati negli ultimi trent’anni, segnala uno spirito conservatore destinato a non avere effica­cia né in politica né in economia. Forse conviene tornare a riflettere partendo dalle nostre radici.

Nella parabola dei lavoratori della vigna, il pa­drone assume tutti i disoccupati del villaggio e dà loro uguale salario senza guardare al tempo lavorato da ciascuno. I braccianti dell’undicesima ora ricevono la stessa moneta di chi aveva faticato fin dal mattino. Un’evidente ingiustizia secondo il metro di giudizio dell’economia. Ma è anche possibile scorgere in quella spro­porzione la sintesi tra giustizia e uguaglianza. Non è senza significato che una tale interpretazione sia stata data da Giovanni Bazoli, e cioè da un cattolico che fa il banchiere. Chi era rimasto senza far nulla per le dieci ore precedenti non era un fannullone, ma un uomo che aveva sofferto la mancanza del lavoro. La retribuzione viene data in misu­ra apparentemente sproporzionata perché implica il risarcimento di una sofferenza. La parabola ci dice che il padrone rispetta il patto proposto ai lavoratori (una moneta al giorno, il fabbisogno per il loro sostentamento), ma non conta le ore perché è generoso (qualità morale), può farlo in quanto padrone (condizione giuridica) e può infine sfidare i braccianti della prima ora, che protestano, insinuando il dubbio che siano invidiosi della sua generosità a vantaggio degli esclusi (giudizio morale). La decisione del padrone definisce un’etica alla quale vengono subordinate l’economia e la giustizia umana. Una supremazia che l’evangelista Matteo fa calare dall’alto (dal padrone, che ha il diritto di essere tale e, aggiungerei, dispone di risorse suf­ficienti in un contesto dato, il villaggio) per semplificare la comu­nicazione di una verità religiosa universale (la vigna del Signore, il villaggio globale dove a ciascuno viene dato quanto serve per vivere, mostra come funziona il Regno dei cieli).

Per quanto provocatoria e rivoluzionaria sia questa parabola (dei quattro evangelisti ne riferisce solo Matteo), essa propone un gioco che si svolge tra persone. Anche Gesù è uomo. E Gesù si rivolge a uomini che hanno in mano – che possono credere di avere in mano – il proprio destino. La sinistra come luogo politico degli ultimi – degli esclusi e dei lavoratori, a partire da quelli dell’undicesima ora – può esigere per tutti il diritto a una vita decente trovando i compromessi necessari tra l’umano (i lavoratori che esigono una paga proporzio­nata alla fatica) e il sovrumano (la paga uguale per tutti perché tut­ti devono poter vivere). La sinistra può costringere il padrone della vigna a essere generoso. Può trasformare la libera scelta del padrone (il potere, che può anche essere generoso, ma anche no, il capita­lismo compassionevole) in un dovere del padrone che i lavoratori della vigna conquistano con la legge e con la contrattazione, con ciò trasformando una liberalità che viene dall’alto in un diritto che sorge dal basso, dal lavoratore che, come direbbe Giuseppe Di Vittorio, non si rivolge più al potente con il cappello in mano. Nel Novecento, con la crescita dei salari e il wel­fare, la sinistra è riuscita a perseguire questa fina­lità negli Stati nazione di una parte del mondo: quella che disponeva a prezzo vile delle risorse dell’altra parte del mondo, attraverso il colonialismo e il neocolonia­lismo. Con i sindacati, i partiti, i governi, insomma con la politica, la sinistra novecentesca ha potuto formare un diritto. Ma nell’era di Big Tech (e delle migrazioni) chi sarà il padrone della vigna e quale sarà la sua legge?

Il successo dei nuovi signori dell’universo tende a distruggere il pote­re di governare l’economia e la società da parte della politica. Per go­verno dell’economia, a scanso di equivoci, non intendo ovviamente la pianificazione sovietica, ma la generazione del diritto entro il quale si svolgono l’attività economica e la vita delle persone. Un processo, questo della generazione del diritto, che è già largamente indebolito da due fenomeni convergenti che, per quanto ormai ampiamente dibattuti, vale la pena ricordare.

