Lontani ma vicini. Le opinioni pubbliche di Europa e Stati Uniti sulla politica internazionale

Di Pierangelo Isernia Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Americani ed europei si stanno progressivamente allontanando gli uni dagli altri? Dopo più di cinquant’anni di sodalizio, ci stiamo dunque avvicinando al «divorzio» tra Europa occidentale e Stati Uniti? Negli ultimi mesi, questo tipo di domande ricorre con sempre maggiore frequenza nel dibattito tra politici, osservatori e studiosi di entrambe le sponde dell’Atlantico. Apparentemente, non sembra esserci dubbio sul fatto che i temi sui quali americani ed europei dissentono siano cresciuti di numero e di rilevanza politica. In questo dibattito (cfr. Everts, 2001; Daalder, 2001; Kagan, 2002) le posizioni divergono su tutto - la portata della frattura, le cause, le conseguenze e come affrontarle - tranne che sul punto di pa rtenza: la convinzione cioè che Stati Uniti e paesi europei siano sempre più diversi. Ma è effettivamente il caso di dare questo punto di partenza per scontato?

 

Americani ed europei si stanno progressivamente allontanando gli uni dagli altri? Dopo più di cinquant’anni di sodalizio, ci stiamo dunque avvicinando al «divorzio» tra Europa occidentale e Stati Uniti? Negli ultimi mesi, questo tipo di domande ricorre con sempre maggiore frequenza nel dibattito tra politici, osservatori e studiosi di entrambe le sponde dell’Atlantico. Apparentemente, non sembra esserci dubbio sul fatto che i temi sui quali americani ed europei dissentono siano cresciuti di numero e di rilevanza politica. In questo dibattito (cfr. Everts, 2001; Daalder, 2001; Kagan, 2002) le posizioni divergono su tutto - la portata della frattura, le cause, le conseguenze e come affrontarle - tranne che sul punto di pa rtenza: la convinzione cioè che Stati Uniti e paesi europei siano sempre più diversi. Ma è effettivamente il caso di dare questo punto di partenza per scontato?

È sorprendente notare quanta poca attenzione nel recente dibattito sia dedicata ad accertare se e come stabilire lo stato dei rapporti euroatlantici. Raramente viene chiarito sulla base di quali evidenze possiamo dire che le cose, oggi, vanno peggio di ieri. Ed è ancora più sorprendente che non si precisi mai chi sono gli europei e gli americani le cui opinioni, visioni e politiche sono così divergenti. È plausibile infatti ritenere che, a seconda che si guardi ai governi, alle élite politiche, ai giornalisti o all’opinione pubblica, la risposta alla domanda sullo stato dei rapporti euro-atlantici possa variare. Un modo per accertare più precisamente lo stato dei rapporti euro-atlantici è quello di esaminare in che modo le opinioni pubbliche dai due lati dell’Atlantico guardano le une alle altre ed, entrambe, ai problemi mondiali. Vi sono alcuni vantaggi nell’adottare questo specifico punto di vista. Primo, è possibile circoscrivere più facilmente chi si ha in mente quando si parla di europei ed americani: quelli che rispondono alle inchieste di opinione. Secondo, è possibile paragonare lo stato dei rapporti euro-atlantici attuali con quelli passati. I dati relativi all’opinione pubblica hanno una storia lunga e consolidata, per cui possiamo risalire nel tempo per vedere se prima (durante la guerra fredda o gli anni Novanta) le cose erano diverse da ora. Terzo, non è male ricord a re che da entrambi i lati dell’Atlantico l’opinione pubblica è una forza importante nel determinare le politiche nazionali. Si ritiene infatti che le democrazie euro-atlantiche debbano essere responsive di fronte alle loro opinioni pubbliche. Il fatto che le politiche estere debbano riflettere le preferenze del pubblico può essere motivo di preoccupazione (Luttwak, 1994) o di speranza (Alterman, 1998), ma non è in discussione. Infine, se è vero, come alcuni recenti studi mostrano (Kull and Destler, 1998; Jacobs and Shapiro, 2000), che le élite politiche (e i media con loro) tendono frequentemente a «fraintendere » gli echi provenienti dall’opinione pubblica, una sistematica lettura dei dati disponibili permette di accertare se le affermazioni – spesso avanzate dai politici o riecheggiate nei media – sul viscerale antiamericanismo degli europei e sul disprezzo americano per l’appeasement e la diplomazia riflettano effettivamente gli umori del pubblico.

 

L’opinione pubblica e lo stato dei rapporti euro-atlantici.

L’opportunità per una analisi sistematica dello stato dell’opinione pubblica in Europa e Stati Uniti ci è offerta dai risultati di una inchiesta promossa nel giugno 2002 dal German Marshall Fund degli Stati Uniti2 e dal Chicago Council on Foreign Relations3 che, per la prima volta, hanno condotto un’indagine in sei paesi europei (Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda e Polonia) e negli Stati Uniti, rivolta ad accerta re lo stato dei rapporti euro-atlantici. Questa è, in assoluto, la più ampia e sistematica rilevazione delle opinioni del pubblico americano ed europeo, gli uni nei confronti dell’altro e in relazione ad una serie di problemi comuni, ma non è l’unica.4

