Scenari di riforma del mercato del lavoro italiano

Di Pietro Ichino Giovedì 09 Ottobre 2008 18:55 Stampa
L’Italia vive in una situazione caratterizzata da un netto dualismo tra la metà protetta della forza lavo­ro e la metà poco o per nulla protetta. Alla perpe­tuazione di questo modello del mercato del lavoro duale non può rassegnarsi una sinistra moderna, at­tenta alla comparazione con le esperienze offerte dai paesi stranieri più civili. Un primo passo decisivo può consistere nel disegnare un nuovo ordinamen­to del lavoro, capace di ridurre drasticamente, al­meno nella fase iniziale, il costo del lavoro regolare per le imprese; e capace al tempo stesso di offrire a tutti i new entrants una forma di lavoro decente e una vera uguaglianza di opportunità. In questo ver­so va la proposta di una grande intesa tra lavorato­ri, attuali o potenziali, e imprenditori, nella quale questi ultimi rinuncino al lavoro precario.

Chi vuole il superamento del mercato del lavoro duale e chi no

Nella sua relazione al seminario della Confindustria del 26 giugno scorso, Gianni Toniolo presenta dati che pongono l’Italia in una decorosa posizione mediana tra i maggiori paesi del mondo, per il grado complessivo di protezione del lavoro; e conclude collocando l’«eccesso di regolazione del mercato del lavoro» soltanto al quinto posto1 tra gli «ostacoli percepiti» alla crescita del sistema Italia. In realtà, quest’aurea mediocritas è l’esito della media in una situazione caratterizzata da un netto dualismo tra la metà protetta della forza lavoro e la metà poco o per nulla protetta, tra i nove milioni e mezzo di lavoratori regolari stabili, cui si applica lo Statuto dei lavoratori nella sua interezza, e gli altri nove milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto dei medesimi fattori istituzionali. A questa situazione gli industriali italiani sembrano oggi acconciarsi di buon grado: rinunciano a rivendicare una riforma incisiva del diritto del lavoro, come invece fecero nel periodo 2001-05, e a questa rinuncia il centrodestra sembra rispondere in modo del tutto sintonico. Inizialmente, durante la campagna elettorale, per bocca di Giulio Tremonti («Lasciamo volentieri a Veltroni il tema della riforma dello Statuto dei lavoratori »), poi con le prime iniziative legislative della maggioranza su questo terreno nell’estate. Ne è un esempio l’allargamento della possibilità di assumere personale a termine, disposto dall’articolo 21 del decreto legge 112 del 2008, che sostanzialmente consolida il regime di apartheid tra protetti e non protetti. Alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale non deve, invece, e non può rassegnarsi una sinistra moderna, attenta alla comparazione con le esperienze offerte dai paesi stranieri più civili. Innanzitutto perché quel modello è iniquo (genera posizioni di rendita da una parte, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate). Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per un secondo verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera.

Quel modello è stato prodotto, nei decenni passati, da una politica debole, incapace di far prevalere gli interessi generali su quelli organizzati, di dar voce alla metà della forza lavoro non rappresentata nel sistema delle relazioni industriali; di dar voce, più in generale, agli interessi di milioni di persone oggi escluse dal nostro mercato del lavoro (se questo funzionasse come quello britannico, avremmo 5 milioni in più di italiani – di cui 4/5 donne – al lavoro: lo spreco è quindi colossale). Occorre voltar pagina rispetto a questa lunga stagione infelice della nostra politica del lavoro. Come farlo? La tesi che si vuole qui illustrare è che un primo passo decisivo può consistere nel disegnare un nuovo ordinamento del lavoro, capace di ridurre drasticamente, almeno nella fase iniziale, il costo del lavoro regolare per le imprese; e capace al tempo stesso di offrire a tutti i new entrants una forma di lavoro decente e una vera uguaglianza di opportunità, scegliendo il meglio delle tecniche protettive sperimentate nei paesi più avanzati, ripartendo equamente fra tutti le protezioni e la flessibilità necessarie. E sostituire progressivamente questo nuovo ordinamento al vecchio, applicandolo ai nuovi rapporti di lavoro via via che essi si costituiscono.

Prima di esporre in modo più dettagliato i possibili termini di questo progetto, occorre però esaminare le altre strategie che si confrontano oggi nell’agone politico italiano, su questo terreno. Esse possono suddividersi in due categorie fondamentali: le strategie che lasciano inalterata la disciplina attuale del rapporto di lavoro subordinato ordinario e quelle che invece prevedono la sua modificazione, almeno per i nuovi rapporti.

Le strategie che lasciano inalterata la disciplina attuale del rapporto di lavoro subordinato ordinario

L’estensione a tutti della protezione forte L’idea ha il pregio della semplicità. Il dualismo del mercato e del tessuto produttivo è il prodotto di un ordinamento giuridico che divide, distingue, istituisce regimi diversi di protezione: tra aziende medio- grandi e piccole, tra lavoratori stabili e a termine, tra subordinati e collaboratori continuativi autonomi. Unifichiamo dunque la disciplina e il dualismo sparirà. È questa l’idea sottesa al referendum promosso nel 2002 da Rifondazione Comunista, Verdi e ala sinistra dei DS, tendente a estendere l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (la norma-cardine della protezione forte contro i licenziamenti) a tutte le piccole aziende che ne erano – e ne sono tuttora – escluse. Quel referendum – che mise in gravissimo imbarazzo la CGIL2 – fallì per mancato raggiungimento del quorum, ma l’idea che lo animava è rimasta ben viva ed è riemersa ripetutamente in numerose proposte successive. Paradossalmente, si può ascrivere a questa idea anche la riforma delle collaborazioni continuative autonome recata dalla legge Biagi (d. lgs. 276 del 2003, articoli 61-69): la nuova normativa, in sostanza, limita drasticamente la stipulazione di contratti di questo genere, vietandola in tutti i casi nei quali la prestazione lavorativa corrisponda a un interesse non meramente occasionale del datore di lavoro/committente.3 Prova ne sia che, quando il ministro del Lavoro del governo Prodi, Cesare Damiano, ha inteso dare un giro di vite contro l’abuso delle collaborazioni continuative autonome, lo ha fatto applicando rigorosamente proprio gli articoli 61-69 della legge Biagi.4 Si può ascrivere a questa idea – a ben vedere – anche la normativa varata con le leggi finanziarie del governo Prodi per gli anni 2007 e 2008, sostanzialmente orientate a mettere al bando, nel settore pubblico, il ricorso a forme di lavoro precario (contratti a termine, collaborazioni continuative autonome), sul presupposto che tale divieto costituisse il miglior viatico per la stabilizzazione delle centinaia di migliaia di lavoratori “atipici” in questo settore. La questione che si pone in riferimento a tutte le misure di politica del lavoro riconducibili a questa strategia di estensione della protezione forte può esprimersi sinteticamente in questi termini: quanto è elastica la domanda di lavoro nei settori del lavoro precario in cui tali misure vengono applicate?

