La città come sistema autosostenibile: dall’approccio ecologico a quello paesaggistico

Di Alessio D’Auria Martedì 04 Settembre 2012 14:20 Stampa

La città rappresenta un ecosistema caratterizzato da un flusso costante di materia ed energia in entrata e in uscita, il cui bilancio finale è però, a differenza di quanto avviene per l’ecosistema naturale, sempre squilibrato. Considerare il fenomeno urbano dal punto di vista del suo rapporto con le risorse naturali vuol dire quindi fare i conti con il suo essere attualmente un sistema dissipativo di risorse. La sfida urbana del XXI secolo sta nel saper invertire questa tendenza, combinando il miglioramento della qualità della vita con il raggiungimento di un equilibrio più sostenibile fra sistema urbano e ambiente di riferimento.

 

Il XX secolo è stato il secolo della città, caratterizzato dalla grande esplosione del fenomeno urbano e dalla conseguente irruzione dei problemi propri della città contemporanea, ipertrofica, spesso cresciuta in modo smisurato e non programmato. La città è diventata sede di contraddizioni paradossali e apparentemente insanabili: da un lato la possibilità di incidere positivamente sui problemi di sviluppo umano e di offrire servizi sociali, dall’altro il rischio di fenomeni di povertà ed emarginazione e di generali condizioni di invivibilità, a causa di un forte squilibrio in termini di consumo di energia e materia e produzione di rifiuti ed emissioni inquinanti.1

La crisi ambientale, sociale ed economica conclamata degli ultimi anni, ha reso attuali i presupposti di una nuova disciplina che sposti il punto di vista della pianificazione urbana verso una maggiore attenzione ai valori del territorio e del paesaggio. In particolare, per un territorio come quello italiano, con paesaggi di inestimabile valore estetico, storico e simbolico, ma in cui negli ultimi vent’anni si è costruito con un ritmo 40 volte superiore alla crescita demografica, occupando circa un quinto del terreno agricolo, sono necessari nuovi obiettivi e paradigmi.

Se ancora alla metà degli anni Trenta del secolo scorso Lewis Mumford, nel suo famoso “The Culture of the Cities”, dichiarava che «non possiamo più lasciar fuori dai nostri calcoli terre e paesaggi e possibilità agricole nel considerare il futuro (...) delle città», già dall’ultimo decennio del secolo scorso appare evidente che la tradizionale interdipendenza funzionale città-campagna sembra scomparire inesorabilmente: le città si erigono a motori dello sviluppo, ben oltre il rigido quadro delle nazioni, come capisaldi gerarchicamente correlati nella rete globale di flussi – progressivamente sostituitasi alla campagna come base produttiva per la città – assetate di conoscenza per sostenere i processi competitivi. Appare reciso in maniera incontrovertibile quel rapporto organico che nella visione di Carlo Cattaneo legava la città alla campagna in un “corpo inscindibile” e che, nelle geometrie funzionali proposte da Walter Christaller, ancora faceva considerare la campagna “regione complementare” della città; la retorica della questione urbana sembra consentire l’estensione della categoria città a tutto il territorio.2

Scriveva Manfredi Nicoletti già nel 1978 nel suo “Ecosistema urbano”: «oggi, la campagna e, all’estremo, l’intera crosta del mondo deve considerarsi “urbana”: l’organizzazione delle comunità umane nel territorio è tout court problema dell’organizzazione urbana (…). Pertanto, in una visione ecologica della realtà, si può soltanto dire che la città è “un maggiore e signifi cativo addensamento umano” entro una struttura più vasta, continua, evolutiva: uno spazio-tempo antropizzato, una bio-noosfera, il cui solo possibile campo strutturato di riferimento è l’ecosistema globale (…). Solo entro, e in funzione di tale globalità, la città diviene, potenzialmente, un “ecosistema”».3 Eppure lo stesso Nicoletti rilevava come la città rappresentasse nel dibattito ecologico una “presenza ambigua”. Da una parte veniva contrapposta alla natura («la città è rifi utata in quanto gravissima alterazione dell’ambiente, una sorta di parassita che depaupera selvaggiamente le risorse energetiche, un concentrato di veleni la cui nocività può essere solo riscattata da una conservazione a oltranza dei beni naturali»); dall’altra veniva accettata acriticamente «limitando l’intervento su di essa alla semplice riduzione degli inquinamenti fisici».4 In effetti, già all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, a seguito degli studi sugli ecosistemi naturali avviati dall’IBP (International Biological Programme), poi sostituito dal programma Man and Biosphere, gli studiosi si resero conto di dover considerare nel calcolo ecosistemico anche l’uomo in quanto parte della natura, e anzi principale utilizzatore e modificatore della stessa. L’innovazione principale fu proprio quella di considerare la città come un ecosistema, cioè caratterizzata da un flusso costante di materia ed energia in entrata e in uscita. Un ecosistema, secondo Eugene Odum è «una unità che include tutti gli organismi che vivono insieme (comunità biotica) in una data area, interagenti con l’ambiente fisico, in modo tale che un flusso d’energia porta a una ben definita struttura biotica e a una ciclizzazione dei materiali tra viventi e non viventi all’interno del sistema (biosistema)».5

