La conquista di ogni giorno. A proposito di Fernando Santi e dei socialisti nella CGIL

Di Marco Gervasoni Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Curioso destino quello dei leader del sindacalismo italiano del Novecento. Tanto conservano un minimo livello di notorietà i capi politici del socialismo e del comunismo, da Turati a Nenni, da Togliatti ad Amendola, quanto restano più sfocati i nomi di un Bruno Buozzi o di un Di Vittorio. Tutto ciò nonostante l’importanza del contributo del sindacalismo che, nell’età giolittiana e poi in quella repubblicana, non fu certo inferiore, nell’alfabetizzare politicamente le masse (e persino nel nazionalizzarle), a quello dei partiti politici.

Curioso destino quello dei leader del sindacalismo italiano del Novecento. Tanto conservano un minimo livello di notorietà i capi politici del socialismo e del comunismo, da Turati a Nenni, da Togliatti ad Amendola, quanto restano più sfocati i nomi di un Bruno Buozzi o di un Di Vittorio. Tutto ciò nonostante l’importanza del contributo del sindacalismo che, nell’età giolittiana e poi in quella repubblicana, non fu certo inferiore, nell’alfabetizzare politicamente le masse (e persino nel nazionalizzarle), a quello dei partiti politici.

A questo destino di oblio non sfugge Fernando Santi, il principale esponente del sindacalismo socialista, segretario aggiunto della CGIL dal 1947 al 1965. I suoi contributi, sia negli anni del Patto del Lavoro (spesso sbrigativamente definito di paternità dell’allora segretario della CGIL, Di Vittorio) sia in quelli tormentati dell’elaborazione del centrosinistra, tra il 1956 e il 1964, sono tanto importanti quanto poco studiati e conosciuti.

Il pezzo che qui si propone è una selezione dal discorso di commiato di Santi alla segreteria aggiunta della CGIL, durante il VI Congresso dell’organizzazione sindacale nel 1965. Santi propone un’idea di sindacato in cui particolarmente pregnante è l’insistenza sul concetto di «riformismo». Il punto di vista di Santi si sintetizza in alcuni momenti chiave: una concezione «umanistica» del sindacato, come «strumento naturale di democrazia», che può essere perseguita solo con la sua «autonomia», va da sé dalle forze economiche, ma anche dai partiti politici. Una concezione «gradualistica», fondata sulla «sicura conquista di ogni giorno». Una concezione, infine, «riformista», dove l’azione delle riforme deve incidere sulle «strutture», secondo il concetto (o lo slogan) assai in voga in quegli anni di «riforme di struttura».

Il lettore potrà da sé rendersi conto, senza bisogno di ulteriori glosse, delle parole di Santi. Qui si vogliono proporre invece alcune considerazioni sulla contemporanea attualità ed inattualità di tali proposte. Nel linguaggio di Santi emerge il sostrato di tutta una tradizione del socialismo e del sindacalismo italiano che rimonta alla fine del XIX secolo. Santi era, infatti, nato nel 1902 vicino Parma, a diciotto anni era già segretario della Camera del lavoro di quella città, culla del sindacalismo rivoluzionario di un De Ambris. Durante il fascismo, rifugiatosi in Svizzera, e ancora nel secondo dopoguerra si può affermare che Santi respiri una tradizione e un insieme di pratiche tipiche del socialismo e del sindacalismo prima del fascismo.

È vero che le battaglie tra riformisti e rivoluzionari erano allora aspre e persino cruente. Quel mondo, pur battuto da contrasti interni molto forti, sapeva tuttavia mantenere una propria coerenza interna. Le differenze tra riformisti e rivoluzionari erano rigide sul piano dottrinale e propagandi - stico, ma su quello quotidiano, e non solo, gli uni chiedevano, magari senza rendersene conto, prestiti agli altri. Tutti in ogni caso erano legati da obiettivi che, dal miglioramento delle condizioni di lavoro, dalla riduzione della durata dell’orario, dagli aumenti del salario, salivano fino alle credenze utopiche di un «sol dell’avvenire», tenuto insieme più da un impasto di speranza laica che da una rigida dottrina deterministica di stampo marxistico. Questo mondo, tipico del socialismo italiano prefascista, fu sconvolto, prima ancora che dalla rivoluzione bolscevica, dalle trasformazioni impresse in Italia dalla prima guerra mondiale. Tale tradizione fu però tenuta viva nel partito socialista durante l’esilio (soprattutto grazie a Buozzi e a una parte dei socialisti che non scelgono la strada dell’esilio) e poi, nell’Italia repubblicana, non si spegnerà neppure neglianni del rigido patto di unità d’azione tra PCI e PSI, dal 1947 al 1956.