Questo insieme di dati offre un quadro molto più complesso e sfaccettato dello stato dei rapporti euro-atlantici rispetto a quello che emerge dalle crescenti denunce di anti-americanismo europeo e di insoddisfazione per il multilateralismo americano apparse di recente rispettivamente sulla stampa europea e americana. A livello di pubblico generale, le popolazioni dai due lati dell’Atlantico concordano su molti più temi di quanto si possa sospettare: europei ed americani hanno una visione delle sfide, minacce e priorità internazionali molto simile; non vedono il mondo in modo molto diverso, ed entrambi condividono la grande inquietudine nei confronti della minaccia costituita dal terrorismo internazionale; agli europei piacciono gli Stati Uniti e viceversa; ed entrambi approvano l’uso della forza quando le circostanze internazionali lo rendano necessario. Gli europei, come peraltro molti americani, sono in disaccordo su alcuni aspetti della politica estera degli Stati Uniti e su alcuni punti sono più vicini tra loro di quanto lo siano ai loro rispettivi governi. Insomma, un anno dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, l’europeo guarda al mondo più o meno come l’americano medio, ma con una profonda riserva circa il modo in cui gli Stati Uniti conducono alcuni aspetti della loro politica estera. Se è vero quindi che a livello di massa molti europei sono critici nei confronti delle politiche degli Stati Uniti, questo vale anche per l’opinione pubblica americana. Se vi è una frattura, questa insomma attraversa il Potomac (e forse il Tamigi), piuttosto che l’Atlantico.

In questo saggio mi soffermerò su tre issues, spesso citate come prova del crescente gap transatlantico: la percezione delle priorità, delle minacce e dei problemi provenienti dal sistema internazionale; il problema del terrorismo e di come combatterlo e le politiche da sostenere nei confronti dell’Iraq. Su ciascuno di questi temi, come si vedrà, il quadro è piuttosto articolato. Per comodità espositiva, comparerò direttamente americani ed europei, segnalando quando opportuno o interessante, la posizione dell’opinione pubblica italiana rispetto al resto degli europei intervistati.

Le considerazioni qui sviluppate dipendono dall’analisi delle inchieste di opinione disponibili. La convinzione che nel mondo dei sondaggi garbage in, is garbage out, ovvero che la risposta dipende dal modo in cui è formulata la domanda, non è, spesso, lontano dalla verità. Ma è solo parte della verità. Non deve sorprendere che l’opinione degli intervistati su qualsiasi tema di policy che sia tecnicamente difficile, moralmente ambiguo e dagli effetti complessi, sia influenzata dalle considerazioni di volta in volta sottoposte alla loro attenzione. La validità dei risultati delle inchieste, come la bellezza, tuttavia non è solo negli occhi di chi la vede, ma soprattutto nella capacità di esaminare sistematicamente le evidenze disponibili. Il modo migliore di procedere per chiarire gli umori del pubblico non è soffermarsi su una singola domanda, ma esaminarne diverse, comparandole sia tra loro che nel tempo.

 

Minacce, priorità e problemi dell’attuale sistema internazionale.

Si è detto, ripetutamente, (Daalder, 2001, Everts, 2001, Kagan, 2002) che dove nel sistema internazionale gli europei vedono delle «sfide», gli americani percepiscono delle «minacce». Ma quando ci spostiamo dalle analisi degli esperti alle valutazioni del pubblico, il quadro appare leggermente differente. Innanzitutto, come decenni di ricerche di opinione ci mostrano, per la gran parte della popolazione americana ed europea, un anno dopo l’11 settembre 2001, le preoccupazioni personali sono di gran lunga prevalenti. Tuttavia, indotti a riflettere sui temi internazionali, in generale, gli europei vedono le minacce nello stesso modo - se non con maggiore intensità - degli americani. Ad una domanda del giugno 2002 (inchiesta Worldviews 2002) diretta a valutare le minacce che la sicurezza nazionale del loro paese dovrà fronteggiare nel successivo decennio, in cima agli elenchi di entrambi i gruppi di paesi figurano le stesse voci:5 il terrorismo internazionale, le armi per lo sterminio di massa dell’Iraq e il fondamentalismo islamico. Ma una percentuale di americani maggiore di quella degli europei classifica queste minacce come estremamente importanti, e non è difficile immaginare che ciò sia dovuto al fatto che gli attacchi di un anno fa hanno colpito direttamente gli Stati Uniti e non l’Europa. Su un punto, europei ed americani divergono notevolmente: la minaccia rappresentata dalla Cina. Il 56% degli americani tende a considerare il potere emergente della Cina come una minaccia estremamente importante, contro il 19% degli europei che la pensa allo stesso modo. È sorprendente anche notare come la minaccia dell’immigrazione susciti reazioni molto maggiori tra gli americani (60%) che tra gli europei (38%), nonostante l’attenzione dedicata in alcune recenti competizioni elettorali in Europa all’argomento.

Tabella 1

Gli europei e gli americani hanno anche percezioni simili di amici e alleati e una forte affinità gli uni nei confronti degli altri. Alla richiesta di esprimere il loro parere su diversi paesi in base a una scala da zero (minima simpatia) a cento (massima simpatia), americani ed europei hanno espresso opinioni simili sia gli uni nei confronti degli altri che verso Stati terzi. L’Iraq è molto in basso sia per gli europei (con un punteggio medio di 25 su una scala da 0 a 100) sia per gli americani (con un punteggio medio di 23). La divergenza più significativa riguarda Israele, a cui gli americani assegnano una posizione molto più alta degli europei (punteggio medio di 55 contro 38). Contrariamente all’allarmismo, diffuso da alcuni osservatori, su un forte e radicato anti-americanismo degli italiani, il quadro che emerge dall’inchiesta Worldviews 2002 (e che conferma quanto già sappiamo da altri dati di lungo periodo, cfr. Isernia 1996) mostra sentimenti di simpatia degli italiani verso gli Stati Uniti molto forti (punteggio medio di 68 punti), più forti anche di quelli verso gli altri paesi europei. E gli americani ricambiano l’Italia con un affetto (punteggio medio di 65 punti) superiore a quello dichiarato nei confronti di tutti gli altri paesi europei, ad eccezione della Gran Bretagna. E, ripetiamo, ciò non è dovuto semplicemente al fatto che l’attuale maggioranza sia politicamente più vicina a quella americana. La simpatia degli italiani verso gli americani affonda le sue radici nell’esperienza della guerra mondiale, della liberazione, della ricostruzione economica e del piano Marshall ed è rimasta sostanzialmente stabile (con alcune fluttuazioni congiunturali e di breve periodo, legate ad eventi specifici) per tutto il cinquantennio repubblicano.