Il primo fenomeno consiste nella disintermediazione delle istitu­zioni politiche nazionali, in particolare dei Parlamenti, a favore di numerose burocrazie sovranazionali, nominate certo dai governi ma considerate ormai come un ceto capace di perseguire interessi cor­porativi propri connessi con quelli del famoso 1% della società che monopolizza i vantaggi economici del progresso. La partecipazione al processo decisionale ne soffre e, con essa, la legittimazione perce­pita delle decisioni.

Il secondo fenomeno consiste nella riduzione dell’efficacia del dirit­to, che ha comunque una giurisdizione definita su base geografica: la liberalizzazione dei movimenti dei capitali consente ai detentori del capitale di scegliere dove allocarlo sulla base delle proprie convenien­ze. E nel momento in cui si genera un ceto professionale cosmopolita in grado di lucrare denaro e potere cavalcando i flussi finanziari, che esso stesso genera grazie anche a un’organizzazione della società a questo finalizzata, ecco che insorge la protesta populista e sovranista. Una protesta nella quale i proletari, mi sia perdonato questo vocabo­lo ottocentesco, possono trovare al proprio fianco (o alla testa) una parte tendenzialmente larga di imprenditori e detentori del capitale. Ma ora, se il luogo di formazione del valore è la rete, per sua intima costituzione senza confini, se gli over-the-top operano come multina­zionali di tipo nuovo naturaliter mondiali, se l’intelligenza artificia­le fonderà i nuovi standard produttivi globali, quale potrà essere la reazione del populismo, del sovranismo, della politica della sinistra, della politica tout court?

Le prime, orgogliose reazioni sono venute da civiltà millenarie, lon­tane da noi. L’India è stata il primo paese a introdurre una web tax sui ricavi di alcune attività online. La Cina ha dettato con successo le sue regole ai motori di ricerca favorendo un proprio campione nazionale, Baidu, e oscurando Google perché la multinazionale ca­liforniana non ne accettava i diktat. Le finalità censorie del regime di Pechino – un nuovo mandarinato comunque meritocratico – non sono accettabili per noi e tuttavia non possiamo non riconoscere che non hanno impedito la fioritura di Big Tech in Cina e che Google si sta ora piegando perché più dei suoi cosiddetti principi vale la po­tenza che viene dall’essere presenti su un grande mercato. L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno iniziato a muoversi solo adesso, a causa della difesa degli over-the-top alla quale hanno partecipato an­che la Casa Bianca obamiana e, nel nostro piccolo, il palazzo Chigi renziano. UE e USA si stanno concentrando sulla difesa della privacy e sulla tutela della concorrenza. La salvaguardia della privacy è diven­tata cruciale nel momento in cui si è accertato che hacker pilotati dal Cremlino erano entrati nelle case americane via Facebook e Twitter favorendo il candidato Trump. Il ceto politico, di parte democratica, si è mosso sostanzialmente solo sulla privacy e solo quando ha temu­to di non poter fare il suo gioco in libertà. Non dimentichiamo che il candidato Barack Obama si giovò assai dei social network. Il ceto politico repubblicano non ha potuto non seguire, pur differenzian­dosi sulla questione russa, ma va estendendo il raggio della critica agli over-the-top in quanto tali. Il risultato è che, spinta da un inte­resse corporativo, la politica si sta ponendo l’esigenza di difendere i confini statali nelle condizioni nuove, di imporre una giurisdizione. A Pechino come a Washington.

La tutela della concorrenza, richiesta dalle imprese insidiate dagli over-the-top, che conservano ovviamente un’influenza non banale, può incidere più in profondità. Specialmente se si connette alla tute­la dei diritti economici della privacy. Se la vita delle persone nell’età contemporanea produce informazioni che fondano le piattaforme digitali e la stessa intelligenza artificiale, come non attribuire un va­lore a queste informazioni? Se la loro infinita frammentazione rende difficile trasformare questo valore in un prezzo pagabile alla persona in questa fase dello sviluppo tecnologico, non di meno i cittadini possono esigerne il pagamento in forma associata attraverso la tassa­zione dei ricavi delle multinazionali del web. In tal modo, non solo si porrebbe fine all’arbitraggio fiscale degli over-the-top ma si creereb­be un precedente che insidierebbe anche gli arbitraggi fiscali delle multinazionali tradizionali resi possibili dalla liberalizzazione della circolazione dei capitali. E se infine così si decidesse, cambierebbe fa­talmente anche la politica della concorrenza sia per quanto riguarda i criteri per determinare le posizioni dominanti sia per quanto riguar­da la definizione degli abusi di posizione dominante e i conseguenti rimedi.