Su questo “modello”, la città si può configurare come un ecosistema, con la differenza che un ecosistema naturale è in grado di auto-alimentarsi con un bilancio finale in equilibrio mentre, come scrive Giorgio Nebbia, la città vive «attraversata da un flusso di materiali, di gas atmosferici, di acqua, di mezzi di trasporto, di persone, ed espelle, come qualsiasi organismo vivente, le scorie del proprio metabolismo verso l’aria, i fiumi, il mare, il suolo, lo stesso ambiente urbano e i suoi abitanti, verso gli ambienti circostanti».6 La città è un sistema aperto molto complesso nel quale gli input sono l’energia, i materiali e l’informazione – pura o incorporata in altri materiali – e gli output sono rifiuti, emissioni, scarichi, calore, con un bilancio tra ciò che entra e ciò che esce sempre squilibrato per il grande consumo dovuto al metabolismo di base dei flussi di popolazione che richiede alimenti, acqua, combustibili ecc., provenienti dagli agro-ecosistemi circostanti (ma anche lontanissimi, grazie all’economia globale di oggi) che vengono poi trasformati in scarti. Pertanto, considerare il fenomeno urbano dal punto di vista del suo rapporto con le risorse naturali vuol dire porre a fondamento dell’analisi una concezione della città come sistema dissipativo di risorse e di energia, anzi come il sistema dissipativo per eccellenza.7

L’ecosistema urbano può dunque essere assimilato a un sistema eterotrofo a elevata complessità che dipende dai livelli di antropizzazione e di sviluppo sociale e tecnologico per soddisfare i bisogni della popolazione: come un sistema, cioè, che drena, metabolizza ed espelle gigantesche quantità di risorse naturali e di energia. Jeremy Rifkin ha mostrato il carattere storicamente entropico della città che, fin dalle origini, sorgeva ai margini delle zone coltivate e costruiva un rapporto di dipendenza dalle zone circostanti.8 Ma è con il XIX secolo che la città si trasforma da sistema dissipativo a bassa entropia in sistema dissipativo altamente entropico. La novità, oggi, sta nella necessità di avere una visione sempre più ampia, perfino planetaria, sia del territorio da cui provengono i flussi di materiali ed energia che nutrono l’ecosistema urbano (il territorio che fornisce cibo, acqua, energia) sia di quello che riceve i residui in uscita (i luoghi in cui si scaricano i rifiuti solidi, liquidi e gassosi).

La sfida urbana del XXI secolo è quella di saper invertire la tendenza, combinando il miglioramento della qualità della vita con una significativa riduzione di energia fossile, input e rifiuti. Una città sostenibile dovrebbe funzionare come un sistema ecologico, cercando di massimizzare l’efficienza nell’utilizzo di ciascun input (energia, materiali): avvicinandosi a quello che Herman Daly già nel 1977 definì come steady-state, attraverso la ricerca di soluzioni progettuali capaci di “mimare” la logica dei processi ecologici, di imitarne le sinergie, utilizzando, ad esempio, i rifiuti di un ciclo produttivo come input di un secondo ciclo.9

Probabilmente è oggi necessario applicare il paradigma dello “stato stazionario”, ossia dello sviluppo senza crescita come soluzione alternativa e concretamente praticabile allo sviluppo urbano e territoriale: la crescita illimitata, l’era dell’espansione ha comportato una sottrazione enorme di risorsa-suolo alla sua funzione di riproduzione naturale della vita (di piante, animali). L’edificazione incontrollata ha distrutto o danneggiato cicli riproduttivi, ambienti, siti, ha prodotto sprechi, degrado, inquinamento, facendo aumentare l’entropia del sistema ambiente, omologando paesaggi urbani e persino quelli naturali e rurali. E siccome una città non costituisce mai una realtà geografica totale, non si esaurisce in se stessa, ma è inseparabile dalla regione nella quale si sviluppa, appare necessario fare ricorso all’efficace metafora di “ecosistema territoriale”, ovvero «quell’insieme di relazioni fra un sistema ambientale e una società umana, che, organizzata anche con strutture urbane evolute, trova in quel sistema ambientale la gran parte delle risorse fondamentali per la vita, sviluppandosi culturalmente e producendo un sistema di relazioni, simboli, conoscenze».10

