Indignazione

Di Silverio Novelli Lunedì 09 Luglio 2012 16:57 Stampa

  Il Censis non ha parlato di indignazione, entità sfuggente che poggia un piede nella psicologia e l’altro nella morale, ma certamente ha pensato alle rabbie organizzate dei No Tav, degli Indignati, dei fautori dell’antipolitica, quando ha qualifi cato come «antagonismo errante» quell’arcipelago fl uido e trans-ideologico di soggetti che non riescono più a «fare “rintracciamento” » e subiscono, più di altri, la crisi delle sovranità tradizionali, sentite distanti dalla realtà concreta e tangibile di ciascuno: indignazione, quindi, per il cinismo affaristico di una casta chiusa e tetragona di politici vecchi e parassiti («zombie in preda ad attacchi epilettici», Grillo dixit).

indignazione per la sicumera di un’Italia di politici nazionali servi dei diktat del capitalismo europeista delle merci, deciso a immolare sull’altare del profitto le ragioni dell’ambiente e delle microeconomie territoriali; indignazione (raccolta come parola d’ordine dall’imperativo Indignez vous!, Indignatevi!, titolo del pamphlet che il filosofo francese Stéphane Hessel ha rivolto ai giovani nel 2010), tra i giovani dal futuro precario, verso il sistema globale dell’affarismo economico-finanziario, che sovrasta una società permeata dall’ideologia consumistica e improntata a un modello estremamente competitivo nelle relazioni sociali, proposto come unico orizzonte culturale ed economico.

Questa mobile nosografia registra altre profonde aritmie del dissenso nei tracciati elettorali delle ultime amministrative italiane.

In Italia, cresce come non mai il non voto di disaffezione, in un quadro segnato dal malessere e dalla domanda di cambiamento. Il deficit di rappresentanza del ceto politico di governo intacca anche il peso elettorale (in termini assoluti) del Partito Democratico, percepito, nel bacino elettorale di riferimento, come elemento statico in un quadro incrostato di vizi oligarchici. L’indignazione antipolitica verso la casta sembra fare blocco con un sentimento di sfiducia verso ogni possibile rinnovamento, meno nuovo di quanto non appaia, perché espressione di una storica predisposizione italiota al disprezzo qualunquistico per tutto ciò che non parli il linguaggio della “pagnotta” – che è sempre e soltanto la “propria” pagnotta, non quella che si dovrebbe condividere con gli altri.

La crescita nel Centro-Nord e nelle tradizionali aree “rosse” del Movimento 5 Stelle ispirato da Grillo segnala un dato in controtendenza, l’aprirsi cioè di uno sbocco politico all’indignazione antagonistica. Parma diventa un laboratorio interessante per capire se e come si può giocare in politica l’eccitatorio impulso emotivo scoccato dalla drammatizzazione grilliana di un mondo diviso tra puri vessati e corrotti vessatori. È bene distinguere le profane rappresentazioni sceniche dello shaman showman, che giocano sul piano della terapia di gruppo una sorta di messa a terra per lo scarico della tensione psichica ed emotiva collettiva dei seguaci, dal Movimento 5 Stelle in sé, che si risveglia sulla scena della politica (per ora) locale, nella sua consistenza di donne e di uomini di solito privi di curricula politici professionali e pronti a giocarsi l’ottimismo dei semplici.

È da vedere se la sostanza vagamente orgonica di cui si nutre l’ira recitata di Grillo possa sostenere una politica di benintenzionati, alle prese, peraltro, con i spesso ostili vincoli di spesa e burocratico-amministrativo-istituzionali e, soprattutto, con la complessità strutturale di una comunità civica. Insomma, una certezza resta: un sentimento, anche forte, che esprima disagio e contrarietà non è sufficiente a fare politica. «Facit indignatio versum», scriveva lo sferzante Giovenale delle “Satire”. Versum, appunto, non rem publicam. L’indignazione è ciò che muove a sdegno, perché è ritenuto, secondo etimo, non dignus, non degno, ciò che si para di fronte a noi, perché, come recita il dizionario Treccani, «offende il senso di umanità, di giustizia e la coscienza morale». Ciò che indigna colpisce e urtica, secondo quanto esprimeva anche l’antica semantica, per cui indignazione designava anche l’irritazione, l’infiammazione di una parte del corpo.

V’è qualcosa di ambiguo e insieme di imperfetto, in questa doppia natura dell’indignazione, escoriazione superficiale che brucia la pelle del corpo sociale, ma che rinvia a consistenze razionali e morali profonde. C’è una guerra tra noi e un mondo ingiusto, sembra dirci l’atteggiamento di chi si indigna. Siamo feriti di striscio in modo molto fastidioso, ma restiamo bene in piedi, pronti a giudicare, con lo sguardo acuito dallo sfregio. «Con l’indignazione talvolta si sale a cavallo e si contempla dall’alto il campo di battaglia. Con la vergogna, si cammina in mezzo ai cadaveri», ha scritto Stefano Benni. Diciamo allora che dall’indignazione è sempre meglio scendere in fretta, per sporcarsi le mani con ciò che non va. Soprattutto, l’indignazione ha una sua dignità soltanto se non si dipinge sulle facce dei tanti politici che la usano come maschera rituale da teatrino, senza provare la minima vergogna.

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