La cultura digitale aggiorna la politica

Di Dino Amenduni Martedì 19 Luglio 2011 17:54 Stampa
La cultura digitale aggiorna la politica Illustrazione: Serena Viola

Le spinte al cambiamento che dal 2008 interessano diverse zone del mondo, dall’America di Obama al Nord Africa in rivolta, sino alla Grecia e alla Spagna “indignata”, sembrano essere giunte ora anche in Italia. I giovani non sono più disposti ad aspettare e la politica deve sempre più fare i conti con la comunicazione interattiva del web 2.0. Il potere istituzionale deve allora imparare a dare voce a queste rinnovate esigenze di aggregazione e confronto.


2008-11: quattro anni lunghi un secolo

Siamo ancora a metà strada ma il 2011 si candida a essere ricordato come l’anno in cui tutte le retoriche, gli strumenti, le strategie che creano l’insieme delle pratiche riassumibili nell’espressione “cultura digitale” hanno dimostrato di essere in grado di generare cambiamento sociale.

Ciò che fino ad oggi era stata una sensazione che, pur con forza crescente, aveva animato le analisi di politologi, sociologi, professionisti del market - ing e comunicatori, pare essere diventata improvvisamente realtà: la cultura digitale può ridurre le fratture della società, creare un nuovo senso di comunità e, dunque, generare nuovo capitale sociale. Ho sempre coccolato questa tesi, da “web-ottimista” e da addetto ai lavori. In questo ultimo mese, poi, il caso italiano, «la nazione che non reagisce», come l’ha definita Vittorio Zucconi, pare confermare questa tesi con una forza sorprendente e con modalità che per certi versi potrebbero essere considerate innovative anche su scala planetaria.

Gli ultimi quattro anni della storia della politica e della comunicazione e la velocità dei mutamenti che regolano i rapporti di forza tra poteri ci obbligano a riflettere sull’evoluzione dei fenomeni sociali che, a diverse latitudini, hanno scosso il mondo. Sono quattro i pilastri che, proprio per la loro eterogeneità, costituiscono il punto di partenza della riflessione e il principale argomento per sostenerla.


I. 2008: Obama vince le elezioni

Si è molto speculato sul ruolo della rete nel successo del primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti. Le analisi che sono giunte nel nostro paese sono state numerose, spesso molto interessanti, talvolta superficiali: per questo motivo va chiarito cosa sia realmente successo su internet in quella campagna seminale. Cominciando da un punto di partenza corretto, comune e condiviso: i social media, gli strumenti inseriti all’interno del cappello concettuale del cosiddetto web 2.0 (Facebook, Twitter e YouTube su tutti, oltre al sito www.barackobama.com che era un social network a sua volta) sono stati utilizzati in modo esplicito, coraggioso, disinvolto, strategicamente rilevante.

Le conseguenze di questa scelta hanno impattato su due ambiti: la comunicazione e l’organizzazione della campagna elettorale. Il primo aspetto è stato a mio avviso oggetto di una certa sopravvalutazione e di un immotivato entusiasmo da parte di analisti e giornalisti italiani. Parlare di un “presidente Facebook” o un “presidente 2.0” è infatti semplicistico: è vero che Obama utilizza con regolarità tecnologie informatiche innovative, a partire dal suo inseparabile Blackberry (che gli ha addirittura causato problemi di sicurezza personale), ma non si potrà certamente ignorare l’acquisto di spazi pubblicitari su TV nazionali e locali, la cui pianificazione culminò nel documentario di quaranta minuti distribuito su tutti i principali network a pochi giorni dalle elezioni. Schiacciare la complessità di una campagna elettorale su uno strumento solo perché prima non era utilizzato (o non esisteva) è comunque sbagliato. Le conseguenze organizzative di questo cambio di paradigma sono state, invece, ignorate o comunque sottovalutate. Il primo passaggio decisivo è che un comitato elettorale orientato alla comunicazione, all’ascolto e al feedback sui nuovi media richiede una quantità di risorse umane ingenti, profili professionali difficilmente reperibili (giovane, nativo digitale, appassionato di politica, non a digiuno di economia e marketing, esperto di cultura pop, capace di lavorare sotto pressione, poco propenso alla polemica) e, quindi, un budget dedicato a questa area di lavoro che assomiglia a un settore Ricerca e sviluppo di un’azienda. Nella campagna di Obama la sezione web e nuovi media era animata da cento persone, tra collaboratori retribuiti e risorse volontarie. Chi, in Italia, oggi, dedicherebbe tutto questo sforzo per un risultato analogo?

In secondo luogo, l’intuizione vincente della campagna di Obama è stata la delega di alcuni meccanismi creativi e comunicativi dal centro alla periferia, dagli spin doctors a sostenitori e cittadini: gli elementi più memorabili della campagna elettorale sono stati ideati e messi a punto in autonomia, e questo è accaduto a New York come nei villaggi della provincia più sperduta (e meno connessa). Accentrare il controllo dei processi politici, organizzativi, logistici, in un unico luogo è impossibile in qualsiasi campagna elettorale, figurarsi in una nazione che ospita sei fusi orari e trecento milioni di abitanti.