Santi era allora, dopo Riccardo Lombardi, il principale esponente del cosiddetto «autonomismo». Si trattava di una proposta che, pur criticando gli errori del «vecchio riformismo», sosteneva un nuovo riformismo capace di attualizzare quell’impasto di pratiche e di culture che avevano fondato il socialismo in Italia, di cui lo stesso Togliatti, negli stessi anni, raccomandava ai comunisti di tenere in conto. Tale nuovo riformismo, a sua volta, si proponeva come un progetto politico che, introducendo progressivamente elementi di socialismo nelle sfera economica e dei rapporti sociali, avrebbe perciò stesso modernizzato la nazione – secondo un impianto di carattere finalistico, per cui il progresso della modernità avrebbe coinciso con l’avvento del socialismo.

Oltre a Lombardi e ad Antonio Giolitti, anche il nome di Santi è legato a quello di «riforme di struttura». Il concetto ha una sua storia, ancora non studiata, e forse iniziata nella Francia e nel Belgio degli anni Trenta - vi riflettono un Henri De Man, principale rinnovatore da un punto di vista teorico, e non solo, del laburismo belga, e in Francia alcune aree del socialismo di stampo modernizzante e revisionista. In seguito di riforme di struttura si parla anche in quei gruppi di «Giustizia e Libertà» e poi del Partito d’azione più attenti alle esperienze del laburismo britannico e del New Deal rooseveltiano. Qui il concetto di «riforme di struttura» prende quell’accento vagamente tecnocratico e «giacobino», visibilissimo negli scritti e anche nelle proposte concrete di Lombardi e di quella che, dopo la scissione dello PSIUP, diventò la sinistra del PSI.

Di questa tendenza Santi, quasi sempre membro della direzione del PSI e deputato per quatto legislature, faceva parte appieno. E tuttavia, anche nel caso di Santi come in quello dei grandi leader del sindacalismo italiano, occorre prendere cum grano salis, la loro appartenenza «socialista» (o «comunista»). Santi era certo socialista, non solo per l’adesione al partito che recava quel nome ma, come si è visto, per il suo cercare di rinnovare pratiche che da quella tradizione discendevano. Nello stesso tempo, allorché si entra nella sfera del sindacato, le divisioni tra «socialista» e «comunista» tendono, se non a elidersi, a prendere accenti differenti da quelli di chi opera nell’agone dei partiti. È oggi ben noto quanto della tradizione socialista riformista sia entrato nel Piano del lavoro di Di Vittorio, e in generale nella sua CGIL. Ci limitiamo a due tratti, accennati anche nel discorso di commiato di Santi: l’insistenza sull’etica del lavoro e l’idea del sindacato come organo di educazione alla democrazia, che erano ben presenti nella CGIL prefascista e nella FIOM buozziana. Del resto, lo stesso Di Vittorio, come oggi sappiamo, reca con sé le tracce della sua formazione sindacalista rivoluzionaria nella Puglia a ridosso della guerra e negli anni successivi al primo conflitto mondiale: e il sindacalismo rivoluzionario è pure uno dei tratti fondanti del mondo socialista di quegli anni. Per questo gli interventi di Santi, rispetto a quello dei «politici» Lombardi e Giolitti, pur nella radicalità delle posizioni, perdono quell’accento vagamente tecnocratico e pienamente «statalistico». Santi insiste piuttosto sul senso dell’autonomia, delle riforme che crescono dalla società civile, capaci di costruire un agire di senso collettivo. Attraverso i corpi intermedi, tale domanda di riforme arriva a quell’istituzione che, sola in una democrazia rappresentativa, è legittimata ad attuarle, cioè il Parlamento.