Se si potesse ritenere che la domanda di lavoro nei settori in questione sia fortemente rigida, cioè insensibile agli aumenti di costo, potrebbe senz’altro concludersi nel senso della praticabilità della strategia qui in esame. Ma la risposta non sembra proprio poter essere questa: tutto sta a indicare che, invece, la domanda in questi settori è marcatamente elastica, e che pertanto ogni aumento del costo, o del contenuto assicurativo del rapporto imposto inderogabilmente dall’ordinamento, se non compensato, determina una riduzione dell’occupazione, ovvero l’esclusione di porzioni rilevanti di forza lavoro dal tessuto produttivo.5 Questo è particolarmente evidente nel settore pubblico, dove, in particolare, le misure legislative contenute nella finanziaria 2008, al di là delle intenzioni della parte della maggioranza di allora che le ha fortemente volute, stanno di fatto privando del lavoro decine di migliaia di persone, soprattutto giovani, via via che i loro contratti “atipici” arrivano a scadenza.

La strategia dello “Statuto dei lavori” Nel dibattito che si è registrato su questo tema nell’ultimo decennio in seno alle forze di centrosinistra, alla strategia dell’estensione a tutti della protezione forte si è contrapposta quella cosiddetta dello “Statuto dei lavori”, ovvero della protezione digradante, “a cerchi concentrici”: un nucleo centrale costituito dal lavoro subordinato nell’impresa medio- grande, con la protezione più forte; poi, con protezione via via ridotta, l’area del lavoro subordinato nell’impresa di piccole dimensioni, quella delle collaborazioni continuative autonome, quella del lavoro autonomo tradizionale. A tutti si applicano alcune protezioni essenziali, quali la tutela antidiscriminatoria, la normativa in materia di igiene e sicurezza nel luogo di lavoro gestito dal committente/ datore di lavoro, l’assicurazione pensionistica e antinfortunistica; le altre protezioni si aggiungono progressivamente, via via che dal cerchio più esterno ci si avvicina a quello del lavoro subordinato “forte”.6 L’idea, insomma, è quella di una modulazione delle tutele secondo le caratteristiche e le esigenze proprie di ciascun tipo di rapporto di lavoro, in un sistema non diviso drasticamente tra area protetta e area non protetta, ma nel quale la disciplina della materia si differenzia, da una fattispecie all’altra, soltanto parzialmente.

Ciò che accomuna tutte le versioni dello Statuto dei lavori è, per un verso, la scelta di mantenere inalterato l’ordinamento protettivo proprio del nucleo centrale, quello del lavoro subordinato nell’impresa medio-grande; per altro verso, l’opzione di lasciare in vita sia la figura del contratto a termine, sia quella della collaborazione continuativa autonoma, cui viene estesa una tutela tutto sommato molto leggera: oltre alle protezioni universali (igiene, sicurezza e pensione di vecchiaia), il generico diritto a una “equa retribuzione”, a una blandissima tutela per il caso di malattia, nessuna restrizione in materia di contratto a termine e di licenziamento. L’equilibrio di sistema che in questo modo si delinea non è, dunque, affatto caratterizzato da un superamento del dualismo attuale, che viene preannunciato, ma solo marginalmente ridotto. D’altra parte, quanto più nello Statuto dei lavori si aumentasse la protezione nell’area debole tenendo ferma la disciplina applicabile nell’area forte, tanto più questa strategia tenderebbe a confondersi con la prima, quella dell’estensione a tutti della protezione forte, o a costituirne una variante gradualistica. Si porrebbe dunque anche qui la questione del grado di elasticità della domanda di lavoro nell’area debole e degli effetti occupazionali di un aumento del tasso complessivo di protezione nel sistema.

Un inciso sul contenuto assicurativo del rapporto di lavoro e i suoi costi

Al ragionamento svolto fin qui potrebbe opporsi l’osservazione che non stiamo discutendo di livelli retributivi o di contributi previdenziali, bensì soltanto della cosiddetta “parte normativa” del contratto di lavoro. È agevole replicare che ciascuno degli elementi di questa parte normativa di cui stiamo parlando consiste essenzialmente in un aumento del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro; e l’aumento del contenuto assicurativo, in un rapporto nel quale l’imprenditore funge da assicuratore, comporta sempre un corrispondente aumento del costo del lavoro, salvo che esso sia compensato da un “premio assicurativo” pagato dai lavoratori in termini di effetto depressivo sulle retribuzioni.