L’ecosistema territoriale è dunque l’ambiente di riferimento di ordine superiore rispetto all’ecosistema urbano: se questo è composto dalla città e dal proprio ambiente di riferimento, l’altro contiene l’intero ecosistema città e i propri «ambienti di immissione ed emissione»11 (necessari a farlo funzionare termodinamicamente come sistema aperto). L’ecosistema territoriale comprende, insomma, quello spazio (definito, delimitato, concluso) con il quale l’ecosistema urbano può svolgere tutte le proprie funzioni vitali. Il concetto di autosostenibilità sotteso a quello di ecosistema territoriale allude alla necessità di uno sviluppo endogeno e armonico con l’ambiente naturale e sociale, basato sull’azzeramento dei processi di internalizzazione dei benefici e di esternalizzazione dei costi (ambientali, economici e sociali), giacché le interazioni avvengono all’interno del medesimo sistema. L’obiettivo, intanto, non può certo essere la reintroduzione di modelli di autarchia territoriale. L’ecosistema territoriale deve essere inteso, al contrario, come un metodo capace di segnare l’importanza di quei valori locali che l’economia, globalizzandosi, tende a lasciare sullo sfondo, e che possono divenire nuove risorse per il riequilibrio in chiave ecologica del territorio.

In questo senso lo sviluppo territoriale autosostenibile ha prima di tutto un risvolto socioculturale: secondo Alberto Magnaghi soltanto una nuova relazione co-evolutiva tra abitanti e territorio è in grado di determinare equilibri durevoli fra insediamenti umani e ambiente, «riconnettendo nuovi usi, nuovi saperi, nuove tecnologie, alla sapienza ambientale storica ». In particolare, l’efficienza tecnologica non può essere considerata come unico fattore risolutivo per contrastare il grave processo di degrado ambientale in atto. La smaterializzazione dei prodotti, il risparmio energetico, lo sviluppo di nuove e più efficaci tecniche di smaltimento e di riciclo dei rifiuti possono soltanto contribuire a rallentare tale processo, ma non sono sufficienti a ricreare quella cultura di autogoverno e di cura del territorio che sola può invertirne il segno. «La sostenibilità del territorio non può infatti essere affidata a macchine tecnologiche e a economie eterodirette, ma a una riconquistata sapienza ambientale e di produzione del territorio da parte degli abitanti»,12 attraverso una continua reinterpretazione ermeneutica dei sedimenti territoriali.

Dalla necessità di rifondare l’equilibrio complessivo (ecologico, sociale, culturale e simbolico) fra sistema urbano e ambiente di riferimento, alla fine degli anni Novanta ha preso corpo il Landscape Urbanism, una teoria che vede nel progetto di paesaggio uno strumento che consente di riformulare i quadri cognitivi sull’esistente e di tematizzare in modo innovativo le strategie della pianificazione e della progettazione urbana13 e che ha aperto nuovi orizzonti di ricerca e d’intervento sulle città. Il Landscape Urbanism adotta un approccio che permette di «integrare processi naturali e sviluppo urbano nel comune disvelamento di un’ecologia artificiale» che rappresenta la vera novità dell’epoca contemporanea. Inoltre, nell’assumere la città come una ibrida ecologia vivente, «segna la dissoluzione tra antichi dualismi come quello tra natura e cultura, e smantella le nozioni classiche di gerarchia, delimitazione e centralità».14 L’approccio del Landscape Urbanism coglie lo spirito della Convenzione europea del paesaggio (CEP) – aperta alla firma dei 45 paesi membri a Firenze nel 2000 da parte del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa, ratificata dall’Italia nel 2006 – che consacra politicamente una concezione del paesaggio già maturata negli ultimi decenni a livello scientifico e culturale, rivolgendo l’attenzione verso tutti i paesaggi: «gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani (...) sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana sia i paesaggi degradati» (articolo 2); riconoscendo che il paesaggio è «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità». La CEP riconosce che il territorio è il luogo sia degli equilibri naturali, con le loro caratteristiche e dinamiche, sia dei valori identitari, storici, culturali e simbolici degli insediamenti umani, e soprattutto il luogo del manifestarsi delle qualità o delle criticità delle relazioni che tra tali valori intercorrono. L’azione di trasformazione del territorio deve necessariamente richiamare la valutazione sistematica degli «obiettivi di qualità paesaggistica» previsti dalla CEP: la declinazione di tali obiettivi va codificata dunque già alla scala locale, riconoscendo la trans-scalarità delle dinamiche da controllare e regolare, attraverso modalità appropriate, orientate verso logiche “performative” e forme di partecipazione sociale alla formazione delle scelte. Purtroppo gli obiettivi di qualità del paesaggio solo raramente vengono integrati alla scala comunale, lasciando ancora troppo spazio all’urbanistica tradizionale, intesa come scienza della trasformazione urbana separata dal paesaggio. Eppure, la Raccomandazione CM/Rec(2008)3 per l’implementazione della CEP, adottata il 6 febbraio 2008, sottolinea esplicitamente la possibilità/necessità che tali obiettivi vengano definiti a livelli diversi di governo del territorio, contemporaneamente, e formalmente implementati negli strumenti urbanistici di dettaglio a scala urbana. La formulazione e declinazione degli obiettivi di qualità paesaggistica rappresenta una delle fasi più importanti del processo decisionale pubblico riguardante il paesaggio e il territorio tutto, nonché «il fondamento dell’intervento paesaggistico finale»15 e dipende, in larga parte, dai valori e dalle aspirazioni espresse dalle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita. Affinché possa dispiegare tutta la propria carica innovativa, tale fase non deve essere considerata come un’azione puramente descrittiva, ma come un atto euristico in grado di produrre progettualità, e assume valore non tanto analitico, quanto metodologico, come una figura regolativa verso la quale tendere.

