Il Partito Democratico e la sua forma partito

Di Filippo Andreatta Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

Non vi è dubbio che il progetto che porterà al Partito Democratico preveda la costituzione di un nuovo partito capace di ridurre la frammentazione del nostro sistema partitico, di riaggregare i riformatori provenienti da diverse famiglie politiche novecentesche, di fornire un baricentro alla coalizione di centrosinistra. Ma è altrettanto indubbio che il Partito Democratico debba anche essere un partito nuovo, un soggetto politico diverso da quelli che sostituisce per forma e per funzionamento, e più adatto alle sfide del XXI secolo. La necessità del Partito Democratico è infatti solo in parte ideologica, con il fine di trovare nuove linee di pensiero per affrontare i problemi contemporanei, ma è anche dovuta all’esigenza, non soltanto italiana, di trovare nuovi meccanismi di comunicazione tra società e istituzioni, in un’era nella quale, in tutte le grandi democrazie occidentali, i modelli tradizionali di partito sono in crisi.

Non vi è dubbio che il progetto che porterà al Partito Democratico preveda la costituzione di un nuovo partito capace di ridurre la frammentazione del nostro sistema partitico, di riaggregare i riformatori provenienti da diverse famiglie politiche novecentesche, di fornire un baricentro alla coalizione di centrosinistra. Ma è altrettanto indubbio che il Partito Democratico debba anche essere un partito nuovo, un soggetto politico diverso da quelli che sostituisce per forma e per funzionamento, e più adatto alle sfide del XXI secolo. La necessità del Partito Democratico è infatti solo in parte ideologica, con il fine di trovare nuove linee di pensiero per affrontare i problemi contemporanei, ma è anche dovuta all’esigenza, non soltanto italiana, di trovare nuovi meccanismi di comunicazione tra società e istituzioni, in un’era nella quale, in tutte le grandi democrazie occidentali, i modelli tradizionali di partito sono in crisi.

Gli attuali partiti italiani sono eredi del modello di partito di massa nato con le lotte ideologiche del XX secolo, organizzato come una chiesa, o un esercito, di iscritti che in congresso sceglievano i sacerdoti-generali che li rappresentassero. Questo modello ha potuto contare per quasi tutta la prima fase della Repubblica su un’ampia legittimazione, dovuta alla partecipazione di milioni di iscritti e ad un ruolo fondamentale nel consolidamento della democrazia in Italia, e ha avuto la sua massima espressione nella DC e nel PCI. Ed è in base a questo glorioso passato che i partiti attuali, e in particolar modo i DS, rivendicano oggi, con giusto e legittimo orgoglio, un proprio ruolo fondamentale nell’affermazione della democrazia del nostro paese.

Eppure questo modello da tempo produce una crescente e diffusa insoddisfazione. Cala il livello di partecipazione, le correnti non sono più strumenti di un dibattito plurale ma assomigliano a quote di un consiglio di amministrazione, i congressi sembrano sempre più accordi tra pochi capicorrente e sempre meno libere elezioni tra i membri della base. E il numero degli iscritti scende dai milioni che erano a centinaia, se non decine, di migliaia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, e non sono un bello spettacolo: un ceto parlamentare scelto dall’alto sulla base di una cieca lealtà, apparati sostenuti in modo decisivo dal finanziamento pubblico, trattative sui ministeri e sulle cariche pubbliche secondo la ferrea logica del manuale Cencelli, leadership di partito – in entrambi gli schieramenti – che resistono a qualsivoglia risultato elettorale, anche negativo.

La chiusura dei partiti di fronte al loro decrescente grado di legittimazione produce poi un singolare paradosso «generazionale». Sono esclusi dalla circolazione delle elites in modo particolare – oltre alle donne – i giovani, e in particolare la generazione di quelli nati dopo il 1960. Oltre a costituire una fetta crescente dell’elettorato, e una delle componenti più dinamiche e vitali della società, questa generazione, che va dai ventenni ai quarantenni, è quella più vicina al Partito Democratico, in quanto non è stata socializzata alla politica dai partiti precedenti. L’attuale fase politica fatica a coinvolgere quindi proprio coloro i quali sarebbero più adatti a far decollare il nuovo soggetto politico, in quanto si riconoscono interamente in esso, senza mediazioni o contrasti con altre proprie identità.

È per questi motivi che non basta semplicemente una nuova formazione politica, che aggreghi partiti esistenti, ma serve un soggetto politico che prefiguri una nuova forma partito. Partiti arroccati su un modello in crisi non possono che prefigurare un partito blindato, nel quale ogni carica, ogni poltrona, ogni strapuntino è spartito secondo un qualche parametro tra le oligarchie delle due (o più) componenti, con il timore che terzi, o gli elettori, possano interferire. Al primo spostamento del bilancino, si scatenerebbe una lotta all’ultimo sangue a suon di veleni, pugnali e franchi tiratori, com’è avvenuto ultimamente in filigrana durante l’elezione del capo dello Stato o per le nomine dei ministri. È fondamentale sottolineare che questa tendenza non deriva affatto dalle personalità dei leader degli attuali partiti, che anzi stanno dimostrando una lungimiranza davvero encomiabile. La tendenza è piuttosto il frutto di una logica sistemica e costringe anche gli attori più illuminati ad un gioco perverso in cui la «garanzia» della propria componente è un prerequisito per poter procedere verso il progetto unitario.