Negli anni Sessanta spesso si accusò (soprattutto da parte comunista) le riforme di struttura proposte dai socialisti di peccare di «riformismo dall’alto». Curiosa definizione: come si è visto, se con «alto» si intende che le riforme devono essere promulgate dal Parlamento, non può esistere, in una democrazia rappresentativa, riformismo se non «dall’alto». Diversa cosa è intendere un riformismo che, attraverso una serie di corpi intermedi, e di questi il sindacato italiano è stato ed è il più robusto, crei i punti di connessione tra il livello legislativo-parlamentare e quello politico di base. In tal caso, le riforme di struttura di Lombardi e di Santi potevano essere accusate di astrattismo, poiché non vi erano le condizioni politiche per attuarle, non tuttavia di essere recate dall’alto. Si noti poi, ancora una volta, la differenza di accenti tra Santi e Lombardi. Mentre Santi insiste, anche nel brano qui pubblicato, sulla identità di un riformismo, un riformismo senza aggettivi, negli stessi anni Lombardi, anche per la messa ai margini delle sue proposte all’interno del partito socialista e per il progressivo isterilimento del centrosinistra, andava radicalizzando le proprie posizioni, fino all’elaborazione di un ossimoro, affascinante come tutti gli ossimori, ma poco effettuale, come quello di «riformismo rivoluzionario».

Da qui anche l’accento, nel discorso di Santi, ad una concezione non giacobina, non «militare», delle avanguardie. Dove le élite, se si vuole utilizzare un concetto della scienza politica, debbano essere costantemente collegate alla base, proprio per essere questa diversificata, complessa, plurale, le cui passioni e i cui interessi non possono perciò mai essere completamente «incarnati» dai vertici. Un discorso, quello di Santi, allora probabilmente in larvata polemica con la concezione comunista del rapporto tra sindacato e partiti. Ma una suggestione ancor più valida oggi, tanto nel sindacato quanto nelle organizzazioni politiche.

Nel discorso di Santi molto suona «inattuale». Ma se vogliamo evitare il falso dilemma rappresentato, per un verso dalla distruzione della memoria storica in nome dell’imperativo del nuovo, per l’altro dal mantenimento di tradizioni ormai svuotate di senso semantico, occorre pensare in maniera meno ingenua la coppia attuale/inattuale. E comprendere come, nei reperti che il passato ci rilascia, possiamo scorgere ciò che è attuale solo se inforchiamo le lenti giuste. E gli archivi (anche quelli del riformismo) non saranno più depositi polverosi, ma fonti di iniziativa. Così, non è inattuale l’idea di un sindacato inteso come attore collettivo produttore di educazione e di partecipazione alla democrazia, costruttore di cittadinanza, per questo aperto ad accogliere figure sociali sempre nuove, risultato delle trasformazioni di quelle «strutture» economiche, sociali, ma anche culturali e mentali, che ci fanno pure sentire così lontani i trentasette anni trascorsi dal discorso di Santi. Un attore collettivo il cui spettro di visione e di azione non può essere limitato alle frontiere nazionali. Notevole, se si pensa alla freddezza con la quale, nella sinistra italiana, e anche nei socialisti, si guardava negli anni Sessanta al tema dell’unità europea, è per questo il passaggio di Santi sulla costruzione europea e sulla fondazione di una sorta di «sindacato europeo».

Non è soprattutto «inattuale», anzi è del tutto da ripensare, il ruolo del sindacato come corpo intermedio, produttore di forme di legittimità che integrano ed allargano quella «statualità» che ha perso sempre più il proprio baricentro nazionale. Le riforme di struttura di Lombardi e di Santi, se erano forse praticabili negli anni Sessanta, oggi non lo sono più, venendo meno il volano dello Stato come decisore nella sfera economica. Ma è possibile far sì che altri corpi, il sindacato in primis, creino forme di legittimità e di decisione, di controllo e di governo nella sfera economica e sociale. Ed era quello che immaginavano, sia pure un po’ confusamente, i sindacalisti italiani di inizio Novecento, un Buozzi da un lato, i sindacalisti rivoluzionari dall’altro.

 

Fernando Santi

Il sindacato oggi non si occupa di solo pane. Il benessere che vogliamo conquistare per i lavoratori non è fine a se stesso. È una delle condizioni per una dignità umana e sociale senza la quale l’uomo – che per noi è il fine di tutte le cose – si sente lo stesso umiliato ed offeso, estraneo al consorzio civile, nemico agli altri ed a se stesso. Il sindacato è strumento naturale di democrazia. Ecco perché chiederci se siamo nel sistema o fuori dal sistema è porre un falso dilemma. Per la somma degli interessi particolari e generali che rappresenta, per i fini che si propone di giustizia sociale e di difesa della personalità umana, per il suo operare nell’ambito della legalità istituzionale, il sindacato è un’autentica forza democratica, garanzia di libertà.

