Nel cuore dell’Ungheria di Orbán

Di Massimo Congiu Venerdì 16 Novembre 2018 11:58 Stampa


Ininterrottamente al potere dal 2010, Viktor Orbán è attualmente noto per essere uno dei leader europei più impegnati nell’affermazio­ne di istanze identitarie e sovraniste. In questi ultimi otto anni si è speso molto, con l’aiuto dei suoi più stretti collaboratori, per creare in Ungheria un sistema fortemente dirigista, teso al controllo dei settori strategici della vita pubblica del paese.

La nuova Costituzione, entrata in vigore all’inizio del 2012, è chia­ramente conservatrice e autoritaria; il suo contenuto indica alla po­polazione i valori secondo cui vivere: patria, cristianesimo e famiglia. Chi li segue è, secondo la retorica del potere, un degno figlio di que­sta terra, chi non lo fa non merita di essere chiamato ungherese. È da tempo che Orbán e i suoi manipolano simboli e significati nazionali; dall’epoca del suo primo governo, quello che ha guidato il paese nel periodo compreso fra il 1998 e il 2002. Un po’ prima delle elezioni vinte poi dai socialisti e dai loro alleati liberaldemocratici, Orbán aveva esortato chiunque si sentisse veramente ungherese a portare sulla giacca la coccarda tricolore anche dopo la festa nazionale del 15 marzo che ricorda i moti risorgimentali magiari. La sua retorica nazionalista aveva assunto toni particolarmente forti in quell’ultimo scorcio di legislatura dando inizio alla distinzione fra i veri unghere­si e coloro i quali coltivano e alimentano sentimenti antipatriottici. Una distinzione ripresa in modo aggressivo con l’avvento dei suoi nuovi governi che hanno accentuato le divisioni già peraltro esistenti nel paese. Divisioni sociali, economiche e politiche, queste ultime fra chi è con Orbán e chi contro, fra chi è per la difesa della sovranità nazionale e chi si colloca in una prospettiva europea.

L’attuale primo ministro ungherese è stato abile a toccare corde alle quali i suoi connazionali sono sensibili ed è riuscito ad accreditarsi presso molti di loro come unico uomo politico ungherese in grado di difendere gli interessi nazionali. L’unico capace di difendere il paese dalla “tecnocrazia” di Bruxelles che vorrebbe dettar legge in casa d’altri, dalle multinazionali, dai magnati liberali che vogliono fare dell’Ungheria e del resto del continente una colonia del capitale glo­bale, e oggi anche dai migranti.

È dal 2015 che, in un clima di campagna elettorale permanente, quello dell’immigrazione risulta essere il tema centrale della propa­ganda governativa. In più occasioni il premier ha avuto modo di dire pubblicamente di non considerare positivo, da nessun punto di vista, il fenomeno in questione. Orbán non ritiene che l’atto del migrare sia un diritto umano, tra quelli fondamentali. “Ognuno a casa pro­pria” è il principio cui fanno riferimento il primo ministro e i suoi collaboratori e sostenitori.

Tre anni fa, quando i flussi migratori verso l’Europa avevano rag­giunto dimensioni considerevoli, Orbán ha capito di poter sfruttare la situazione sul piano politico e si è impegnato ad alimentare nell’o­pinione pubblica la paura dell’invasione, cosa che fa tuttora. Il leader danubiano paventa l’invasione dell’Ungheria e, del resto dell’Europa, da parte di “orde” di migranti musulmani che minacciano l’identità culturale del Vecchio con­tinente, identità che per il nostro è eminente­mente cristiana. Con questa propaganda e con la promessa di difendere il territorio nazionale, il suo governo è riuscito, gli anni scorsi, a recu­perare un po’ di consensi perduti, e la campagna continua. Contro il magnate americano di ori­gine ungherese George Soros e le ONG da lui finanziate o a lui riconducibili e accusate di voler fare dell’Ungheria una terra di immigrazione. Molti credono a queste tesi anche se nel periodo più critico dell’emergenza migranti, siriani, iracheni, afgani e altre popolazioni in fuga dai loro paesi, vedevano l’Ungheria solo come un paese da attraversare per raggiungere mete più ambite: gli Stati dell’Europa occidentale, con in testa la Germania. Nonostante ciò non sono pochi gli ungheresi che danno credito al loro governo su questo punto e numerosi sono anche i non ungheresi che vedono in Orbán il leader che ha capito come comportarsi con Bruxelles. E il confronto-scontro del capo del governo ungherese con le istituzioni europee continua a maggior ragione dopo che, lo scorso settembre, il Parlamento europeo ha approvato il rapporto della eurodeputa­ta olandese verde Judith Sargentini. Un dossier secondo il quale la politica dell’esecutivo di Budapest minaccia seriamente lo Stato di diritto in Ungheria. La risposta degli accusati è stata che il rapporto rappresenta solo la «vendetta meschina dei politici favorevoli all’im­migrazione» e che il governo magiaro sta valutando l’opportunità di presentare un ricorso dal momento che, a suo parere, la votazione non è da considerarsi valida in quanto non sarebbe stato tenuto con­to delle astensioni.