Limitare la possibilità di recesso del datore dal rapporto di lavoro – dove il limite non consista soltanto in un divieto del licenziamento discriminatorio, o per motivo illecito – significa sostanzialmente accollare al datore il rischio di prosecuzione del rapporto stesso anche in una situazione in cui il suo bilancio preventivo presenta una perdita attesa. Vi sono studi econometrici che quantificano il costo per l’impresa della copertura assicurativa derivante dalla limitazione della facoltà di recesso; e ricerche che consentono di determinare, caso per caso, quanta parte di questo costo sia effettivamente sopportata dai lavoratori sotto forma di minor retribuzione.7 Una parte rilevante del gap tra le retribuzioni dei lavoratori italiani e quelle dei lavoratori degli altri maggiori paesi europei è probabilmente imputabile proprio al maggior “premio assicurativo” implicito che essi pagano, a fronte di un più elevato contenuto assicurativo medio dei loro contratti.8 Come in tutti i rapporti assicurativi, anche in questo caso la copertura può influire sui comportamenti dei soggetti che ne beneficiano. E anche a questo proposito si può citare una ricca letteratura econometrica sugli effetti di shirking prodotti dalla normativa protettiva,9 ad esempio sull’aumento dei tassi di assenza prodotto da un ampliamento della tutela del lavoratore malato,10 e così via. La disciplina protettiva contro i licenziamenti di natura economico-organizzativa, con la maggiore vischiosità del tessuto produttivo che ne consegue, produce infine un costo difficilmente quantificabile costituito dalla peggiore allocazione delle risorse umane (il lavoratore tende a stabilizzarsi nella posizione protetta, indipendentemente dal fatto che esistano posizioni diverse nelle quali il suo lavoro sarebbe meglio valorizzato); da cui un effetto depressivo sulla produttività del lavoro e un’altra possibile parziale spiegazione del differenziale retributivo ai danni dei lavoratori italiani appartenenti all’“area a protezione forte”, rispetto agli altri maggiori paesi europei.

Queste considerazioni costituiscono altrettanti argomenti a sostegno della tesi secondo cui l’attuale marcato dualismo del nostro mercato del lavoro e tessuto produttivo non fa danno soltanto alla metà della forza lavoro poco o per nulla protetta, bensì anche alla metà che gode di un alto grado di stabilità: questa protezione si paga – anche se il pagamento non è mai contabilizzato – in termini di minor produttività media, effetto depressivo sulle retribuzioni e fenomeni diffusi di free riding.

Le strategie che prevedono la modificazione della disciplina attuale e il possibile ruolo del PD

Se la strategia dell’estensione della protezione forte è impraticabile, e quella dello Statuto dei lavori ha il difetto di non incidere efficacemente sul dualismo, il solo modo per uscire dal modello duale consiste nel disegnare un contratto di lavoro unico caratterizzato da un mix ben calibrato di protezione e flessibilità, capace delle modulazioni necessarie per adattarsi a tutte le esigenze, quindi suscettibile di essere stabilito dalla legge come forma universale di rapporto di lavoro dipendente (sul presupposto che la necessità della protezione debba essere ricollegata non tanto alla posizione di “subordinazione”, quanto alle distorsioni prodotte dalla situazione di dipendenza economica) senza che ne derivi, complessivamente, un irrigidimento del sistema produttivo. Poiché è politicamente improponibile modificare in misura rilevante la forma e il grado della protezione dei rapporti re- golari stabili preesistenti, la scelta gradualista11 può consistere nell’applicare il nuovo modello di contratto a tutti i rapporti che si costituiscono da un momento dato in avanti. In altre parole, i progetti riconducibili all’idea del “contratto unico” tendono a ridisegnare il nostro diritto del lavoro, almeno per i rapporti che si costituiranno d’ora in avanti, in modo che esso offra a tutti i giovani una forma di lavoro decente e una vera uguaglianza di opportunità, ripartendo equamente fra tutti le protezioni e la flessibilità necessarie. In linea teorica un’operazione di questo genere potrebbe anche essere decisa autoritativamente dal legislatore; ma il rischio, in tal caso, sarebbe quello di una cattiva “taratura” del mix di protezioni e flessibilità, che potrebbe produrre l’effetto di una riduzione del tasso di occupazione e/o di un aumento del lavoro irregolare, a causa dell’elasticità della domanda di lavoro nelle fasce deboli di cui si è parlato in precedenza. Meglio, dunque, che l’equilibrio del progetto sia determinato attraverso una negoziazione tra esponenti del mondo imprenditoriale veramente rappresentativi, ovvero capaci di rappresentarne tutti i segmenti, e sindacalisti e politici capaci di rappresentare tutti i segmenti della nuova forza lavoro, attuale e potenziale.

Il Partito Democratico è la sola organizzazione politica che oggi sia in grado di promuovere al proprio interno un vero e proprio negoziato per un new deal di questo genere. È bene – e anche urgente – che esso sfrutti fino in fondo questo suo vantaggio strutturale rispetto alle forze dell’attuale maggioranza. Non solo nell’interesse politico proprio, ma perché questo è uno dei passaggi obbligati per far uscire il paese dalla palude in cui si è bloccato.

Ipotesi riconducibili all’idea del “contratto unico”

Il progetto Boeri-Garibaldi e il progetto Leonardi-Pallini Negli ultimi due anni nella pubblicistica italiana sono venuti maturando diversi progetti concettualmente riconducibili all’idea del “contratto unico”.12 Il più noto tra di essi è quello proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi,13 che può riassumersi in questi punti essenziali. Innanzitutto, tutte le assunzioni devono avvenire nella forma del contratto unico, a tempo indeterminato. Il contratto unico prevede una fase di inserimento, della durata di tre anni, e una fase di stabilità che segue immediatamente alla prima, con applicazione integrale dell’ordinamento generale attuale (Statuto dei lavoratori e articolo 18 nelle aziende con più di 15 dipendenti ecc.). Inoltre, durante la fase di inserimento il solo limite al recesso del datore di lavoro è costituito da un indennizzo crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore, in ragione di 15 giorni di retribuzione per ogni trimestre (salva l’applicabilità dell’articolo 18 in caso di licenziamento discriminatorio o per motivo illecito). Infine, l’azienda che assume nuovamente un lavoratore precedentemente licenziato deve ripristinare la posizione contrattuale in cui egli si trovava subito prima del licenziamento.

