Questione territoriale: nella relazione c’è la soluzione

Di Aldo Bonomi Martedì 19 Dicembre 2017 17:05 Stampa

Nel passaggio dal modello fordista e dal capitalismo dei distretti alla globalizzazione selettiva, che impone a città e territori una profonda metamorfosi, si ridisegnano punti di vista e prospettive che impongono di abbandonare lo sguardo verticale che da Torino e Milano si rivolgeva al Sud della questione meridionale per appropriarsi di una prospettiva orizzontale, con tutte le implicazioni di territorialità che comporta. È alla luce di questi grandi cambiamenti e della conseguente rimessa in discussione delle relazioni tra aree, città, distretti, Regioni e del rapporto di queste ultime con lo Stato centrale che va reinterpretata la questione territoriale.

Da ormai oltre un quarto di secolo, pari quasi a un terzo della storia repubblicana, ci interroghiamo sul rapporto tra territorio e politica, giungendo pressoché sempre alla conclusione che il territorio costi­tuisca la base per la quotazione di interessi particolaristici che mi­nano l’identità unitaria del paese, facendo prevalere gli interessi di una forma antropologica decaduta dall’alto degli ideali proclamati dalla Costituzione e cementati dal mito fondativo resistenziale. Ho sempre sostenuto, in questi anni, che per cercare di interpretare il cosiddetto “malessere dei territori” occorresse ragionare di qualcosa che viene prima della politica intesa come quotazione degli interessi collettivi nell’area decisionale pubblica. Quel “qualcosa” è da rinve­nire nella struttura dei modelli produttivi e della composizione so­ciale che lì agisce, perché è quello il luogo topico originario in cui si genera la materia prima plasmata dalla politica. E ciò era valido, quanto noto nelle analisi dell’epoca, anche durante il glorioso tren­tennio postbellico, in cui il territorio non era certo il nodo centrale dei conflitti politici, se non per questioni legate alla rappresentanza di minoranze linguistiche o culturali di confine. La stessa “questione meridionale” non si è configurata come conflitto tra centro e peri­feria, ma piuttosto come grande tentativo di inclusione nei processi di modernizzazione del Mezzogiorno da parte dello Stato attraverso la mitica Cassa del Mezzogiorno. Il nodo centrale del conflitto era la fabbrica fordista, e intorno alla grande fabbrica (privata o pubblica) e alla coscienza di classe si sono strutturati gli interessi e i conflitti dell’epoca, elaborando il desiderio di inclusione nel sistema di op­portunità e di mobilità sociale; conflitti che poi trovavano nei partiti di massa luoghi di elaborazione e rappresentan­za esercitata verticalmente sulle istituzioni dello Stato-nazione. Il quale Stato assumeva un ruolo portante nella produzione della cittadinanza at­traverso la promozione dei diritti civili, sociali e politici.

In teoria questa produzione di cittadinanza perseguiva l’idea egualitaria al di sopra dei par­ticolarismi (di ceto, di territorio ecc.), in realtà sappiamo che ciò non è avvenuto o è avvenuto solo parzialmente. Il modello fordista basato sul­la triade capitale, lavoro e Stato in salsa italica è perdurato sino all’inizio degli anni Novanta, quando è avvenuto un radicale mutamento strutturale del paradigma della modernità che molti di noi hanno testardamente continuato a voler ricondurre dentro le categorie del paradigma fordista. Il nuovo paradigma pone al centro della dinamica socioeconomica e della dialettica politica il conflitto tra flussi e luoghi che “differenzia” il posizionamento dei territori del paese in virtù di una diversa dotazione di capitale finan­ziario, economico, sociale, culturale dei luoghi e quindi di una di­versa capacità di adattamento all’apertura dei mercati internazionali (i flussi), in un quadro in cui lo Stato perde progressivamente la sua anima di soggetto dello sviluppo per diventare per lo più soggetto regolativo in corrispondenza con la trasformazione della CEE in UE e la successiva introduzione dell’euro, la moneta per stare nei flussi.