Similmente, europei e americani tendono a concordare anche sulla distribuzione relativa del potere nel mondo. Alla richiesta di valutare diversi paesi in base alla loro influenza su una scala da uno a dieci, entrambi hanno mostrato di avere una visione del mondo analoga. In media, americani ed europei assegnano agli Stati Uniti 9, e (forse sorprendentemente per quello che è tuttora un nano politico-militare) 7 all’Europa e valutazioni che oscillano tra 5 e 7 ai singoli paesi europei. La differenza maggiore riguarda nuovamente la Cina, a conferma del fatto che su questo punto le valutazioni differiscono radicalmente.

Il peso attribuito all’Europa riflette la diffusa convinzione - su cui europei e americani concordano - che, nel mondo, la ricchezza economica conti più della potenza militare. Alla domanda, posta nel giugno 2002 nell’ambito dell’inchiesta Worldviews 2002, se sia più importante la forza economica o quella militare nel determinare la potenza complessiva di un paese, una maggioranza sostanziale di europei (84%) e una robusta maggioranza di americani (66%) indica la forza economica. Incidentalmente, la percentuale relativa agli Stati Uniti è di tre punti percentuali maggiore rispetto all’analoga inchiesta del Chicago Council condotta nel 1998. Una differenza sicuramente non significativa, ma che comunque contraddice l’idea che, dopo l’11 settembre, gli americani attribuiscano maggiore importanza alla forza militare piuttosto che al potere economico.

Sia gli europei che gli americani ritengono che i loro paesi dovrebbero assumere un ruolo attivo negli affari mondiali. In generale, il 78% degli europei credono che il loro paese debba avere un ruolo attivo sulla scena mondiale, rispetto al 71% degli Stati Uniti. L’81% degli europei si è, inoltre, espresso «molto favorevolmente» o «piuttosto favorevolmente» circa la possibilità di affidare all’Unione europea una forte posizione di guida negli affari mondiali; l’83% degli americani si è espresso in modo analogo sul proprio paese. Ancora più interessante è il fatto che sia gli europei sia gli americani desiderano, inoltre, che le loro controparti sull’altro versante dell’Atlantico svolgano un ruolo di leadership globale. Il 79% degli americani desidera che l’UE assuma una posizione forte negli affari mondiali. Il 64% degli americani vorrebbe vedere gli Stati Uniti fare lo stesso. Non l’unilateralismo, ma il multilateralismo sembra prevalere tra il pubblico americano.

In questa ottica, gli europei sembrano pronti ad assumere un ruolo più incisivo sulla scena mondiale. Alla domanda se gli Stati Uniti debbano restare l’unica superpotenza oppure se anche l’UE debba diventare una superpotenza militare ed economica come gli Stati Uniti, il 65% di europei opta per la seconda possibilità. I francesi (91%) e gli italiani (76%) sono i più tenaci fautori di questa idea, con i tedeschi (48%) che esprimono maggiore cautela. Tra coloro che sono favorevoli a trasformare l’Unione europea in una superpotenza, 9 su 10 hanno dichiarato che questo costituirebbe un modo per realizzare una migliore collaborazione tra Europa e Stati Uniti, e non per incrementare la concorrenza. Una maggioranza tra questi si dichiara, inoltre, favorevole ad aumentare la spesa per la difesa se fosse necessario per raggiungere questo status.

Tabella 2

Mentre gli europei ambiscono allo status di superpotenza, tuttavia gli americani esprimono ambivalenza circa una tale evoluzione. Una leggera maggioranza (52%) di americani vuole infatti che gli Stati Uniti restino l’unica superpotenza. Solo il 33% è convinto che l’UE debba ambire al ruolo di superpotenza, come gli Stati Uniti.

Venendo infine agli strumenti e in particolare all’uso della forza, il punto sul quale si appunta tradizionalmente l’attenzione dei commentatori politici quando si tratta di evidenziare le differenze tra europei e Stati Uniti, i dati disponibili mostrano come tanto gli uni quanto gli altri siano propensi ad usarla, se necessario. Spesso i leader americani criticano gli europei accusandoli d’investire troppo poco nella difesa e affidarsi troppo alla diplomazia e ai mezzi economici. L’inchiesta Worldviews 2002 mostra comunque che - almeno in linea di principio - gli europei sono favorevoli a ricorrere alla forza militare in un vasto spettro di circostanze, sebbene assegnino agli obiettivi internazionali e umanitari una priorità maggiore rispetto a quanto facciano gli americani. Ad esempio, l’88% degli europei (91% tra gli italiani) è favorevole all’impiego della forza militare per aiutare i popoli colpiti dalla carestia (contro l’81% tra gli americani), l’80% (83% degli italiani) per imporre il rispetto delle normative internazionali (contro il 76% degli americani), il 78% (83% degli italiani) per la liberazione degli ostaggi (contro il 77% degli americani) e il 75% per distruggere un covo di terroristi (contro il 92% degli americani). In una sola circostanza - intervenire per mettere fine a una guerra civile - gli europei sono più favorevoli degli americani a fare uso di forza. Una tale missione raccoglie il consenso del 72% degli europei, ma solo quello del 48% degli americani. Ma data la rilevanza di questo tema nell’attuale dibattito, vediamo più in dettaglio come stanno le cose in relazione a due casi specifici: terrorismo e Iraq.