Un difetto di questo progetto sta nella conservazione della profonda diversità di disciplina tra aziende con meno di 16 dipendenti e aziende maggiori: un aspetto del dualismo del nostro mercato che invece può e deve essere superato. Quanto alla taratura della protezione stabile, gli esponenti del mondo imprenditoriale che ho sentito discutere di questo progetto considerano inaccettabile l’aumento del contenuto assicurativo complessivo del sistema che risulterebbe a regime, quando tutti i lavoratori con più di tre anni di anzianità di servizio saranno posti sotto il vecchio ombrello protettivo; viceversa, dai dirigenti sindacali ho sentito per lo più respingere la tutela troppo debole prevista per i primi tre anni.

Entrambi i difetti appena menzionati possono ravvisarsi in misura maggiore nel progetto presentato l’anno scorso dall’economista Marco Leonardi e dal giuslavorista Massimo Pallini,14 che ricalca in qualche misura la riforma Hartz varata nel dicembre 2003 in Germania,15 poi imitata in Francia nel 2008. Questi, in estrema sintesi, i lineamenti del progetto, esposti con le parole dei suoi stessi autori: unificazione del lavoro subordinato e parasubordinato; attribuzione al lavoratore alle dipendenze di un’impresa con più di 15 dipendenti di una “indennità di licenziamento” determinata dalla legge, che si aggiunge al preavviso e che si applica solo in caso di licenziamenti individuali (e non collettivi) per giustificato motivo oggettivo; inoltre, all’atto del licenziamento economico- organizzativo il datore di lavoro offre al lavoratore l’indennità prevista per legge; il lavoratore può non accettarla e impugnare il licenziamento in sede giudiziale, ma in questo caso perde il diritto all’immediata erogazione dell’indennizzo, potendo invece ottenere, in caso di accoglimento del ricorso in sede giudiziale, la condanna del datore alla reintegrazione e al risarcimento del danno, secondo la disciplina attualmente vigente. In altre parole, la disciplina sanzionatoria dettata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non viene modificata, attivandosi soltanto un meccanismo di promozione preventiva della conciliazione, che dovrebbe avere l’effetto di ridurre il contenzioso. Questa operazione può avere qualche speranza di successo in un sistema come quello tedesco, in cui la reintegrazione del lavoratore non è automatica e di fatto viene disposta dal giudice soltanto nel 5% dei casi in cui il licenziamento viene giudicato illegittimo; ma in un sistema come quello italiano attuale, come può una modifica così blanda della vecchia disciplina della stabilità accompagnarsi con il superamento della distinzione tra lavoro subordinato e parasubordinato (cioè in sostanza con il divieto delle collaborazioni autonome e dei rapporti di lavoro a progetto), senza produrre l’effetto di un aumento del contenuto assicurativo generale del sistema?

Una soluzione più radicale, sulla linea della flexicurity Il progetto presentato in questo paragrafo, come è stato già ricordato nella nota 12, ha origini abbastanza lontane nel tempo: nasce da una riflessione sul fenomeno della “fuga dal lavoro subordinato”, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, poi approfondita e sviluppata nel corso degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila nel dibattito sul mio libro “Il lavoro e il mercato”; nella primavera scorsa la campagna elettorale mi ha dato l’occasione di metterlo a punto attraverso decine di incontri-dibattito in tutta Italia, sia con giovani new entrants nel mercato del lavoro, sia con imprenditori di tutte le dimensioni e categorie, sia con sindacalisti e lavoratori regolari. Mentre dalle prime due categorie di persone mi è sempre stato manifestato grande interesse e prevalente consenso su questo progetto, ho trovato prevalente dissenso nella terza. Va osservato tuttavia in proposito che i lavoratori regolari stabili, i cosiddetti insiders, non sono in alcun modo toccati dal progetto, poiché la riforma in esso delineata è destinata ad applicarsi soltanto ai rapporti di lavoro che si costituiranno da un determinato momento in avanti; il loro “voto” dovrebbe pertanto, secondo logica, essere considerato dalle confederazioni sindacali maggiori assai meno rilevante di quello dei new entrants, che sono i soli diretti interessati sul versante dell’offerta di manodopera (e tra i quali, per quel che è possibile percepire, prevale nettamente la preferenza per il nuovo modello del “contratto unico”).

L’idea è di promuovere una grande intesa tra lavoratori, attuali o potenziali, e imprenditori (anche quelli di aziende di piccole o piccolissime dimensioni), nella quale questi ultimi rinuncino al lavoro precario: accettino, cioè, un ordinamento che abroghi tutte le forme di lavoro (subordinato o parasubordinato) a termine, salvo che per pochissime eccezioni (lavori stagionali e sostituzioni), in cambio di un contratto di lavoro a tempo indeterminato reso più flessibile con l’applicazione, per i licenziamenti dettati da motivo economicoorganizzativo, di una tecnica di protezione della stabilità ispirata alle esperienze nordeuropee e a quella danese in particolare.