L’irrompere del territorio sulla scena pubblica degli anni Novanta non deriva solo dalla crisi del fordismo ma anche dall’affermarsi, secondo modalità differenziate, di modelli produttivi che covavano sin dagli anni Settanta nei sottoscala di mezza Italia (in particolare nella Terza Italia dei distretti di cui la sociologia politica di Bagnasco aveva già dato rappresentazione). Negli anni Novanta il sommerso ascendente degli anni Settanta e Ottanta che si fa capitalismo mole­colare diventa rapidamente la spina dorsale dell’economia del paese, oltre che una valida alternativa alla crisi della grande impresa fordista (sempre privata o pubblica). Ma proprio perché diventa spina dor­sale senza averne il riconoscimento e senza che venga immaginato un nuovo “patto di cittadinanza”, i territori impegnati in una fase in cui la globalizzazione appare ricca di opportunità e inclusiva assu­mono voce con i toni sempre più rivendicativi e rancorosi nei confronti di tutto quel mondo delle istituzioni rimasto ancorato alla visione fordista. Naturalmente, come spesso accade quando gli interessi dei territori si quotano alla politica, essi sposano il tema dell’identità territoriale, che ren­de ancora più difficile il dialogo, poiché il conflit­to identitario è quanto di più arduo da governare nella dimensione politica della mediazione.

Ed è così che il territorio vola nel cielo della po­litica, diventando “questione settentrionale” rega­landoci un ventennio di liberismo incistato nel rancore leghista e nell’individualismo proprieta­rio berlusconiano. È in questi anni che si depotenziano le due pa­role chiave della modernità politica, classe e nazione nella versione welfarista-novecentesca, mentre riappaiono termini antichi e inter­roganti come territorio e comunità. Il capitale si fa fabbrica diffusa, capitalismo molecolare; del lavoro si fanno coriandoli, disarticolan­do il blocco conflittuale dell’operaio-massa. Il territorio diventa di­mensione della modernità e della crescita. Territorio è ora il sociale che viene messo sotto sforzo nel processo di produzione del valore. I luoghi costituiscono la spazialità intessuta di reti corte, di rapporti di prossimità, di culture locali o produzioni tipiche. A sua volta il con­cetto di flussi sta a indicare l’ipertrofia di quell’aspetto delle società moderne relativo alla comunicazione e interconnessione tra ambiti diversi e spesso contrapposti. I flussi sono la manifestazione di istan­ze sistemiche caratterizzate da mobilità dei ruoli, mobilità geografica, simultaneità delle comunicazioni. Gli ultimi anni, quelli della globalizzazione che da inclusiva si è fatta selettiva, ci hanno insegnato che l’attuale fase economica, politica e sociale non può essere interpretata nei termini dell’attraversamento (“tutto tornerà come prima”), quanto della metamorfosi. Il mutare del punto di osservazione cambia quello che chiamiamo punto di vista. Che non è solo geografia, ma interpretazione della metamor­fosi in atto nelle economie, nelle società, nei territori. Che sono in preda a una fibrillazione accelerata che scomposta e ricomposta nei processi economici fa apparire le brevi e lunghe derive di passaggio dal fordismo al postfordismo sino all’economia della conoscenza e delle reti nella connectography dei flussi. Lo sguardo prima fissava la grande fabbrica e la statualità, poi si è posato sui distretti e le Regioni e oggi osserva piattaforme territoriali che riposizionano città, impre­se, università, autonomie funzionali.