 

Terrorismo ed uso della forza.

Possiamo sintetizzare il complesso quadro delle reazioni europee agli eventi dell’11 settembre 2001 in questo modo:6 Primo. L’attacco terroristico dell’11 settembre 2002 è stato realmente un evento «globale». Una inchiesta Gallup del settembre 2001 rivela come in due terzi dei 24 paesi del mondo per i quali i dati sono disponibili, entro due ore dall’evento l’80% della popolazione di quei paesi era stata informata. In questo gruppo vi sono non solo i paesi europei, ma anche i cittadini dell’Ecuador, dell’India e del Perù. E la televisione è stata in tutti i paesi il principale canale di informazione. Secondo. L’attacco terroristico ha prodotto una unanime reazione di forte «simpatia » per la situazione degli Stati Uniti dopo l’attacco. Questo vale non solo per i paesi occidentali, come è ovvio, ma anche per quelli islamici. Una inchiesta condotta nel dicembre 2001 dalla Gallup in sette paesi a forte presenza islamica mostrava che questa forma di terrorismo era giudicata moralmente inaccettabile dalla maggioranza assoluta degli intervistati in quattro paesi (Indonesia, Iran, Libano e Turchia), da una maggioranza relativa in due (Marocco e Pakistan) e solo in Kuwait dal 26% degli intervistati. Terzo. Molto più differenziata è stata la reazione del pubblico mondiale alle misure da intraprendere per rispondere a questo attacco. In particolare, come la tabella 3 mostra chiaramente, solo in un limitato gruppo di paesi - sostanzialmente quelli dell’Europa occidentale (con alcune eccezioni come Grecia e Spagna) - l’opinione pubblica si è in maggioranza schierata a sostegno delle misure militari americane contro l’Afghanistan. Dei più di 60 paesi nei quali sono state condotte inchieste di opinione, solo un sesto appaiono realmente a favore degli Stati Uniti e non meno del 40% dei paesi sono risolutamente ostili.7 Inoltre, il sostegno per le misure americane è calato tra settembre e dicembre 2001 in tutti i paesi, anche in quelli dell’Europa occidentale. Insomma, visti in prospettiva, gli europei (e sicuramente francesi, inglesi, italiani e tedeschi), restano gli unici decisi sostenitori della American way di lotta al terrorismo.

Tabella 3

Il sostegno europeo nei confronti della lotta al terrorismo arriva sino alla disponibilità a ricorrere alle for ze armate del proprio paese. Nel settembre e nel novembre-dicembre 2001 la Gallup chiese ai cittadini di circa sessanta paesi se erano «d’accordo o in disaccordo con l’azione militare americana in Afghanistan» e se erano «d’accordo o in disaccordo che il proprio paese prendesse parte con gli Stati Uniti alle azioni militari contro l’Afghanistan». Di nuovo, solo i paesi dell’Europa occidentale (con le eccezioni di Grecia e Spagna) erano favorevoli all’invio di proprie truppe in appoggio agli americani. In Italia nel settembre 2001 il 66% era favorevole all’invio di truppe italiane e nel novembre-dicembre questo sostegno era calato al 57% ma restava ancora maggioritario. Rispetto agli americani, gli europei danno maggiore priorità agli strumenti diplomatici ed economici. Per combattere il terrorismo, gli europei sono disposti ad usare mezzi come l’aviazione e le truppe di terra, ma prediligono - più degli americani - strumenti «morbidi». Ad una domanda dell’inchiesta Worldviews 2002 che enumerava gli strumenti validi per la lotta al terrorismo, il 91% degli europei indicava gli aiuti ai paesi in via di sviluppo per potenziarne l’economia (contro il 78% di americani), il 69% gli attacchi condotti con truppe di terra contro campi di addestramento terroristi (contro l’84% degli americani) e il 68% gli attacchi aerei contro i campi dei terroristi (contro l’87% degli americani). Nell’ottobrenovembre 2001, solo il 36% degli italiani, il 39% dei tedeschi, il 46% degli inglesi e il 59% dei francesi era d’accordo con l’affermazione secondo la quale «la forza militare è il modo più efficace di combattere il terrorismo » a fronte del 76% degli americani (inchiesta della Environics Global Issues Monitor).  

 

Iraq: che fare?

Negli ultimi mesi, il problema di cosa fare nei confronti dell’Iraq ha acquistato un posto centrale nell’agenda euro-atlantica.8 Da quando l’amministrazione american a ha espresso la sua intenzione di attaccare l’Iraq per rovesciare Saddam Hussein e «finire il lavoro intrapreso» dieci anni prima, accertare quali condizioni devono essere soddisfatte per realizzare questo obiettivo ha un ovvio rilievo9. Non vi è dubbio che un requisito centrale per il successo dell’operazione sia il livello e la stabilità del sostegno dell’opinione pubblica nei confronti dell’operazione. Sostegno che non può essere dato per scontato, da entrambi i lati dell’Atlantico, come vedremo esaminando le numerose inchieste disponibili. Ma prima di discutere del futuro, vediamo come sono andate le cose nel passato. L’evoluzione dell’atteggiamento verso l’Iraq nel tempo (1991-2002). L’evoluzione dell’atteggiamento verso l’Iraq nel decennio successivo alla guerra del Golfo è stato molto simile per americani ed europei. Partiamo dagli americani. Facendo un’analisi in retrospettiva, la maggioranza dell’opinione pubblica americana ritiene che la guerra del Golfo sia valsa la pena (nei primi mesi del 2001 il 51% hanno risposto di sì e il 39% di no), ma non si è mai mostrata particolarmente ansiosa di «finire il lavoro iniziato». E ciò non per simpatia nei confronti di Hussein - un governante che si è rivelato particolarmente abile (molto più di Milosevic per inciso) a suscitare l’antipatia delle opinioni pubbliche occidentali - ma per la convinzione che la diplomazia fosse uno strumento più appropriato della forza militare per contenere l’Iraq. Questa valutazione è rimasta immutata sino alla fine del 1998, quando per le inadempienze irachene nei confronti delle Nazioni Unite l’ a mministrazione Clinton decise una ondata di bombardamenti sull’Iraq. Questa decisione americana ha goduto dell’appoggio di una netta maggioranza dell’opinione pubblica americana. Da allora però, il sostegno per il ricorso alla forza è declinato, per poi risalire a seguito dell’attacco dell’11 settembre 2001, e infine scendere di nuovo sostanzialmente ai livelli dei primi mesi del 1998.