Condizione perché l’iniziativa e l’azione del sindacato possano manifestarsi ad ogni livello e in ogni luogo – incominciando da quello di lavoro – è la sua autonomia da ogni e qualsiasi forza esterna: padronato, partiti, governi. Riconosciamo che questa autonomia può essere quotidianamente insidiata e che pertanto va salvaguardata ogni giorno. L’esigenza della autonomia effettiva del sindacato, così come la sua unità, nasce dalla necessità del sindacato di non delegare ad altri quelli che sono i suoi compiti naturali. Di non soggiacere alla pressione padronale, alle esigenze politiche di questo o quel partito, di questo o quel governo. L’autonomia del sindacato trova concreta espressione nella sua politica che deve partire dalla realtà obiettiva dei rapporti di lavoro, delle esigenze dei lavoratori e della collettività popolare nazionale […]

L’unità si conquista e si mantiene con una linea sindacale che porti avanti le giuste rivendicazioni dei lavoratori, volute dalla maggioranza dei lavoratori, a quel momento dato, in quelle obbiettive condizioni così come la realtà le promuove e le rende possibili, come dimensione da conquistarsi con un intelligente uso delle nostre forze e dei nostri metodi di lotta che siano accettabili dai lavoratori. Io credo al valore dell’esempio alla funzione delle avanguardie, sale della terra, che gettano luce su domani ancora oscuri per molti. Ma teniamo presente che il compito delle avanguardie, anche se talvolta può essere di sola testimonianza, non è come criterio generale, quello di farsi isolare. Ma è quello di aprire la strada al grosso dell’esercito col quale esse devono essere costantemente collegate. Una delle caratteristiche sostanziali del sindacato è infatti quella di essere un’organizzazione di massa. È fatto di uomini, di uomini come noi, esattamente, con opinioni politiche diverse o senza opinione, l’animo aperto a suggestioni mutevoli, con timori e speranze. Uomini che talvolta marciano a passo diseguale ma che comunque vogliono andare avanti, che ogni giorno acquistano coscienza della loro condizione e della necessità di mutarla.

Ecco perché io penso che vi è una legge invisibile che presiede – lo vogliamo o no – all’azione del sindacato: la legge della gradualità. Il sindacato non può dare appuntamenti alla storia. I partiti lo possono fare, ed entro determinati limiti anch’essi. Il sindacato deve ogni giorno rendere conto del suo operato. Ogni giorno direi deve conquistare qualche cosa, ecco perché dobbiamo rifuggire da sterili impazienze come da abbandoni colpevoli. Io credo nella sicura conquista di ogni giorno, credo nella necessità di trasferire nel costume, negli ordinamenti, nelle leggi, le conquiste operaie perché siano salvaguardate e diventino patrimonio civile di tutta la società nazionale. Non possiamo rinunciare per un malinteso senso di autonomia, a chiedere allo Stato quello che uno Stato democratico ha il dovere di fare nei confronti dei lavoratori. I padroni non chiedono forse come noi, più di noi, e non ottengono forse più di noi?

Perciò dobbiamo batterci per conquistare nei fatti e nelle leggi i diritti sindacali e democratici che discendono dai principi generali di libertà che la Costituzione sancisce. Quella Costituzione che afferma nel suo articolo fondamentale che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Cosa stupendamente bella in teoria che vuol dire, in teoria, che il lavoro – e i lavoratori dunque – sono la base delle nostre strutture economiche sociali e giuridiche, che gli interessi dei lavoratori sono prevalenti nei confronti di quelli delle forze sociali con le quali il lavoro si trova in una naturale posizione di antagonismo. Ciò vuol dire che chi attenta al lavo ro, ai suoi diritti, ai suoi interessi, alla dignità dei lavoratori, attenta alle basi stesse del nostro ordinamento democratico. Cose stupendamente belle, dicevo, che la realtà regolarmente smentisce perché manca la volontà politica di realizzare la Costituzione in modo conseguente. Questa volontà esplicita o meno è nei l a voratori, nel sindacato. Lottando per gli interessi dei lavoratori noi lottiamo dunque per aprire serie prospettive di rinnovamento e di progresso democratico del paese.

La nostra lotta rivendicativa ha il suo punto di fuoco nella fabbrica dove passa la linea della battaglia immediata per la ripartizione del reddito. Giusto. Ma dobbiamo riconoscere che l’azione salariale da sola non è in grado di rompere o valicare le strutture esistenti, che reagiscono e si irrigidiscono chiamando in loro soccorso tutte le forze politiche e sociali conservatrici. Noi dobbiamo lottare anche per riformare queste strutture, aprire nel muro d’argento del sistema il varco attraverso il quale passare con la somma delle nostre rivendicazioni quantitative e qualitative. E per questo fine non possiamo rinunciare, pur nella nostra autonomia, al concorso di tutte le forze socialmente avanzate ovunque esse si trovino collocate, all’opposizione ed al governo.