A proposito di rivoluzione dello sguardo, osservando la geografia dello sviluppo territoriale, per capire occorre abbandonare quello sguardo verticale della nostra storia che partendo da Torino e Milano guardava al Sud con la sua “questione meridionale”. Finalmente an­che l’Autostrada del Sole arriva a Reggio, dove gli ultimi verticalisti sognano il ponte sullo Stretto, invece l’alta velocità si ferma a Napoli. Il salto d’epoca induce il passaggio dal verticale all’orizzontale con le sue implicazioni di territorialità. Orizzontalità significa guardare ai passaggi a Nord-Ovest e Nord-Est con in mezzo la Lombardia, Giano bifronte di un’area vasta che qualcuno voleva segnata da un’identità padana dei luoghi. Identità che è stata ridisegnata molto più dall’alta velocità, anche questa attesa a Nord-Est, il che rivela a proposito di piattaforme, mappe e reti, come scava nell’identità spazio-temporale il capitalismo delle reti che disegna le piattaforme.

La disarticolazione del fordismo di un tempo e della mappa dei di­stretti traccia un nuovo spazio di posizione non in una continui­tà evolutiva, ma in una discontinuità che crea vuoti, fa selezione e nuove gerarchie. Basta guardare ai vuoti di Torino company town, a Genova un tempo città dell’acciaio e al suo porto, alle metamorfosi di ciò che resta del polo dell’automotive nell’ex company town, al ter­zo valico sempre a proposito di reti che riguardano Genova o l’alta velocità in Val Susa, al Politecnico e al Parco scientifico e tecnologi­co-Erzelli in rete con Milano. In mezzo la “provincia granda” meta­fora non solo di Cuneo, ma delle città medie un tempo incardinate nella corona fordista. Oggi in ridefinizione. Stesse dinamiche in atto nella piattaforma lombarda con le quattro Lombardie in movimento dal distretto alpino alla ossatura manifatturiera della Pedemontana, all’asse agricolo-logistico attraversato dalla nuova autostrada che ta­glia i campi da Brescia a Milano.

La vera questione mi pare essere, anche qui, il rapporto nella Piatta­forma Lombarda tra Milano e le città snodo della rete territoriale che non sono mai state incastonate nella corona di una Milano mai stata del tutto fordista, ma da sempre città anseatica delle reti, e oggi polo di reti nella connectography globale e nella orizzontalità tra Torino e Trieste. Più che quella dell’autonomia verticale e isti­tuzionale i processi di modernizzazione dell’e­conomia pongono la questione di autonomie funzionali adeguate ai tempi: servizi alle imprese in selettiva metamorfosi, università, aeroporti, reti hard e soft, come il Salone del Mobile, da estendere ad altre eccellenze nelle piattaforme del made in Italy. Così come a Nord-Est dove la tenuta e i numeri della ripresa manifatturiera svelano che quel capitalismo molecolare che si era fatto distretti si sta evolvendo, la­sciando sul campo non poche vittime (crisi bancaria docet) in una piattaforma robusta di medie imprese o di gruppi un tempo fordisti come Electrolux o Fincantieri ristrutturati con forme iperflessibili dei lavori competitivi ma socialmente problematici.

Qui occorre pensare alla “città che viene” in grado di rapportarsi a Milano e a Torino sull’asse orizzontale più che guardare a Roma. Orizzontalità che non vale solo nel grande Nord, dove a pieno titolo sta il territorio Medio-Padano, con la sua valle dei motori, la crescita di un’economia dei distretti senza la cappa della Fiat, Bologna e le città emiliane in cambiamento con l’Appennino bucato che ne fa veloce discesa nell’Italia di Mezzo piattaforma nel capitalismo dolce dei distretti della grande bellezza, spaccata dalla faglia del terremo­to dove rifare soglia. A Roma e alla sua crisi non solo di capitale ma di città-regione da Civitavecchia all’Aquila. Napoli si riposiziona sull’asse verso Bari passando per Melfi, dove si ridisegnano l’ultima eredità verticale di Bagnoli e il recupero di Taranto. Poi ci sono le due isole, piattaforme di una geografia del Mediterraneo in turbolenza che le fa, contemporaneamente, isole dei turismi e degli sbarchi della moltitudine.