L’accelerazione sul Partito Democratico registrata negli ultimi mesi è stata autenticamente significativa, in quanto si è espresso un coro unanime di consenso sul progetto. Sembra ora venuto il momento di affrontare non tanto la questione del «se», ma quella del «come». Non si tratta però di una questione tecnica o secondaria, perché la differenza può essere tra un Partito Democratico «falso» e uno «vero», una formazione politica autenticamente innovativa e adatta alle sfide del XXI secolo, oppure un travaso di vino vecchio in otri nuovi senza una rinuncia ai bizantinismi tipici della nostra tradizione politica o alla tendenza (non esclusiva agli eredi del PCI) a quello che una volta si chiamava «centralismo democratico». Il rischio maggiore è oggi quindi quello «che tutto cambi perché tutto rimanga come prima».

Ma un partito del XXI secolo, all’altezza delle aspettative dei tanti che ci credono e delle immani sfide di governo del paese, non può nascere secondo queste premesse. Il Partito Democratico o sarà un partito aperto o non sarà. Due sono le principali caratteristiche di una forma partito moderna. La prima riguarda l’elaborazione dei contenuti e delle piattaforme programmatiche, che non potrà più essere ispirata da un sistema di credenze ideologiche rigide, come invece succedeva nei partiti di massa tradizionali. Questo significa, da un lato, che non ci potrà essere un unico organo di comunicazione, o un unico luogo di elaborazione, ma che questi compiti saranno svolti da una pluralità di soggetti non esclusivi, ciascuno dei quali si richiama al Partito Democratico, ma con diverse sfumature ideali. Questo del resto è il modello del Partito Democratico americano, e in modo crescente di altri partiti europei, nel quale molteplici think tank, riviste e giornali producono un dibattito culturale e programmatico ufficioso poi sintetizzato in modo ufficiale dalle istituzioni di partito o dai candidati alle cariche monocratiche.

Questo significa anche, dall’altro lato, che il Partito Democratico dovrà svolgere, anche sui temi ideologici, un’opera di mediazione e di identificazione di nuove sintesi adatte ai problemi del nostro tempo. Su temi come la bioetica, l’immigrazione, l’uso della forza, l’esatto confine tra Stato e mercato esistono sicuramente nel perimetro del nuovo soggetto sensibilità diverse, ma non è accettabile che si parta con la libertà di coscienza su temi così rilevanti. È pertanto necessario che il pluralismo culturale che caratterizza il progetto del Partito Democratico venga disciplinato da procedure, aperte e partecipate come i forum tematici, che permettano alla fine di mettere sul tavolo proposte organiche e coerenti su questi temi. È quindi evidente che si deve trattare principalmente di risposte concrete piuttosto che di principio, perché in quest’ultimo caso una composizione sarebbe ben più ardua. Non ci sarà quindi un breviario ideologico del Partito Democratico che mantenga proposizioni astratte costanti nel tempo. A ciascuna scadenza elettorale, piuttosto, sarà necessario elaborare di volta in volta una piattaforma di proposte sulle più rilevanti politiche pubbliche.

In secondo luogo, l’altro principale strumento tramite il quale il Partito Democratico sarà un soggetto aperto e innovativo è quello delle primarie, che per la scelta del candidato premier e di vari candidati sindaci e governatori hanno già dimostrato, cogliendo il ceto politico e i commentatori di sorpresa, la voglia di partecipazione e la maturità del demos di centrosinistra. Bisogna quindi superare il modello novecentesco abbattendo le barriere tra gli elettori e i tesserati, casta che si giustificava solo con la teologia ideologica dei partiti di massa, e coinvolgendo i primi nelle decisioni sulla selezione dei candidati alle cariche di governo a tutti i livelli, dai sindaci dei paesi più piccoli fino al presidente del Consiglio.

La scelta delle primarie è quella decisiva per il passaggio ad un soggetto autenticamente nuovo, con una propria e unica base, in quanto rende impraticabili soluzioni «per quote» che prefigurerebbero invece un modello di semplice giustapposizione di etichette esistenti. Il modello delle primarie, inoltre, comporta a sua volta dei cambiamenti nei tradizionali assetti partitici. Da un lato, cambia l’equilibrio di potere tra segreterie dei partiti e gruppi di eletti, dal momento che non saranno più le prime a selezionare i secondi, che invece godranno di una legittimazione propria e autonoma derivante dalla scelta della base. Dall’altro lato, sarà necessario un modello di finanziamento meno dipendente dai fondi pubblici, in quanto la sproporzione di risorse che si verrebbe altrimenti a creare tra i candidati «ufficiali» che hanno accesso a quei fondi e gli «altri» sarebbe eccessiva.