Il progetto potrebbe funzionare in questo modo. D’ora in poi tutti i nuovi rapporti di lavoro che vedono il prestatore in posizione di dipendenza economica dal creditore,16 esclusi soltanto quelli stagionali o puramente occasionali, si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato regolato secondo standard di trattamento opportunamente fissati dal policy maker nel rispetto di quelli internazionali (OIL) e comunitari relativi al lavoro dipendente. Il rapporto si apre con un periodo di prova di sei mesi. La contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i nuovi rapporti, sulla base della media ponderata della contribuzione attuale di subordinati e parasubordinati (in pratica, si può prevedere una riduzione di circa due punti, che porterebbe l’aliquota intorno al 31%); una fiscalizzazione del contributo nel primo anno per i giovani, le donne e gli anziani determina la riduzione del costo al livello di un rapporto di lavoro a progetto attuale; la semplificazione degli adempimenti riduce drasticamente i costi di transazione. Dopo il periodo di prova, si applica la protezione prevista dall’articolo 18 dello Statuto per quanto riguarda il licenziamento disciplinare e contro il licenziamento discriminatorio, per rappresaglia, o comunque per motivo illecito. In caso di licenziamento per motivi economici o organizzativi, invece, il lavoratore riceve dall’impresa un congruo indennizzo che cresce con l’anzianità di servizio (ad esempio: una mensilità per ogni anno), secondo una funzione che vede un aumento più marcato dopo i primi quindici anni (ad esempio: una mensilità e mezza per ogni anno dopo il quindicesimo, due mensilità dopo il venticinquesimo). Viene inoltre attivata un’assicurazione contro la disoccupazione, di livello scandinavo: durata pari al rapporto intercorso con limite massimo di quattro anni (ad esempio: copertura iniziale del 90% dell’ultima retribuzione, decrescente di anno in anno fino al 60%), condizionata alla disponibilità effettiva del lavoratore per le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione. L’assicurazione e i servizi collegati, affidati a enti bilaterali, sono finanziati interamente a carico delle imprese, con un contributo determinato secondo il criterio bonus/malus17 (la cui entità iniziale, perché il sistema a regime resti in equilibrio, si può stimare intorno allo 0,5% del monte salari in aggiunta alla contribuzione posta già oggi a carico delle imprese per l’assicurazione contro la disoccupazione e la cassa integrazione,18 salvo che l’entità stessa deve essere comunque aggiornata in funzione dell’equilibrio di bilancio dell’ente bilaterale): l’imprenditore che ricorre con maggiore fre- quenza al licenziamento per motivi economici o organizzativi vede lievitare il contributo; quello che non vi ricorre lo vede scendere.

Il compito del giudice è limitato a controllare, su eventuale denuncia del lavoratore, che il licenziamento non sia in realtà dettato da motivi illeciti (ad esempio, licenziamento squilibrato a danno di persone disabili, donne, lavoratori sindacalizzati ecc.); il “filtro” dei licenziamenti per motivo economico è costituito invece esclusivamente dal suo costo per l’impresa (costo che peraltro la legge o il contratto collettivo possono stabilire in misura tanto più alta quanto maggiore è il livello di stabilità che si vuol garantire: questo dovrebbe essere uno degli oggetti principali della negoziazione tra rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori, prodromica al lancio della riforma, di cui si è fatto cenno all’inizio di questo paragrafo). Nel caso di licenziamento collettivo la normativa sopra delineata si coniuga agevolmente (cumulandosi) con quella procedimentale disposta in ottemperanza all’ordinamento comunitario.

La illimitata modulabilità dell’indennizzo consente di prevederne una riduzione per le aziende con meno di 15 dipendenti, le quali oggi sono soggette all’apparato sanzionatorio di cui all’articolo 18 soltanto per i licenziamenti discriminatori, ma non negli altri casi; qui si potrebbe prevedere: a) per il licenziamento disciplinare ritenuto dal giudice illegittimo, un articolo 18 modificato in modo da consentire anche all’imprenditore l’opzione per un indennizzo minimo invece che la reintegrazione;19 b) per il licenziamento dettato da motivo economico-organizzativo, un parametro opportunamente modulato in modo da ricondurre l’indennizzo entro i limiti di quello massimo oggi previsto per le imprese di piccole dimensioni (sei mensilità) in tutti i casi in cui il lavoratore abbia un’anzianità di servizio inferiore ai dodici anni, dunque nella maggior parte dei casi; per le anzianità superiori è probabilmente accettabile anche nelle imprese di piccole dimensioni che l’indennizzo aumenti rispetto alla vecchia soglia massima delle sei mensilità.20 Una riforma così strutturata offrirebbe, in sostanza, a tutti i datori di lavoro la possibilità di assumere un giovane o un anziano con un costo, per il primo anno, pari a quello di un rapporto di lavoro a progetto di oggi; e anche con la possibilità di recedere dal rapporto – salvo che per motivi discriminatori o comunque illeciti – sopportandone un costo assai contenuto nella fase iniziale, comunque conoscibile con precisione fin dall’inizio. A tutti i lavoratori offrirebbe, viceversa, la prospettiva di essere assunti con un rapporto a tempo indeterminato assistito da protezioni almeno pari agli standard inter- nazionali e comunitari per il lavoro dipendente, ispirate ai modelli più avanzati del mondo per la parte relativa alla stabilità dell’occupazione e del reddito.

Alcune obiezioni, le rispettive repliche ed esempi di come opera il firing cost

Una prima obiezione che mi viene solitamente mossa concerne la semplificazione tipologica conseguente all’istituzione del “contratto unico”: è davvero un bene che si riduca in questo modo la varietà degli strumenti negoziali posti dall’ordinamento a disposizione di imprese e lavoratori? Rispondo che in questo progetto l’“unicità” del contratto ha la sola funzione di garantire una disciplina universale corrispondente almeno agli standard internazionali e comunitari. La disciplina del rapporto è, per il resto, agevolmente modulabile; lo è anche per quel che riguarda l’indennizzo per licenziamento economico, consentendo così una differenziazione anche marcata del grado di protezione a seconda delle circostanze. Ma sempre facendo sì che il frazionamento dell’esperienza lavorativa presenti un costo per l’impresa: quella che ricorre più frequentemente al frazionamento del rapporto ha un costo del lavoro più alto, mentre viene premiata quella più capace di praticare il manpower planning e di dare continuità ai rapporti con i propri dipendenti. Un’altra obiezione che mi viene mossa da chi preferisce la vecchia tecnica protettiva è che in questo modo verrebbe meno qualsiasi controllo giudiziale sulle scelte economico-organizzative dell’imprenditore. Qui la replica è facile: la nostra giurisprudenza costituzionale e di Cassazione è fermissima da mezzo secolo nel ripetere in ogni modo il principio – fondato sull’articolo 41 della Costituzione – secondo cui «le scelte imprenditoriali, quando non siano dettate in modo determinante da motivi illeciti, sono insindacabili in giudizio». Di fatto questa massima è quotidianamente disattesa dai giudici del lavoro che si occupano di licenziamenti di natura economico-organizzativa. Ciò è molto pernicioso, perché in questo modo un giudice non competente di gestione aziendale e che non sopporta il costo dei propri errori di valutazione si assume di fatto il ruolo di supervisore della correttezza economica dell’operato dell’imprenditore. Inoltre, proprio per il difetto di competenza specifica del giudice nella materia della gestione aziendale, l’esito del giudizio è quanto mai aleatorio. E infine, scelte gestionali che nell’economia contemporanea dovrebbero poter essere compiute con relativa rapidità vengono assoggettate a una verifica giudiziale che può durare tre, quattro, o persino sei o otto anni: tempi, questi, assolutamente incompatibili con le esigenze odierne dell’aggiustamento industriale (sarebbero, del resto, incompatibili anche tempi dimezzati rispetto a questi).