Tra gli europei l’entusiasmo per una azione militare verso l’Iraq nel decennio post-guerra del Golfo è stato ancora più tiepido di quello americano. In occasione dei bombardamenti americani sull’Iraq del 1998, l’opinione pubblica francese si mostrò estremamente critica, mentre i tedeschi e gli italiani erano divisi. L’unica eccezione era, tra i quattro grandi europei, l’Inghilterra, la cui opinione pubblica era in maggioranza a favore dei bombardamenti, dell’aperto sostegno a Clinton da parte di Blair e della partecipazione inglese all’attacco. Ma anche nel Regno Unito ben pochi erano disposti ad usare la forza inglese per indurre Saddam a rispettare le richieste delle Nazioni Unite. E da allora, le cose per gli europei sono rimaste sostanzialmente a questo punto, come conferma l’inchiesta condotta dal Pew Center nell’Aprile 2002, quando a fronte di un 69% di americani favorevoli a che «gli Stati Uniti e i suoi alleati intraprendessero un’azione militare contro l’Iraq per rovesciare Saddam Hussein nel quadro della lotta al terrorismo», tra gli europei le percentuali di favorevoli erano molto minori: 46% per Francia e Inghilterra e 34% per Italia e Germania.

La recente inchiesta Worldviews 2000 conferma questo quadro. E questo ci porta al secondo punto: in una situazione di «sostanziale prudenza» (Jentleson, 1992) del pubblico americano ed europeo nei confronti di un attacco all’Iraq, a quali condizioni l’opinione pubblica sarà più disposta a dare credito alla tesi dell’attacco militare? Contrariamente a quanto diversi commentatori e politici ritengono, studi recenti (e.g. Larson, 1996; Jentleson, 1992; Everts e Isernia, 2002; Everts, 2002; Gelpi e Fever, 2002; Hermann, Vieser e Tetlock, 1999) indicano come la disponibilità dell’opinione pubblica a sostenere l’uso della forza militare dipende da un calcolo più o meno razionale dei costi e dei benefici dell’operazione, alla luce della sua evoluzione nel tempo. Studi approfonditi di casi10 e inchieste sperimentali (Herrmann, Viesser e Tetlock, 1999, Kull e Destler, 1999) mostrano che quattro ordini di considerazioni giocano un ruolo cruciale nel determinare la disponibilità dell’opinione pubblica – americana ed europea – a sostenere l’uso della forza militare all’estero: (1) la natura degli interessi in gioco; (2) le perdite di soldati, subite od attese, a causa dell’operazione militare; (3) la congruenza ed efficacia della forza impiegata in relazione allo scopo da realizzare e (4) la legittimità dell’azione. Vediamo brevemente come operano tre di questi fattori (sul quarto, l’aspettativa di successo, i dati disponibili sono pochissimi) nel caso dell’operazione all’Iraq, consapevoli, ovviamente, dei limiti di questo esercizio. Non va dimenticato che gli intervistati rispondono a domande su una situazione ipotetica, piuttosto che reale. Come al solito, per gli Stati Uniti abbiamo informazioni molto più ricche e diversificate che per l’Europa.

 

Interessi in gioco.

Americani ed europei, come mostra l’inchiesta Worldviews 2002, sono entrambi convinti che l’Iraq costituisca una minaccia e che possegga, o sia in procinto di acquisire, armi di distruzione di massa, rappresentando una minaccia internazionale di prim’ordine. Ma da ciò non ne consegue che americani ed europei vogliano necessariamente risolvere il problema con la forza. Due considerazioni sembrano incidere sulla valutazione della rilevanza degli interessi in gioco, contribuendo a deprimere la disponibilità ad usare la forza contro Saddam Hussein: l’evoluzione delle operazioni in Afghanistan e la situazione palestinese. È plausibile ritenere che la prima conti di più per gli americani e la seconda per gli europei. Da un lato, finire il lavoro in Afghanistan sembra prioritario rispetto all’obiettivo di rovesciare Saddam Hussein. Tre americani su quattro ritengono che non debba essere intrapresa alcuna azione nei confronti dell’Iraq prima di aver risolto definitivamente la situazione in Afghanistan. Dall’altro lato, la maggioranza degli americani e degli europei stabilisce un collegamento diretto tra l’attacco all’Iraq e la situazione palestinese. Una maggioranza degli americani ritiene che non si possa attaccare prima di aver stabilizzato la situazione tra Israele e i palestinesi. Nel giugno 2002, la maggioranza degli americani riteneva che «lavorare per stabilire la pace in Medio Oriente tra palestinesi ed israeliani» dovrebbe ricevere priorità rispetto a «lavorare per rovesciare Saddam Hussein in Iraq». Sebbene non esistano domande comparabili poste agli europei, sappiamo dalle inchieste più recenti che essi sono di gran lunga più critici verso Israele e la politica mediorientale americana e più propensi ad attribuire importanza alla situazione israelo-palestinese rispetto a quella irachena, tanto da far ritenere, plausibilmente, che per gli europei il collegamento sia ancora più accentuato che nel caso degli americani.