Per rimanere al Nord e alla questione dei referendum in Lombardia e in Veneto mi permetto alcune considerazioni. I federalisti di un tem­po si son fatti verticalisti e sovranisti verso Bruxelles con lo sguardo che da sempre da Nord cerca un suo Sud. Chi continua ad avere uno sguardo orizzontale non può che segnare nell’agenda dei territori al­cune urgenze. La modernizzazione dall’alto di piattaforme in grado di competere è, come abbiamo visto, una traccia incompiuta, lascia sul terreno vuoti sociali come quelli del fordismo o la crisi del capita­lismo molecolare che il capitalismo delle reti e dei servizi non riem­piono né in termini di lavori né in termini di coesione territoriale. Le piattaforme disarticolano Province, distretti, e attraversano Regioni disegnando aree vaste orizzontali che pongono questioni di gover­nance per Regioni troppo piccole e una statualità in preda da tempo a disegnare riforme istituzionali calate dall’alto. Infine l’Italia, vista in orizzontale in termini geo­politici e geoeconomici, appare immersa in quel­lo spazio mediterraneo di cui è porta e soglia di un’Europa in difficile costruzione perché anche qui prevale lo sguardo verticale che disegna l’Eu­ropa del burro e l’Europa dell’olio.

I referendum in Lombardia e Veneto non sono solo il riapparire carsico della questione setten­trionale. Invito a ragionare su un tema pre-poli­tico: la questione territoriale. Partendo, come sempre, dalle piccole e fredde passioni economiche, la struttura dei modelli produttivi e della composizione sociale, si sarebbe detto un tempo. Evitando, se è possibile, le grandi passioni identitarie che oggi, Catalogna docet, paiono prendere il posto delle ideologie. Ripartendo dai fondamen­tali, non dai fondamentalismi, nel salto d’epoca che tra flussi globali e luoghi di prossimità fa riapparire il territorio e anche le fibrillazioni dei confini nella geoeconomia. Epoca non più fordista, città e grandi fabbriche, non più, nel modello italico solo manifattura distrettuale o di filiera, ma conoscenza globale in rete, capitalismo delle reti che impone il salto selettivo all’Industria 4.0, la logistica del produrre per competere e nodi urbani da terziario evoluto di economia dei servizi che disegnano le global cities che temperiamo sognando smart cities. È anche questa una grande passione nell’ipermodernità dell’accele­razione.

In altre epoche di discontinuità della storia Braudel aveva fissato questa lunga deriva nel rapporto duale città-contado, sostenendo che non esiste città ricca senza campagna florida e viceversa. Dina­mica presente sin dal primo capitalismo nella sua evoluzione sino al quarto, al quinto, al sesto di oggi essendo arrivato al capitalismo delle reti.

Ma per tornare ai temi minuti del Lombardo-Veneto, per capire, serve usare le categorie impolitiche delle piccole e grandi passioni, dell’economia di prossimità da microcosmo e di quelle ipermoderne dei flussi o identitarie. Non usando, da politologi, l’analisi del voto partendo da Milano, alzando lo sguardo al “contado” lombardo e arrivando in Veneto capiamo un po’ di più della questione territoria­le. La grande passione di Milano, della sua neoborghesia dei flussi, finanza, reti e quartieri generali delle imprese globali, più che al lo­cale guarda a Bruxelles per l’EMA, a Francoforte e al competere con ricerca e università nello spazio globale. Passione che ha contaminato anche la sua composizione sociale che, pur tra precariato e gig eco­nomy, spesso sogna la California facendo start up e messa al lavoro nel ciclo di Amazon. Si sente città anseatica nel mare dei flussi, nodo di rete tra il sistema paese e città-regione, non solo in Lombardia, ma sull’asse del grande Nord. Non a caso Gian Felice Rocca ha posto questo spazio di posizione in un suo scritto come rappresentazione altra dai referendum. Ma basta uscire dal cerchio magico della Mila­no “de territorializzata nei flussi” (Bassetti) che riappaiono le piccole e fredde passioni che fanno votare, più che a Milano, il territorio per il referendum. Riappaiono le mitiche valli bergamasche e bresciane, i laghée di Van de Sfroos cantautore lombardo, i capitalisti molecolari della pedemontana lombarda, i sindaci dei piccoli comuni e di quelle che chiamiamo aree interne.