È ben vero che, secondo un orientamento dottrinale risalente a quarant’anni fa, il controllo del giudice sul licenziamento economico-organizzativo non dovrebbe vertere sulla scelta dell’imprenditore, bensì solo sul nesso causale che fa discendere da quella scelta il licenziamento di un determinato lavoratore. Sennonché questa costruzione concettuale non regge ad un’analisi attenta, la quale mostra come il controllo sul nesso causale non sia logicamente distinguibile dal controllo sulla scelta gestionale stessa dell’imprenditore.21 Ad esempio, un giudice che controlla il licenziamento di un centralinista monoglotta, motivato con la necessità di sostituirlo con un centralinista poliglotta, non si limita affatto a rispettare la scelta dell’imprenditore di dotare il centralino di un operatore che sappia le lingue (se ciò facesse, l’impugnazione del licenziamento verrebbe respinta in limine), ma si spinge per lo più a verificare se effettivamente il numero di chiamate da interlocutori stranieri sia tale da giustificare la sostituzione del centralinista monoglotta: così è proprio la scelta imprenditoriale a essere controllata nel merito; ed è proprio il principio di insindacabilità della scelta imprenditoriale a essere disatteso. Oppure, il giudice che nell’ordinamento attuale applica la regola cosiddetta del repêchage, spingendosi dunque a valutare se il centralinista licenziato non possa essere utilizzato come usciere, oppure come autista, si sostituisce evidentemente all’imprenditore in scelte organizzative che – secondo la massima costante di cui sopra – non dovrebbero essere soggette ad alcun controllo in sede giudiziale. La tecnica del firing cost fa, invece, automaticamente sì che l’imprenditore si determini al licenziamento solo quando la perdita da lui effettivamente attesa, conseguente alla prosecuzione del rapporto, superi l’insieme dei costi, diretti e indiretti, connessi al licenziamento. Si obietta, ancora, che il lavoratore sarebbe in posizione di inferiorità laddove gli si imponesse l’onere della prova diabolica circa il motivo discriminatorio o altrimenti illecito del licenziamento. Ma non è così: la legislazione oggi in vigore per tutta la materia delle discriminazioni alleggerisce fortemente l’onere probatorio che il lavoratore deve assolvere, consentendo sostanzialmente che il giudice decida anche sulla base di presunzioni semplici. Del resto, abbiamo alle spalle quasi quattro decenni di applicazione del procedimento di repressione del comportamento antisindacale del datore di lavoro (articolo 28 dello Statuto dei lavoratori), che ha visto i giudici del lavoro perfettamente in grado di accertare le condotte illecite proprio sulla base di presunzioni semplici. La riforma proposta non lascerà affatto inermi i lavoratori contro discriminazioni e rappresaglie, ma si limiterà a rendere più difficile lo sconfinamen- to del giudice nella valutazione di ciò che è pura e semplice scelta gestionale aziendale, allargando di fatto la libertà dell’imprenditore su questo terreno, ma anche accollandogliene per intero il costo sociale. La norma attuale che prevede il controllo del giustificato motivo oggettivo, peraltro, presenta un altro peculiare profilo di incostituzionalità: essa copre d’oro e reintegra nel posto di lavoro il lavoratore che abbia la fortuna di incontrare un giudice orientato a considerare non giustificato il licenziamento, ma lascia con un pugno di mosche in mano il lavoratore che abbia invece la malasorte di incontrare un giudice orientato in senso opposto; e ciò in una materia nella quale l’opinabilità delle soluzioni raggiunge il livello massimo. Con il risultato che, in questo caso, un lavoratore che perde il posto di lavoro senza alcuna propria colpa si trova per la strada, senza alcun indennizzo.22 Quale logica c’è in tutto questo? In molti sono riluttanti ad accettare la tecnica protettiva fondata esclusivamente sul firing cost, bollandola come una forma di “monetizzazione” del posto di lavoro. Rispondo loro che in moltissimi altri paesi europei (i maggiori tra i quali sono la Francia, la Spagna, il Regno Unito, la Svizzera; ma per il modo in cui le cose funzionano di fatto possiamo annoverare tra questi anche la Germania e l’Olanda) la sola sanzione prevista per il caso di licenziamento ingiustificato, purché non discriminatorio, è un indennizzo in denaro. Il progetto di cui stiamo discutendo, in sostanza, offre ad outsiders e new entrants italiani, al posto del – pericolosissimo per loro – sistema duale, un sistema che garantisca loro l’indennizzo senza neppure condizionarlo all’esito di un giudizio, oltre a un sostegno del reddito e ad un’assistenza nel mercato modellati secondo un’esperienza molto avanzata, quale è quella danese.

Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, c’è infine un’obiezione che prende spunto da uno studio recente di Yann Algan e Pierre Cahuc:23 la tesi dei due economisti francesi è che il modello della flexicurity danese presuppone un alto livello di senso civico diffuso, in difetto del quale non sarebbe possibile offrire a chi perde il posto trattamenti di disoccupazione tanto generosi, senza innescare circoli viziosi perniciosissimi (in Italia l’alto trattamento di disoccupazione si tradurrebbe in un forte disincentivo alla ricerca di una nuova occupazione regolare, tenderebbe a cumularsi con lavoro totalmente irregolare ecc.). Il problema esiste ed è gravissimo; l’ipotesi è che si possa quanto meno porre mano alla sua soluzione affidando al sistema delle imprese del settore, attraverso gli enti bilaterali, il compito di un controllo rigoroso sui comportamenti dei lavoratori coinvolti in processi di mobilità. L’ente bilaterale dovrà avere nei confronti del lavoratore che gli viene affidato una sorta di potere direttivo e di controllo, che l’ente stesso eserciterà fino in fondo, perché dal suo esercizio corretto e incisivo dipenderà il suo equilibrio di bilancio. Sulla serietà dell’operato dell’ente bilaterale sorveglieranno – oltre che i sindacati – tutti gli imprenditori della zona appartenenti al settore, poiché ogni spreco sarà alla fine pagato da loro. Può essere che non ci riusciremo, ma non possiamo permetterci di non tentare.

Considerazioni conclusive: due enormità contrapposte che possono sorreggersi a vicenda

In realtà, l’obiezione più rilevante che può muoversi a questo progetto è che esso prevede due enormità contrapposte, ciascuna fortemente indigesta o a destra o a manca. Da un lato, fortemente indigesta per gli imprenditori e per la destra tradizionale, l’abolizione di tutte le forme di contratto a termine (salvo pochissime eccezioni molto ben delimitate), di tutte le vie di fuga dal diritto del lavoro alle quali in tante aziende si è ampiamente attinto negli ultimi decenni. Dall’altro, fortemente indigesto per il movimento sindacale e per la sinistra tradizionale, il fatto che il ruolo del giudice sia limitato all’accertamento e valutazione della colpa del lavoratore nel licenziamento disciplinare e alla repressione del licenziamento discriminatorio o per motivo illecito, non potendo estendersi al controllo delle scelte gestionali dell’imprenditore. L’“enormità” di ciascuno di questi due elementi essenziali del new deal proposto, però, può risultare idonea a giustificare e sorreggere l’“enormità” dell’altro, quando da entrambi i lati prevalga lo spirito riformatore. Certo, può essere che nel negoziato politico sui dettagli del progetto vengano chieste correzioni che riducano l’una o l’altra delle due “enormità”, riavvicinando l’equilibrio nuovo a quello vecchio (si può ipotizzare che da un lato sia sostenuta, ad esempio, la riattivazione dell’articolo 18 al raggiungimento dei dieci o dei quindici anni di anzianità di servizio, la quale avvicinerebbe questo progetto al Boeri-Garibaldi; sul fronte opposto potrebbe invece essere rivendicata una determinazione degli standard di trattamento sulle varie materie rigorosamente al livello degli standard internazionali e comunitari e non più in alto, oppure una riduzione dell’indennità di licenziamento nei primi anni di lavoro). Tutto può essere oggetto della negoziazione politica, e questa non può che essere aperta a tutti i possibili risultati.

È possibile anche che l’accordo non si trovi, o che lo si trovi più o meno esplicitamente nel senso di lasciare le cose come stanno. Purché si tenga ben presente che ciò non corrisponde certamente all’interesse degli outsiders e dei new entrants.24

1 I primi quattro fattori negativi sono: il difetto di certezza del diritto, il difetto di concorrenza nel mercato dei prodotti e soprattutto dei servizi, il basso livello medio di capitale umano e gli effetti distorsivi del nostro ordinamento fiscale.

2 Dopo che, nel gennaio 2003, la Corte costituzionale dichiarò ammissibile quel referendum, il segretario generale della CGIL Sergio Cofferati – leader della grande battaglia in difesa dell’articolo 18 contro i tentativi di modifica fatti dal governo Berlusconi – attese due mesi prima di prendere posizione nel senso dell’astensione.

3 Solo di recente, ad anni di distanza dall’emanazione di quella legge fortemente osteggiata da sinistra, si è incominciato a riconoscere che, almeno per la parte relativa alle collaborazioni continuative autonome e al lavoro a progetto, il suo contenuto è fortemente restrittivo e tende – sia pur con effetto limitato al settore privato – al superamento della figura dei cosiddetti co.co.co.: si rinvia in proposito a P. Ichino, L’anima laburista della legge Biagi. Subordinazione e “dipendenza” nella definizione della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro, in “Giustizia civile”, 2/2005, pp. 131-49.

4 Circolari del ministero del Lavoro 16/2006 e 4/2008.

5 Ad esempio, in riferimento alle molte centinaia di migliaia di rapporti di lavoro a progetto, la questione andrebbe posta in questi termini: l’applicazione rigorosa delle circolari del ministro Damiano del 2006 e del 2008 avrebbe l’effetto di trasformare tutti questi rapporti in contratti di lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato, oppure questa trasformazione si verificherebbe soltanto in una parte dei casi, mentre negli altri casi le imprese rinuncerebbero alla collaborazione. Il responsabile del personale di una grande impresa del settore editoriale che utilizza attualmente centinaia di lavoratori a progetto sosteneva, nella primavera scorsa, che se l’Ispettorato del lavoro fosse intervenuto a imporre i criteri fissati nella circolare Damiano 4/2008, obbligando quindi l’impresa a regolarizzare i collaboratori come subordinati a tempo indeterminato, di questi soltanto una quota fra un quarto e un terzo sarebbe stata regolarizzata.

6 Dello “Statuto dei lavori” si danno numerose versioni, a partire da un progetto datato 25 marzo 1998, sul quale lavorò anche Marco Biagi, che può leggersi in T. Treu, Politiche del lavoro. Insegnamenti di un decennio, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 317-48. Un’impostazione per diversi aspetti analoga si riscontra nel progetto di legge della XV legislatura presentato da Maurizio Sacconi, n. 1356 del 28 febbraio 2007, Deleghe al Governo in materia di statuto dei lavori, ammortizzatori sociali.

7 Si veda ultimamente sul punto M. Vaihekoski, What is fair salary discount for job security?, dattiloscritto, novembre 2007.