 

Legittimità.

I dati disponibili sembrano indicare che il sostegno dell’ONU e quello degli alleati è cruciale per gli americani, mentre un chiaro mandato delle Nazioni Unite è un fattore importante per gli europei. L’inchiesta Worldviews 2002 mostra che il 60% degli intervistati nei sei paesi europei e il 65% degli americani sarebbe favorevole ad un attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq con l’approvazione dell’ONU e il sostegno degli alleati (vedi tabella 4). Ma solo il 10% degli europei ed il 20% degli americani procederebbe in questo senso senza l’approvazione dell’ONU e il sostegno degli alleati.

Tabella 4

Questo dato è confermato da inchieste precedenti. Due inchieste condotte nei primi mesi del 1998 mostravano come il sostegno per l’uso della forza contro Saddam era ridotto da 17 a 6 punti percentuali a seconda che si menzionasse gli Stati Uniti «insieme ad altri paesi» oppure «se gli altri paesi non si unissero al nostro sforzo». Nel 2002 il sostegno degli «alleati europei» e «della maggioranza dei paesi arabi amici degli Stati Uniti» era ritenuto «molto importante» rispettivamente dal 58% e 51%. Sempre nel 2002, di fronte a una situazione in cui gli alleati degli Stati Uniti si opponessero a una azione contro l’Iraq, il sostegno scendeva dal 72% al 55% in febbraio e dal 69% al 54% e dal 56% al 39% in due inchieste di agosto di quest’anno. Un’altra inchiesta mostra effetti ancora più marcati. Tre intervistati su quattro ritengono che gli Stati Uniti dovrebbero aspettare di avere il sostegno degli alleati prima di attaccare l’Iraq. Infine, nell’agosto 2002 il 68% degli americani concorda con l’affermazione secondo la quale gli Stati Uniti devono «aspettare i loro alleati pima di intraprendere qualsiasi azione contro l’Iraq», mentre solo il 24% ritiene che «l’Iraq presenta una così evidente minaccia agli interessi americani che gli Stati Uniti devono attaccare ora, anche senza il sostegno degli alleati». Insomma, l’unione fa la forza.11

 

Perdite.

Numerose domande hanno cercato di accertare l’effetto che l’entità delle perdite occidentali avrebbe sul grado di sostegno per l’operazione nei confronti dell’Iraq. Sintetizzando una ricca quantità di materiale disponibile, Everts conclude (2002) che il sostegno per l’operazione sembra ridursi di un terzo, quando si introduce la considerazione del numero di perdite. Nell’agosto 2002 alla domanda se la rimozione di Saddam valesse la perdita potenziale di vite umane americane, l’opinione pubblica americana appariva divisa, con il 46% che era d’accordo e il 43% che non lo era. Attualmente, non sembra quindi esservi negli Stati Uniti alcun fermo sostegno per l’uso delle forze terrestri in quella che è percepita come una operazione militare rischiosa (e sulla rischiosità della quale sembrano concordare analisti strategici sia critici che simpatizzanti). Per valutare l’impatto di questi fattori nel loro complesso, nell’ambito della inchiesta Worldviews 2002 e solo per il campione di europei, fu costruita una situazione sperimentale che metteva in relazione tra loro tre fattori: la legittimità dell’operazione, gli interessi in gioco e le perdite attese (vedi figura 1). A campioni differenti di individui, scelti casualmente, fu sottoposto uno di otto possibili scenari nei quali variava la legittimità dell’operazione (con o senza l’approvazione delle Nazioni Unite), gli interessi in gioco (per distruggere le armi di distruzione di massa o per punire Saddam di aver sostenuto i terroristi di Al Qaeda) e il numero di perdite (una operazione che produceva molte o poche vittime tra le forze armate dei paesi occidentali). Gli intervistati erano invitati a dichiarare se erano disposti a sostenere l’uso delle forze armate del proprio paese in questa situazione.

Limitandoci ad esaminare i tre fattori nei 6 paesi, in 12 su 18 casi i risultati confermano quanto detto sinora: perdite, legittimità e interessi in gioco hanno un peso importante, ma differente. A parità di condizioni, la legittimità dell’azione (l’avere cioè l’approvazione delle Nazioni Unite) è di gran lunga il fattore più importante per l’opinione pubblica di tutti e sei i paesi europei nei quali è stata condotta l’inchiesta. La percentuale di favorevoli all’attacco sale di quasi 20 punti percentuali (passando dal 37% al 56%), a seconda che sia prevista o meno l’approvazione delle Nazioni Unite. Gli interessi in gioco e le perdite giocano invece un ruolo minore. Pur in presenza di un andamento simile, non mancano inoltre differenze sistematiche tra i paesi europei: i tedeschi e i polacchi sono, in media, sistematicamente meno favorevoli all’uso della forza da parte del proprio paese di inglesi e francesi, con gli italiani nel mezzo.