Questa scelta ha liberato entusiasmo, energie, idee, passione, competenze individuali; l’attivazione di tanti nodi di piccole reti che si sono collegate tra loro attraverso internet ha poi costruito l’ecosistema elettorale che ha spinto Obama allo storico successo e, soprattutto, ha portato a votare segmenti della popolazione che fino ad allora non si erano mai recati alle urne. Inediti meccanismi di generazione di reti sociali, base per la creazione di un nuovo substrato del senso di comunità, sono la costante di tutti i casi di innovazione della cultura digitale di questi anni.


II. 2010: Wikileaks pubblica i cablo

delle ambasciate in tutto il mondo Questa analisi non intende esprimere giudizi di merito sulla mission di Wikileaks, sul ruolo di Julian Assange, su quali debbano essere i limiti di sicurezza e privacy oltre cui, qualunque sia il contesto di riferimento, non si può andare. Anche in questo caso la riflessione intende concentrarsi sugli aspetti organizzativi del lavoro della struttura che ha messo in subbuglio le diplomazie di tutto il mondo, complicando a volte i rapporti diplomatici tra Stati sovrani.

La storia di Wikileaks ci insegna che esistono infrastrutture e prassi che permettono a chiunque di offrire contenuti anonimi a un centro di calcolo che può analizzarli, verificarli e pubblicarli. Forse non sapremo mai se dietro Julian Assange ci siano finanziatori occulti, poteri o contropoteri: siamo però certi che i cittadini di tutto il mondo, attraverso un’adeguata formazione e in presenza di un insieme di condizioni concomitanti (autonomia finanziaria, competenze giornalistiche e informatiche, capacità di protezione dei dati personali e delle identità delle fonti), potranno organizzare dei Wikileaks “civili”, su scala territoriale anche molto più piccola. Una rete di reti che, stando alle parole di Wael Ghonim, dirigente di Google il cui attivismo sul web è stato propulsore della rivoluzione democratica in Egitto, potrebbe portare a un improvviso rovesciamento dei sistemi di forza e alla dimostrazione che, nonostante tutto, «il potere della gente è più forte della gente al potere».


III. 2011: piazza Tahrir e il vento del Maghreb

Le rivoluzioni arabe, i cui risultati politici sono ancora in via di maturazione, hanno avuto un comune innesco che, a prescindere dagli esiti conclusivi della primavera del Nord Africa, rappresenta un nuovo standard per la costruzione di alternative civiche e politiche ai regimi al governo, democratici o autoritari che siano. Assistiamo infatti alla comparsa di nuove variabili sulla scena civica mondiale:
a) il ritorno preponderante dei giovani all’interno dei processi di cambiamento politico, specie laddove l’obiettivo è colpire il cuore dello status quo al fine di modificare alcune norme basilari della vita politica;
b) l’alfabetizzazione matura all’uso dei nuovi media da parte dei principali protagonisti di questo movimento, spesso guidato da nativi digitali (ossia da under 35): i leader politici hanno dimostrato di saper utilizzare perfettamente Facebook e Twitter per innescare campagne virali, impossibili da monitorare e soffocare (e molto difficili da censurare) e come supporto ai processi organizzativi. I social media hanno, da un lato, aiutato a mettere in rete informazioni non fruibili attraverso i mezzi tradizionali o oscurate dalla propaganda di Stato; dall’altro, hanno permesso a masse assai eterogenee di persone di organizzare manifestazioni spontanee ed estemporanee a costi nulli e in tempi brevissimi;
c) una nuova idea di rivoluzione, che non è di parte bensì a-ideologica: non è laica né cattolica, non è musulmana né cristiana, non è moderata né radicale, non è giovane né vecchia, non è povera né ricca, non è di destra né di sinistra. Questo movimento ha liberato nuovo capitale sociale, forse sopito per la difficoltà di libera espressione, forse nato addirittura grazie alla primavera araba, sicuramente motore di un processo di cambiamento irreversibile nei rapporti tra potere, consenso e rappresentanza.


IV. 2011: la nuova Italia dei referendum

Oggi l’Italia si presenta in modo molto diverso rispetto a soli sei mesi fa: il vento delle amministrative, il disastro di Fukushima, una nuova consapevolezza collettiva per la difesa dei beni comuni, le divisioni della compagine di governo e la sensazione generalizzata di paralisi istituzionale hanno portato alla creazione di un nuovo sentimento, svincolato dall’appartenenza partitica (seppur sapientemente ospitato nell’alveo del centrosinistra), che oggi guarda al futuro con maggiore fiducia, consapevole che la sensazione di soffocamento mediatico può essere attenuata dalla comunicazione tra pari, dallo scambio di prassi, informazioni e metodi che solo i nuovi media possono garantire.