Riforme, riformismo, riformisti, compagni. Certo, nel senso che spero traspaia da questo mio intervento, io sono un riformista. Vale a dire credo nella trasformazione graduale democratica della società attuale in una società più libera e più giusta. Credo nei valori permanenti di democrazia e di libertà che devono accompagnare l’ascesa delle classi lavoratrici a garanzia appunto dell’auspicata nuova società. Cerco di richiamarmi all’insegnamento di quegli uomini del riformismo emiliano e italiano nella galleria dei quali si è voluto ieri - come atto di stima e di affetto - collocare il mio vivente ritratto. Uomini umani, civili, onesti di fede ma – badate bene – uomini tutt’altro che accondiscendenti, duri nelle lotte, intransigenti nei principi. Nobile razza che ormai pare estinta senza lasciare eredi. E credo nella autonomia del sindacato in qualsiasi tipo di società civile, anche nella società socialista, per il suo compito, ovunque necessario, di sollecitazione, di verifica, di rappresentanza permanente degli interessi specifici dei lavoratori […]

È necessario anche accentuare gli sforzi per l’unità sul piano europeo, rimuovendo tutti gli ostacoli veri e supposti, di comodo cioè, in funzione di alibi, che possono annullare questi sforzi. Se c’è un movimento nel mondo per sua natura internazionalista, è quello sindacale. Noi riaffermiamo con finezza questo spirito internazionalista che ci rende compagni ai lavoratori di tutto il mondo, senza distinzioni di ideologia, di regimi sociali, di nazionalità razza e colore. Operare sul piano europeo, non sorprendetevi se mi dichiaro europeista, fautore di un’Europa democratica senza preclusioni suicide. L’Europa diviene sempre più una realtà anche se questo processo in campo economico è ora compromesso e dominato dai monopoli. Sono europeista perché la lotta della classe dei lavoratori varca le frontiere e sale a livello europeo […]

Siamo forse stati irresponsabili nel passato? Non lo credo. Comunque io non mi spavento di questa parola. Se essa, come credo, vuol dire quello che noi intendiamo: autonoma capacità di decisione, autonoma capacità di scelte da operare nell’interesse dei lavoratori, nel quadro degli interessi non dei gruppi privati ma di quello della collettività popolare e nazionale. In realtà molte cose si possono chiedere al sindacato. Soltanto una non può essere chiesta: che rinunci ad essere se stesso, che rinunci alla sua responsabile ma autonoma amministrazione della forza lavoro, che deleghi ad altri, partiti o governi, la propria naturale funzione senza la quale il sindacato decade e scompare [...]

Molti miti sono stati infranti, vecchie prospettive sono cadute, esperienze nuove sono in corso, guardate con fiducia da taluni, contestaste con convinzione da altri. A mio avviso è necessario un profondo ripensamento delle esperienze variamente consumate per creare nuove prospettive, reali e non illusorie, per tutto il movimento operaio in senso lato. So che questo non è compito del sindacato. Se ne parlo qui è solo perché in questo necessario ripensamento – o revisione se non abbiamo paura delle parole e io non ho paura – se ne parlo qui dicevo, è perché l’esperienza del sindacato, l’azione del sindacato, può essere non un modello ma un punto di riferimento istruttivo per determinate nuove condizioni e nuove prospettive che ridiano slancio alle masse popolari italiane per un serio rinnovamento della nostra società, un rinnovamento sulla via della democrazia, della libertà, del progresso sociale. Ho detto che è un discorso che non va fatto qui. Va fatto a livello politico, va fatto fuori di qui. È il grande discorso della sinistra italiana, nella sua complessa realtà; ma è un discorso che va fatto. Il tempo che ancora si può perdere è poco. Sappiatelo, sappiamolo, lo sappiano.

Da Confederazione Generale Italiana del Lavoro, VI Congresso Nazionale 31 marzo-5 aprile 1965, Roma, Edizioni CGIL, 1965

 

Chi è Fernando Santi?

Nato nel 1902, segretario della Camera del Lavoro di Parma nel 1920 e di quella di Torino dal 1921 al 1925, dopo la Liberazione, nel 1947 e fino al 1965, è Segretario Generale della CGIL in rappresentanza del PSI, di cui fu membro della Direzione e deputato per varie legislature. Muore nel 1969.