Figura 1

In conclusione, questa rassegna dei dati disponibili sembra indicare che né gli americani né, tanto meno, gli europei, si siano ancora convinti dell’opportunità di attaccare Saddam Hussein. Benché da entrambi i lati dell’Atlantico Saddam sia estremamente impopolare e si convenga sull’opportunità di liberarsene, e benché il pubblico sembri disponibile a ricorrere all’uso della forza militare in linea di principio, americani ed europei rimangono poco persuasi dell’urgenza posta dall’amministrazione Bush per risolvere il problema e ancor meno del fatto che la forza militare sia lo strumento più appropriato. Per entrambi, è cruciale il sostegno degli alleati e la legittimità conferita dalle Nazioni Unite. Infine entrambi sono sensibili alle ripercussioni che il conflitto può avere. Gli americani ne temono gli effetti sul lavoro iniziato in Afghanistan e gli europei sulla situazione palestinese. Considerazioni queste che contribuiscono a renderli ancora più cauti.

Il messaggio principale di questo saggio è in breve che lo stato dei rapporti euro-atlantici, come è rilevabile dalle inchieste di opinioni di massa disponibili, è molto meno catastrofico di quanto i media o le dichiarazioni dei politici ci facciano sospettare. Non solo non siamo in procinto di divorziare, ma nemmeno proveniamo da mondi differenti, siano essi Marte o Venere. D’altro canto, il quadro è anche molto più complicato e sfaccettato di quanto le tradizionali analisi dei rapporti transatlantici ammettano. Ciò vale non solo tra i due lati dell’Atlantico, ma anche in ciascuno dei due continenti. È banale ricordare che in alcuni casi le differenze tra francesi ed italiani o tra inglesi e tedeschi sono spesso molto maggiori che tra americani ed italiani o inglesi. Ma questo vale anche negli Stati Uniti, un paese dove la Birch Society coesiste con il Sierra Club e la National Rifle Association con Ralph Nader. Tuttavia, i dati in nostro possesso sembrano indicare che il grado di somiglianza tra il pubblico europeo e quello americano su molti punti è rimarchevole, sistematico e stabile. Ciò vale in particolare per il tema alla ribalta in queste settimane: l’Iraq. Sull’opportunità di attaccare l’Iraq americani ed europei sono sulla stessa lunghezza d’onda e molto più distanti dai propri governi che non gli uni dagli altri.

Se questo è un quadro realistico dei rapporti euroatlantici, visti dalla specifica, ma precisa, prospettiva dell’opinione pubblica, in che misura esso incide sul giudizio complessivo sulla natura delle divergenze euroatlantiche? In parte ciò significa che queste divergenze vanno ridimensionate. La loro rilevanza è, in parte, una ulteriore manifestazione di quel fenomeno di ragionevolezza delle masse e polarizzazione delle élite, per cui ad esempio «gli americani medi sono fondamentalmente centristi, propensi al compromesso, all’equità, e alla ricerca di soluzioni ragionevoli. Il loro Congresso è polarizzato, iperpartitico e reattivo agli attivisti di destra e di sinistra» (Destler, 2002). Probabilmente ciò è vero anche in Europa. Ad esempio, il governo Blair è di gran lunga più militante e il governo italiano più pacifista di quanto lo siano rispettivamente l’opinione pubblica inglese ed italiana, come testimonia il caso del Kosovo (Isernia e Everts, 2002). E tutto ciò dipende da fattori interni che poco hanno a che fare con molti dei problemi attualmente sul tappeto, e ancor meno con la natura dei rapporti transatlantici.12 In questo senso, l’ a mministrazione Bush ha introdotto uno stile differente, più abrasivo e macho di quello cui eravamo abituati con la precedente amministrazione Clinton. Stile che, tra l’altro, in queste settimane si sta già modificando.13

In parte tuttavia le divergenze sono reali, ma scaturiscono non tanto dalla diversa visione del mondo di europei ed americani, quanto piuttosto da valutazioni differenti di come affrontare i problemi sul tappeto. Il caso dell’Iraq è anche qui emblematico. Questa analisi indica che, ben lungi dal trovarsi in conflitto tra una visione del mondo hobbesiana ed una kantiana, americani ed europei sono entrambi prudenti sul da farsi e non convinti della urgenza della missione, ma attenti ad ascoltare le ragioni degli uni e degli altri e a cambiare opinione, se gli argomenti addotti appaiono loro convincenti. In altre parole, siamo in un caso in cui le divergenze pubbliche tra élite politiche europee ed americane (e presumibilmente, tra élite di destra e di sinistra all’interno di ciascun paese) rendono il pubblico di entrambe le sponde dell’ Atlantico attento alle ragioni a sostegno o contro un attacco e dei costi e dei benefici che esso implica, ma anche prudente sulla opportunità di farlo. Secondo l’amministrazione Bush, Saddam deve essere eliminato perché costituisce una minaccia nucleare – se non subito, tra poco – per cui, proseguendo in una analogia cara a molti membri di questa amministrazione, l’appeasement e la logica di Monaco non pagano. Secondo i governi europei (con gradazioni differenti) invece l’attuale sistema di sanzioni, eventualmente rafforzato, è sufficiente, perché contenere Saddam è preferibile a sostituirlo. Che le valutazioni su cosa fare possano divergere è comprensibile, se consideriamo l’incertezza circa le reali intenzioni di Saddam, la mancanza di informazioni sulle sue reali capacità e la difficoltà di predire le molte conseguenze a medio e lungo termine dei differenti corsi di azione.