Le interpretazioni sul perché tutto questo sia avvenuto proprio ora e in così poco tempo sono numerose e ancora in via di definizione: in Italia, però, seppur con modi più gentili rispetto al Maghreb, alla Grecia e alla Spagna, pare essersi creato un nuovo blocco sociale, meno sensibile alle appartenenze politiche (una notizia, in un’Italia malata di bipolarismo ultrà) e unito, non si sa quanto stabilmente, da una comune insofferenza verso le istituzioni.


Il web e la costruzione di un nuovo senso di appartenenza

L’opinione pubblica italiana ha già dimostrato, in questi ultimi mesi, di avere dentro di sé l’energia necessaria per innovarsi. Oggi, guardandoci alle spalle, notiamo una matrice comune capace di spiegare alcuni fenomeni che finora erano stati analizzati singolarmente.

L’entusiasmo per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia; il successo di un programma televisivo come “Vieni via con me” (insieme al generalizzato calo di audience dei reality show); i venti milioni di utenti italiani su Facebook, oramai il primo strumento di (auto)comunicazione di massa; l’esplosione di Twitter come strumento di informazione e di comunicazione politica, il progressivo distacco degli italiani dai media tradizionali e il contemporaneo ritorno alle grandi manifestazioni di piazza, che hanno dato voce alle istanze dei precari, delle donne, dei giovani, e persino la vittoria di Roberto Vecchioni al Festival di Sanremo sembrano appartenere a una stessa ondata di indignazione, se non addirittura di rigetto, magari meno spettacolare e romantica del vento di primavera del Mediterraneo, ma non per questo meno di impatto sulla vita del paese. La caduta di Berlusconi a Milano è infatti un dato storico prima ancora che politico e culturale; la bocciatura degli italiani nei confronti delle politiche energetiche del governo è un vulnus che il centrodestra pagherà alle prossime elezioni politiche.

La sfida, dunque, si sposta oggi dalla necessità di rianimare l’Italia e di “fare gli italiani” alla indispensabile evoluzione dei partiti, dei movimenti e dei think tank che dovranno fare sintesi politica di ciò che il popolo ha espresso con i metodi e i linguaggi con cui l’ha espresso. Sbaglia chi ritiene che quello che sta accadendo nel nostro paese sia “di sinistra”: ha trovato spazio in quell’area solo perché il PD è, parafrasando Pier Luigi Bersani, «un partito di governo momentaneamente all’opposizione». Antonio Di Pietro, nel commentare i dati referendari, è apparso straordinariamente lucido: «Non è affatto vero che il 57% degli italiani è disposto a votare a sinistra, piuttosto è vero che il 57% degli italiani boccia il sistema politico italiano nel suo complesso».

Per le forze di centrosinistra si apre una prospettiva irripetibile ma, proprio per questo motivo, senza appello: per governare servirà mettere insieme il meglio delle quattro esperienze, accomunate perché favorite dall’affermazione di un comune sentire “digitale” nel mondo.

Da Barack Obama bisognerà apprendere i modelli organizzativi, di ascolto e analisi, e applicarli alla forma-partito e ai sistemi di governo. Prima di tutto, bisognerà saper ascoltare e costruire le politiche pubbliche non solo sulla base della discussione interna ai partiti, alle coalizioni e alle istituzioni, ma anche facendo tesoro dei contributi di tutti i comuni cittadini. PD, IDV e SEL dovranno prima di tutto far tesoro di ciò che Dan Gillmor scrive nel suo “Noi, i media”: «Tra i lettori di un articolo di giornale c’è sicuramente qualcuno che ne sa più del giornalista ».1 Questo dialogo è dunque proficuo in ogni caso, sia perché crea empatia, sia perché favorisce i processi di costruzione collettiva della conoscenza.

Dall’esperienza di Wikileaks si dovrà imparare che i costi economici, di consenso e di relazione da sopportare per “nascondere segreti” sono certamente superiori a quelli che una forza politica sopporterebbe confrontandosi schiettamente con l’opinione pubblica, comunicando errori e compromessi con la stessa serenità con cui si comunicano trionfi e traguardi.

Infine, la primavera araba e il vento di cambiamento italiano lanciano un comune avvertimento alla politica: i giovani non aspettano più un segnale dalle istituzioni, i popoli hanno a disposizione mezzi di efficacia comunicativa e organizzativa tale da non aver più bisogno della sponda dei partiti per ottenere risultati politici anche a breve termine.

Chi ascolterà e chi farà tesoro di tutto questo potrà governare un’Italia nuovamente unita, nuovamente fiduciosa, nuovamente orgogliosa della comune appartenenza e del ritrovato senso civico.

 

 


[1] D. Gillmor, We the Media: Grassroots Journalism by the People, for the People, O’Reilly, Sebastopoli, California 2006.
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