Detto tutto questo, e taciuto per carità di patria il sostanziale disin­teresse della politica italiana in tali materie, una simile ridefinizionedelle regole del gioco trae origine da una visione liberale della società, che, sotto questo profilo, non viene cancellata nemmeno da Trump. Anzi. Ma la sinistra? Come si colloca la sinistra nella nuova vigna terrestre? Può certo sostenere la visione liberale contro le incertezze dei liberali schiavi degli equivoci dei liberisti, può tagliare un po’ le unghie ai nuovi monopoli. Può battagliare affinché il gettito fiscale, alimentato anche da forme di web tax, sia sufficiente a sostenere il welfare pubblico a vantaggio dei lavoratori indigenti come faceva il Signore della vigna, essendo il welfare privato fruibile solo da chi ne ha i mezzi. Tutto ottimo. E può forse bastare per individuare un pro­gramma elettorale. Che cos’è infine il reddito di cittadinanza se non la moneta elargita dal Signore agli esclusi che hanno potuto lavora­re troppo poco? Che cos’era il reddito di inclusione come pensato da Enrico Giovannini? Ma, alzando lo sguardo, vediamo che stanno cambiando le strutture portanti dell’economia, e cioè l’essenza del lavoro e il rapporto del lavoro con il capitale.

Nel mondo del lavoro digitale, l’iniziativa del singolo sembra preva­lere su quella collettiva rideterminando gli interessi e le aspirazioni delle persone. Nella comunicazione internettiana, le informazioni si deformano nell’individualismo delle opinioni riorganizzate in tante greggi rendendo difficile il dialogo tra i diversi e minando le fonda­menta delle organizzazioni politiche storiche. Del resto, la funzione del capitale muta per l’ennesima volta. Già nell’ultimo trentennio il capitale investito nelle attività economiche si era ridotto a una fra­zione del capitale investito in attività finanziarie. E, nonostante tanti nuovi Creso, sono cresciuti a dismisura i capitali affidati da proprietà parcellizzate a un ceto professionale cosmopolita ristretto. Ma oggi, se i signori dell’universo non hanno bisogno dei soldi degli altri per lavorare, se non nella fase di start up, il capitale – la sua organizzazio­ne finanziaria – si limiterà a comprare e vendere titoli accentuando la tendenza della Borsa a essere luogo di scambio e non di sviluppo. Ma l’emarginazione tendenziale del potere finanziario e del potere indu­striale determinata dallo sviluppo degli over-the-top richiede alla sini­stra una nuova Bad Godesberg. Quell’antico congresso della social­democrazia tedesca sancì l’accettazione del capitalismo industriale temperato dalla partecipazione sindacale alle decisioni, in Germania attraverso la Mitbestimmung, altrove con la contrattazione, ovunque attraverso un ruolo di regolazione e intervento dello Stato nell’eco­nomia. Ma quella svolta maturò nel cuore di un Occidente ancora padrone del mondo e contrapposto all’alternativa comunista dopo una lunga storia nella quale l’evoluzione della grande industria – il fordismo, l’impresa manageriale – si era intrecciata addirittura con due guerre mondiali. Oggi, senza avere quel tempo e quelle prove alle spalle, la sinistra deve capire se e che cosa deve accettare della nuova vigna terrestre, alla quale le persone non rinunciano, e quali monete eventualmente pretendere. A meno che, alla fine, continui a pensare, come i democratici americani e italiani hanno fatto per anni, che l’algoritmo della bontà e della libertà, spacciato fin qui dagli over-the-top, corrisponda al vero.