Non deve sorprendere quindi che il pubblico sia prudente. Le inchieste, a seconda che la domanda introduca questa o quella considerazione – le perdite di vite umane tra le truppe occidentali o la legittimità dell’azione, la risposta nucleare di Saddam Hussein o gli effetti sulla causa palestinese – producono livelli di sostegno per l’operazione militare che vanno dal 10% al 60%. Il variare di questi fattori ha un impatto apparentemente molto maggiore di quello che scaturisce dalle diversità nazionali (che a loro volta riflettono i dibattiti interni a ciascun paese, o la loro mancanza). È ovviamente impensabile predire il futuro, ma possiamo ritenere che una operazione su una scala minimamente congruente all’obiettivo dichiarato dall’amministrazione Bush si avvicinerà di più alle operazioni di tipo tradizionale, come il Golfo I, che non alle «guerre virtuali» (Ignatieff, 2000) del Kosovo e della Bosnia. Conquistarsi il sostegno dell’opinione pubblica in questa situazione sarà una operazione impegnativa, sia da un lato che dall’altro dell’Atlantico. Tuttavia, il fatto che la discussione sul merito delle diverse soluzioni avvenga pubblicamente – di fronte all’opinione pubblica – allo scopo di convincerla della validità dei propri argomenti, siano essi a favore o contro l’attacco, riflette il corretto funzionamento del processo democratico in politica estera e lo stato di salute dei rapporti euro-atlantici.

 

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Note

1 Pierangelo Isernia è stato consulente scientifico del German Marshall Fund of the United States nella ricerca Worldviews 2002 condotta in collaborazione con il Chicago Council on Foreign Relations. Ovviamente, la responsabilità per le interpretazioni contenute in questo saggio è totalmente dell’autore e non impegna in alcun modo il German Marshall Fund of the United States. L’autore ringrazia Philip Everts per aver condiviso con lui alcuni dei dati in suo possesso.

2 L’indagine è stata condotta in sei paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Germania, Polonia, Italia e Paesi Bassi) dalla MORI (Market & Opinion Research International), con 6001 interviste telefoniche. In ognuno dei sei paesi europei sono state condotte 1000 interviste (1001 in Francia) su un campione rappresentativo della nazione di età superiore o eguale ai 18 anni. L’inchiesta è stata condotta telefonicamente in tutti i paesi tranne la Polonia, in cui la minore penetrazione telefonica ha giustificato il ricorso a una metodologia diretta. Tutte le interviste sono state realizzate tra il primo giugno ed il 6 luglio 2002. Riguardo ai risultati ottenuti sul campione totale in ognuno dei sei paesi, può affermarsi con una sicurezza del 95% che il margine di errore attribuibile alla campionatura e ad altri effetti casuali è compreso tra +/- 3 %.

3 L’indagine negli Stati Uniti è stata condotta da Harris Interactive con 2862 interviste telefoniche su un campione rappresentativo della popolazione di età superiore o eguale ai 18 anni. In aggiunta, sono state condotte 400 interviste faccia-a-faccia, basate su una versione completa del questionario proposto telefonicamente. Tutte le interviste sono state condotte tra il primo e il 30 giugno 2002. I dati per i questionari telefonici e i questionari diretti sono stati valutati separatamente, in conformità delle caratteristiche demografiche della popolazione e sono stati uniti per ottenere un campione combinato (n=3262). Il margine d’errore varia tra due e quattro punti percentuali. L’indagine americana si basa sull’inchiesta quadriennale che il CCFR conduce sin dal 1974 sugli atteggiamenti degli americani nei confronti della politica estera.

4 Altre due inchieste esplicitamente comparate nell’ambito dell’area euro-atlantica sono quella del - l’aprile del 2002 condotta dal Pew Research Center for the People & the Press per conto dell’International Herald Tribune e del Council on Foreign Relations, che includeva Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Stati Uniti; e quella dell’aprile 1998 del Program on International Policy Attitudes della University of Maryland in collaborazione con la United States Information Agency condotta in Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Stati Uniti. Bisogna risalire agli anni Sessanta per trovare ricerche analoghe sull’argomento. Ad esse si aggiungono i dati disponibili su base nazionale. Coloro che volessero esaminare direttamente i dati delle inchieste sulla quali è basato questa analisi possono consultare i documenti alla pagina web del Centro interdipartimentale di ricerca sul cambiamento politico dell’Università di Siena all’indirizzo: https://www.unisi.it/circap.

5 Le cifre indicate per l’Europa in generale sono ponderate sulla base alla popolazione adulta di ognuno dei sei paesi oggetto dell’indagine.

6 Si riassumono qui i risultati di una ricerca sulle reazioni agli eventi dell’11 Settembre 2001 nel mondo presentata in Everts and Isernia (2002) e disponibile all’indirizzo: www.unisi.it/circap .

7 Le diverse procedure di campionamento usate devono indurre a comparare con prudenza i risultati di queste inchieste. Tuttavia, in senso ordinale, i dati ci danno una indicazione della graduatoria dei paesi vicini agli Stati Uniti.

8 Questa sezione attinge ai dati raccolti da Everts (2002), che l’autore ringrazia per avergli concesso di utilizzarli.

9 Per due analisi, parzialmente differenti, sul «che fare» in Iraq si vedano Gordon, Indyk e O’Hanlon (2002) e Pollack (2002).

10 Per il Golfo si vedano Mueller (1998) sugli Stati Uniti e Isernia (1996) sull’Italia; per la Bosnia Sobel e Shiraev (2002); per il Kosovo Isernia e Everts (2002 e in preparazione).

11 Così Andrew Kohut, direttore del Pew Research Center, citato in Ann Scott Tyson, «Invading Iraq: Would the public go along?», in Christian Science Monitor, 17 Luglio 2002, https://www.csmonitor.com/2002/0717/-02s01-usmi.html.

12 Per una ricostruzione delle possibili cause di questo fenomeno negli Stati Uniti si veda Rohde (1994).

13 Si può discutere se, in assenza dell’attacco dell’11 settembre 2001 un simile stile di policy non sarebbe stato costretto a modificarsi anche prima, se non altro all’interno, dove, per timore di apparire non «patriottica», l’opposizione democratica ha rinunciato sinora ad una seria critica della politica dell’attuale amministrazione.