Un partito di tipo nuovo, con un’elaborazione programmatica pluralista e una struttura aperta agli elettori, è quindi il punto di approdo per il Partito Democratico. Ma vi è anche una questione cruciale sul percorso per arrivare al compimento del progetto nella fase transitoria. Se infatti il punto d’arrivo dev’essere una formazione aperta e leggera, che coinvolge direttamente nelle scelte cruciali i propri elettori senza le classiche mediazioni delle tessere, delle correnti e dei conclavi tra segretari, allora anche i passi precedenti – a maggior ragione – non possono prescindere dallo stesso criterio. Un «vero» Partito Democratico potrà quindi nascere solo da un’Assemblea di delegati eletti, come fu per le primarie del 2005 e sarà per le primarie del 2010, da un’ampia partecipazione popolare di aderenti che sottoscrivano una Carta dei principi, paghino una quota di partecipazione e votino secondo il principio di «una testa, un voto».

Già circolano in filigrana ipotesi alternative rispetto a questo progetto. Ad esempio assemblee di delegati scelti da platee eterogenee, magari sulla base del principio dei tre terzi: un terzo ai partiti, un terzo agli eletti e un terzo alle associazioni. Ma queste opzioni più complesse, seppur apparentemente ragionevoli, sollevano problemi che rischierebbero di compromettere il parto della nuova formazione. I più farraginosi e meno trasparenti criteri di scelta, la difficoltà a misurare la rappresentatività delle associazioni, l’arbitrarietà della rappresentanza (perché un terzo, un terzo e un terzo? perché non un quarto, un quarto e metà?), la scelta dei delegati in base a divisioni che si vogliono superare, il rischio di una doppia o tripla rappresentanza (un eletto iscritto sia ad un partito che a un’associazione) impedirebbero all’Assemblea di deliberare liberamente per limitarla ad un foro meramente celebrativo, magari a voto palese o per applauso. Decisioni a maggioranza, anche qualificata, verrebbero infatti legittimamente messe in discussione dalla minoranza.

Se il punto di riferimento del nuovo partito è il «popolo delle primarie» allora l’unico modo per coinvolgerlo è quello di richiamarlo alle urne per esprimersi direttamente, come hanno dimostrato di voler fare con passione e senso di responsabilità 4.311.139 elettori mettendosi in fila, «insieme» e non «contro» ai partiti, di fronte ai gazebo organizzati dall’Unione in quella storica domenica d’ottobre. L’Assemblea eletta con questo metodo sarebbe legittimata dai più basilari principi democratici, senza bilancini o quote riservate.

La ragione per cui si deve costituire una formazione politica autenticamente nuova è proprio perché si vogliono recuperare quelle funzioni originarie di partecipazione, di discussione e di confronto aperto che i partiti devono svolgere per una democrazia efficace. Funzioni che nell’emergenza della «transizione continua» sono state troppo spesso dimenticate e che il nuovo partito deve invece essere messo in grado di svolgere, per il bene del centrosinistra e del sistema politico italiano.

E anche il processo costituente del nuovo soggetto non potrà che essere aperto direttamente a tutti i sostenitori, al fine di coinvolgere, oltre all’attuale ceto politico, le energie all’interno dei partiti che sono sinora rimaste imbrigliate dalle necessità della diplomazia bilaterale tra le leadership e quelle energie che non si riconoscono nei partiti attuali perché si riconoscono già nel Partito Democratico. Il nuovo partito non potrà infatti fare a meno di una corrente-DS e di una corrente-Margherita, ma altrettanto non potrà fare a meno della corrente democratica del Partito Democratico, composta da coloro i quali già oggi si riconoscono prioritariamente nel nuovo soggetto e che ha già dato prova in varie occasioni di essere vitale.

Se i timori identitari dei DS e le paure di egemonia della Margherita imporranno invece un accordo blindato, nel quale vengono rinominate le scatole, le sedi e i gruppi senza affrontare i nodi dei contenuti programmatici e della selezione dei dirigenti e dei candidati, allora vorrà dire che quello del Partito Democratico è stato solo un disperato tentativo di conservare con un marchio nuovo un modo di fare politica obsoleto e in crescente crisi di legittimazione. A quel punto però il pericolo non sarebbe solo per uno o più specifici partiti, ma quello riguardante la forma partito in generale, così fondamentale per il processo democratico. La delusione, infatti, dopo tante promesse e speranze, allontanerebbe molti cittadini dalla politica tout court, e questo sarebbe davvero un peccato.