Il premier magiaro è diventato il simbolo della lotta per l’afferma­zione delle sovranità e identità nazionali. Insieme agli altri leader del Gruppo di Visegrad (V4), sostiene il principio dell’Europa delle nazioni e delle patrie e respinge il criterio dei ricollocamenti, rifiuta cioè un meccanismo che l’UE, secondo il V4, vorrebbe imporre ai paesi membri senza sentire il parere dei Parlamenti nazionali e delle popolazioni interessate. Orbán si vanta oggi di aver indicato all’Eu­ropa la strada da seguire. Lui, primo ministro di un paese piccolo che ha avuto e ha il coraggio di dire no ai diktat di Bruxelles e che porta avanti questa politica, intensifica la propaganda e dialoga con altri leader europei come Salvini, per dar luogo a una saldatura dell’as­se sovranista anche in funzione delle elezioni europee che, secondo Orbán, decreteranno la disfatta del “partito dell’accoglienza”. I due si sono visti a settembre a Milano, dove si sono consultati e hanno confermato le convergenze esistenti fra di loro. A giudicare dalle pre­messe si può dire che l’attacco all’Europa verrà da queste forze politi­che, non certo da frotte di migranti devoti ad Allah. Il Fidesz, partito guida del governo magiaro, è membro del Partito Popolare Europeo (PPE), ma c’è chi si chiede se Orbán voglia uscire dal PPE; la sensa­zione è che voglia piuttosto cambiarlo dall’interno spostandone l’asse a destra, verso posizioni più nazionaliste. C’è da pensarci visto che il premier di Budapest è un abile manovratore. Sarà però interessante capire quali saranno gli sviluppi di questa particolare vicenda visto che oltre la metà del gruppo del PPE ha votato a favore del rapporto. Finora le parti sono riuscire a stabilire dei compromessi, bisogna ve­dere fin quando questo sarà possibile.

In patria Orbán ha realizzato un controllo sempre più capillare del sistema mediatico, ha messo le mani su quello scolastico promuo­vendo tra l’altro la riscrittura dei testi di studio in senso conservatore e nazionalista, più recentemente si è adoperato per portare anche l’Accademia Ungherese delle Scienze sotto l’occhio vigile del gover­no e minaccia sempre di più l’indipendenza del­la magistratura. Dopo le elezioni vinte lo scor­so aprile con l’ottenimento della maggioranza parlamentare di due terzi ha dato luogo a liste di proscrizione contenenti i nomi di ONG con­siderate agenti di Soros in patria e di attivisti, giornalisti, legali impegnati sul fronte dei diritti umani e perfino di studiosi rei di occuparsi di migranti e gay. Sì, perché l’omosessualità per il governo del Fidesz e per i suoi sostenitori è una deviazione, un problema morale e anche mate­riale perché, secondo la retorica del sistema, un paese come l’Ungheria che ha un saldo demogra­fico negativo, non può permettersi certe tenden­ze. La propaganda è martellante e ossessiva e ri­sulta essere particolarmente efficace nelle zone di provincia periodicamente percorse da manifesti governativi giganti che esaltano le conquiste del regime e indicano agli abitanti i nemici della patria che, guarda caso, vengono sempre dall’esterno. Il risul­tato è anche quello di distogliere l’attenzione da problemi interni e concreti: una sanità e un sistema scolastico che non funzionano, ad esempio, per non parlare della scarsità di manodopera specializzata che, quando può, va all’estero.

Finora Orbán è riuscito a neutralizzare l’opposizione politica i cui partiti, nella maggior parte dei casi, non hanno programmi alterna­tivi o veri progetti di cambiamento e si impegnano a sopravvivere. Momentum e il partito ironico del Cane a due Code (MKKP), han­no provato a portare qualcosa di nuovo e di fresco nel panorama po­litico ungherese ma non sono entrati in Parlamento. L’opposizione politica accusa Orbán di spingere l’Ungheria verso una deriva sempre più antidemocratica e di essersi allontanato da Bruxelles per stare al fianco di leader come Putin. Il problema è che essa è disunita e al momento incapace di dar luogo a una strategia comune per sottrarre spazio a Orbán. Anche i tentativi di Jobbik, nato come partito di estrema destra, impegnato ultimamente sul fronte del moderatismo, sono stati vani. La vittoria del Fidesz ad aprile è stata netta. In questi ultimi anni i settori progressisti della società civile si sono attivati in iniziative varie antigovernative senza però riuscire ancora a esprimere un soggetto politico che dia efficacemente voce agli antiorbaniani e proponga un’alternativa concreta. Il compito di questi ambienti oggi è resistere e investire pazientemente e tenacemente in democrazia, solidarietà e apertura al diverso, e non è cosa da poco.