Per rimanere sull’asse pedemontano il farsi smart city della Bergamo del sindaco Gori e di Brescia con le loro università, il lake district di Como e Lecco e le reti degli aeroporti di Malpensa, Orio al Serio e Ghedi, che si vuole fare hub per il trasporto merci, disegna a sua volta poli di città. Città con intorno il territorio dei resistenti a fronte del tendere a essere smart city, con in mezzo tanti sindaci dei poli urbani come Gori che hanno il torcicollo trovandosi in mezzo e guardando contemporaneamente al loro territorio e a Milano con la sua area metropolitana in divenire.

È una passione grande, ma di tutt’altro segno, il risultato ampio del Veneto. Se Milano cammina avanti con i piedi nei flussi, il Nord-Est cammina, si evolve, ma con la testa all’indietro. Certo, la passione del Leone della Serenissima, così come l’essere Regione di confine con le autonomie del Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige pesa, se vogliamo leggere il superamento alto del quorum con la lente del­la grande ideologia identitaria. Ma se vogliamo tornare alle piccole e fredde passioni economiche, chi ha descritto il Nord-Est come il laboratorio del primo po­stfordismo dell’impresa diffusa e del capitalismo molecolare da qui deve ripartire. Quel modello produttivo segnato dalla crisi è ancora cultu­ralmente egemone, anche se, partendo da quel tessuto in evoluzione, giungono oggi segnali di ripresa forte. Trainati da medie imprese interna­zionalizzate immerse nelle dinamiche di Industria 4.0. Ripresa del produrre che non è ancora metamorfosi alla milanese. Ciò che colpi­sce del voto è la simbiosi dei risultati elettorali tra tutte le città venete e il loro territorio e le vallate. Manca la città-regione che attrae flussi, fa condensa e si fa polo delle “cento città” venete che guardano sia a Monaco che a Milano, con Verona Giano bifronte e Venezia, che non lo è pur essendo polo del turismo globale come parco a tema storico immutabile. È un territorio in transizione che si confronta con il fare rete tra città e università, il capitalismo delle reti dell’alta velocità e con la difficoltà di chi ha visto e subito nella crisi un salto d’epoca selettivo.

La questione territoriale è prima di tutto questione sociale ed eco­nomica. Anche se letta scavando nella parola pesante identità. Que­sta, come dice un grande filosofo, non sta nel rinserramento e nella chiusura ma nella relazione. Oserei dire che così letto il referendum è una domanda di relazione. Non è questione solo di schieramenti politici, visto che è posta anche dal presidente Bonaccini dell’Emi­lia Romagna, con la sua valle dei motori che va nel mondo, e dal presidente Emiliano della Puglia, che è sempre più polo attrattivo dei flussi turistici globali. Simultaneità e prossimità mi paiono le pa­role chiave per capire. I flussi inducono l’essere simultaneamente a Milano e nel mondo, la prossimità delle nostre economie di territo­rio cerca relazioni per trasformarsi nella metamorfosi. Qui occorre mettersi in mezzo, tenendo conto che non c’è smart city senza smart land, ridisegnando funzioni e ruoli delle Regioni in rapporto con lo Stato centrale e l’Europa. Nella relazione c’è la soluzione. Non guar­diamo alla Catalogna, ove gli attori in gioco, con il silenzio pesante dell’Europa, mi pare stiano tutti quanti giocando al rinserramento. La questione territoriale si risolve con la relazione. E sempre con la relazione si formerà, si spera, un patriottismo dolce, adeguato all’Eu­ropa che verrà, in grado cioè di mettersi in mezzo tra l’Europa del burro e l’Europa dell’olio.