La CEP certifica che il paesaggio ha a che vedere con le caratteristiche sociali, produttive, architettoniche, con le modalità di insediamento e di utilizzo delle risorse ambientali, ma contiene una dimensione di tipo “antropologico”, ovvero non è solo un concetto di tipo oggettivo, misurabile attraverso parametri e indicatori, ma ha a che fare anche con la rappresentazione che del territorio danno coloro che lo vivono, con il tipo di immaginario e di aspettative che questo suscita, con le complesse dinamiche di identità, di appartenenza. Questo processo si nutre necessariamente di partecipazione e corresponsabilità democratica nella cura e nella progettazione dei luoghi, nell’assunzione di una consapevole produzione sociale e simbolica dei paesaggi. Inoltre, quest’ultimo è senza dubbio un fondamentale aspetto concernente il governo del territorio, giacché assume come centrale la questione delle identità plurali dei soggetti che abitano o interagiscono con i luoghi.

Alla pianificazione di un territorio effettivamente autosostenibile spetta il ruolo di definizione di queste politiche di qualità, e deve essere allora tesa non solo verso la tutela degli equilibri ambientali, rispettando i principi della riproduzione delle risorse e dei cicli ecologici, ma verso una qualità complessiva del territorio, conferendo innanzitutto all’abitante un ruolo attivo di produttore diretto di manufatti ma soprattutto di significati, e all’abitare la sua dimensione processuale: da qui l’importanza delle pratiche di partecipazione e di autodeterminazione, per una valorizzazione consapevole del patrimonio territoriale.

 


 

[1] L. Fusco Girard, B. Forte, M. Cerreta, P. De Toro, F. Forte (a cura di), L’uomo e la città. Verso uno sviluppo umano e sostenibile, FrancoAngeli, Milano 2003.

[2] A. D’Auria, F. Ruocco, Parchi e valli interne del Mezzogiorno continentale: visioni e strategie di sviluppo, in “Planum. The European Journal of Planning online”, 2007.

[3] M. Nicoletti, L’ecosistema urbano, Dedalo, Bari 1978, p. 14.

[4] Ivi, p. 16.

[5] E. P. Odum, Basi di ecologia, Piccin, Padova 1988, p. 11. 6 G. Nebbia, L’ecosistema urbano, in “Economia e Ambiente”, 1-2/2006.

[7] V. Bettini, La città come sistema dissipativo, in V. Bettini, Elementi di ecologia urbana, Einaudi, Torino 1996.

[8] J. Rifkin, Entropy. A New World View, Viking Press, New York 1980.

[9] H. Daly, Steady-State Economics, W. H. Freeman, New York 1977.

[10] C. Saragosa, L’ecosistema territoriale e la sua base ambientale, in A. Magnaghi (a cura di), Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche, Alinea, Firenze 2001.

[11] E. P. Odum, op. cit.

[12] A. Magnaghi, Il patrimonio territoriale: un codice genetico per lo sviluppo locale autosostenibile, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Dunod, Milano 1998.

[13] C. Waldheim (a cura di), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York 2006.

[14] A. Clementi, Landscape Sustainable Urbanism, in “Eco Web Town. Online Magazine of Sustainable Design”, 2011.

[15] R. Priore, La Convenzione europea del paesaggio: matrici politico-culturali e itinerari applicativi, in G. F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, il Mulino, Bologna 2007.

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