8 In questo senso F. Giavazzi, Ripartiamo dalla scuola, in “Il Corriere della sera”, 15 febbraio 2008.

9 Tutte le ricerche quantitative disponibili confermano questo assunto: cfr., tra gli altri, A. Ichino, R. T. Riphalm, The Effect of Employment Protection on Worker Effort, CEPR Discussion paper n. 3845, Londra 2004, e la letteratura ulteriore ivi citata. Anche l’esperienza quotidiana ci conferma che sovente l’imprenditore si determina a ingaggiare un dipendente sotto forma di lavoro a progetto, o comunque di collaborazione formalmente autonoma, invece che con un contratto di lavoro subordinato regolare, più per prevenire possibili fenomeni di shirking che per l’eventuale minor costo orario conseguibile in questa forma.

10 Oltre che allo scritto citato nella nota precedente, si rinvia ad una ricerca sugli effetti dell’abolizione contrattuale della franchigia retributiva per i primi tre giorni di malattia, disposta da numerosi rinnovi contrattuali intorno alla metà degli anni Settanta: P. Ichino, Malattia, assenteismo e giustificato motivo di licenziamento, in “Rivista giuridica del lavoro”, 1/1976, pp. 259-81; inoltre, si veda V. Ferrari, R. Boniardi, N. G. Velicogna, Assenteismo e malattia nell’industria. Un’analisi sociologico-giuridica, Comunità, Milano 1979.

11 Secondo uno schema già da tempo suggerito da G. Saint Paul, On the Political Economy of Labour Market Flexibility, in O. J. Blanchard, S. Fischer (a cura di), NBER Macroeconomic Annual 1993, MIT Press, Cambridge MA 1993.

12 Ma rivendico la primogenitura: la prima proposta di un contratto unico che accorpasse lavoro subordinato e parasubordinato risale, a quanto mi consta, a P. Ichino, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Giuffré, Milano 1989, cui ha fatto seguito una elaborazione ulteriore ne Il lavoro e il mercato, Mondadori, Milano 1996.

13 Una prima esposizione può leggersi in T. Boeri, P. Garibaldi, Dal vicolo cieco alla stabilità, in “laVoce.info”, 6 novembre 2006; per un’esposizione più recente – dalla quale sono tratti i lineamenti riportati nel testo – si veda, degli stessi autori, Il “testo unico” del contratto unico, in “laVoce.info”, 10 novembre 2007.

14 M. Leonardi, M. Pallini, Contratto unico contro la precarietà, in “nelMerito.com”, 19 febbraio 2008.

15 Per una versione in italiano della legge tedesca Hartz, che nel dicembre 2003 ha modificato (ma non molto incisivamente) quella del 1969 sui licenziamenti, si veda la traduzione a cura di G. Bolego e M. Borzaga, La legge tedesca per la protezione contro i licenziamenti, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 3/2005, pp. 93-105.

16 Potrebbero essere assoggettati alla nuova disciplina tutti i nuovi rapporti di lavoro subordinato e quelli di collaborazione continuativa dai quali il prestatore tragga più di metà del proprio reddito annuo.

17 Per questo aspetto il progetto si rifà a quello elaborato dagli economisti O. Blanchard e G. Tirole, Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2/2004, 161-211.

18 Questa stima si basa sull’ipotesi di un tasso annuo di licenziamento per motivi economico-organizzativi pari al 5% (un tasso molto più elevato rispetto a quello attuale, anche nel settore delle aziende con meno di 16 dipendenti: ma occorre tenere conto anche degli scioglimenti di rapporto che oggi avvengono per scadenza del termine e che nel nuovo regime dovranno avvenire per recesso dell’imprenditore) e di una durata media del periodo di disoccupazione pari a tre mesi. In questa ipotesi il finanziamento della differenza fra il nuovo trattamento di disoccupazione e il vecchio richiederebbe, a regime, un contributo medio pari allo 0,375% della retribuzione lorda; un contributo medio ulteriore dello 0,125% dovrebbe essere destinato a integrare i finanziamenti regionali per le attività di riqualificazione professionale gestite dall’ente bilaterale.

19 Cfr. il progetto di legge 1422 del 2008 presentato dal vicepresidente della Commissione lavoro della Camera dei deputati, Giuliano Cazzola, il 1° luglio scorso.

20 Si osservi come, invece, l’applicazione estesa alle imprese minori del sistema di sostegno del reddito e assistenza per i lavoratori che perdono il posto, gestito da enti bilaterali, offra ai lavoratori di queste aziende un netto aumento di protezione rispetto alla loro situazione attuale.

21 Si veda su questo punto molto rilevante M. Novella, Dubbi e osservazioni critiche sul principio di insindacabilità delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore, in “Rivista italiana di diritto del lavoro, 2/2004, pp. 791-806; e, dello stesso autore, I concetti di costo contabile, di costo-opportunità e di costo sociale nella problematica costruzione gius-economica del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ivi, 2/2007, pp. 990-8. Inoltre, P. Ichino, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ivi, 1/2002, pp. 473-504; P. Ichino, Il costo sociale del licenziamento e la perdita aziendale attesa per la prosecuzione del rapporto come oggetto del bilanciamento giudiziale, ivi, 2/2007, pp. 998-9.

22 Su questa possibile censura di incostituzionalità della disciplina attualmente vigente si rinvia a: P. Ichino, La stabilità e il valore dell’eguaglianza, relazione all’Accademia dei Lincei, dicembre 2004, negli atti del convegno Il futuro del diritto del lavoro, Roma 2005; P. Ichino, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti, in R. Scognamiglio (a cura di), Diritto del lavoro e Corte costituzionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006, pp. 129-48.

23 Y. Algan, P. Cahuc, Civic Attitudes and the Design of Labour Market Institutions: Which Countries Can Implement the Danish Flexicurity Model?, IZA, working paper n. 1928, Bonn, gennaio 2006.

24 Il testo è tratto dalla relazione introduttiva al Late Summer Seminar “Un’Italia moderna. La political economy del ristagno e del rilancio” della Fondazione Scuola di Politica, Bertinoro, 4 settembre 2008.