Età dei torbidi? Il capitalismo finanziario nell'età della globalizzazione

Di Giorgio Ruffolo Martedì 09 Dicembre 2008 16:38 Stampa
La decisione di Margaret Thatcher e Ronald Reagan a favore di una totale liberalizzazione del movimento dei capitali sancisce il passaggio fra due epoche, dall’età dell’oro – o del capitalismo regolato – all’età del capitalismo finanziario. Quella storica decisione avrebbe avviato il processo di globalizzazione dell’economia e decretato l’abbandono di moneta e credito al mercato mondiale, privando i governi degli Stati della loro sovranità monetaria e finanziaria e contribuendo alla fine del monopolio esclusivo del potere da parte degli Stati stessi. Oggi la crisi del capitalismo finanziario rischia di travolgere le economie occidentali. Esistono le condizioni per emendarlo e regolarlo? Un nuovo progetto di società sana, che ponga rimedio alle sue deficienze, potrebbe salvare il capitalismo da se stesso

Il capitalismo è la forma suprema dell’economia di mercato. Mentre l’economia di mercato si fonda essenzialmente sullo scambio, il capitalismo coniuga lo scambio e l’impresa, due istituzioni che obbediscono a logiche differenti se non addirittura opposte: quella dei rapporti paritari orizzontali e quella dei rapporti gerarchici verticali. È riuscito dunque a fondere i vantaggi dello scambio con quelli dell’organizzazione. Questo gli ha permesso di sfruttare le innovazioni tecnologiche, condizione fondamentale di un’economia dinamica.

Quello che si potrebbe definire capitalismo di mercato (ci sono anche mercati non capitalistici e capitalismi di Stato) è durato finora oltre cinque secoli, dal Sedicesimo a oggi, oltre alle prove d’orchestra dei secoli precedenti, attraversando epoche diverse egemonizzate da diversi paesi, e trasformandosi continuamente.

Ci si concentrerà in queste pagine sui due scenari dell’egemonia americana: l’età dell’oro, che ebbe inizio alla fine dell’ultima guerra mondia- le, e quella che stiamo vivendo e che non ha ancora un nome. La si potrebbe forse chiamare età dei torbidi, ma, in termini più neutrali, sarà qui definita come età del capitalismo finanziario. Non è tutto oro quello che splende e la definizione età dell’oro è forse un po’ troppo enfatica. Sarebbe magari più opportuno chiamarla età del capitalismo regolato. Regolato su due piani: quello mondiale, dal sistema di cambi e di scambi instaurato a Bretton Woods subito dopo il secondo conflitto mondiale; e quello nazionale, dalle politiche economiche dei governi. E tuttavia quell’altra definizione, formulata da un grande storico comunista, è pienamente meritata, per contrasto con la fase precedente e con quella successiva: grazie alla forte crescita del prodotto, alla relativa stabilità economica e alla riduzione delle diseguaglianze sociali.

Questi risultati non furono il regalo della fortuna, ma la ricompensa della virtù, e cioè di una gestione egemonica lungimirante da parte degli Stati Uniti, usciti dalla guerra come la potenza dominante dell’Occidente. Basti accennare alla grande idea del Piano Marshall, diretto alla ricostruzione dei paesi europei, alleati e nemici; oppure alla politica di rianimazione del Giappone, paese ex nemico. È sufficiente confrontarla con la brutale azione di sfruttamento e di rapina praticata dall’Unione Sovietica nei riguardi dei paesi compresi nella sua sfera politica e ridotti a satelliti.

Ma perché l’età dell’oro si spense? La causa profonda andrebbe cercata nelle vicende dell’economia reale e del conflitto sociale. Nell’età dell’oro l’equilibrio tra politica ed economia si spostò dalla parte della politica: dello Stato, che aveva assunto un ruolo decisamente primario nell’economia attraverso politiche attive, macroeconomiche e industriali; e del lavoro organizzato, che aveva rafforzato il suo potere nelle grandi imprese “fordiste”. Ciò si tradusse in pressioni inflazionistiche e provocò il ricorso a politiche monetarie restrittive da parte dei governi. Si restrinse quindi lo spazio per politiche sociali espansive. Contemporaneamente si svilupparono due nuovi processi. Il primo – in parte autonomo, in parte sollecitato come risposta alla pressione del lavoro – riguardò l’introduzione nell’impresa di innovazioni elettroniche e informatiche rese possibili dal progresso tecnologico. Queste consentirono una radicale ristrutturazione del mo- dello fordista, che aveva favorito l’organizzazione di massa, verso un modello differenziato parcellizzato e flessibile che comportava una contrazione dell’occupazione e una differenziazione delle mansioni, a tutto danno della forza e della compattezza delle organizzazioni sindacali.

Il secondo processo si svolse sul terreno monetario internazionale. I forti e improvvisi aumenti del prezzo del petrolio avevano gonfiato i profitti di paesi produttori e compagnie alimentando depositi in dollari in un nuovo mercato finanziario, dell’eurodollaro, sottratto al controllo delle autorità monetarie americane. Questa massa mobile esercitò una pressione diretta per estendere la mobilità dei capitali a tutto il mercato finanziario e determinò finalmente la storica decisione del duo anglosassone Thatcher-Reagan di una totale liberalizzazione del movimento dei capitali. Fu questa decisione rivoluzionaria ad attivare il grande processo di globalizzazione dell’economia che avrebbe modificato decisamente i rapporti di forza tra le grandi corporation, divenute “multinazionali”, e gli Stati nazionali.

È stato quindi questo doppio processo a restituire al capitalismo un primato di iniziativa che aveva perduto. Non soltanto. La globalizzazione liberò un flusso poderoso di capitali mobili gestito dai mercati finanziari mondiali. Si accompagnò quindi ad una parallela finanziarizzazione. Dagli anni Settanta all’inizio del nuovo secolo, la massa delle attività finanziarie si gonfiò smisuratamente, fino a toccare oggi i 100 trilioni di dollari, il doppio del prodotto lordo mondiale. Ciò ha mutato profondamente non soltanto le dimensioni ma anche la natura del capitalismo, nel quale l’aspetto finanziario è diventato dominante.

Questa mutazione finanziaria del capitalismo ha cambiato infatti la natura e i rapporti tra i due grandi strumenti della finanza: la moneta e il credito. Essa corona un grande processo storico cui non si può che accennare fugacemente.

Moneta e credito sono due strumenti essenziali dell’economia in generale, e di quella capitalistica in particolare. Uno strumento prevalentemente regolativo la prima, prevalentemente espansivo il secondo. Essi regolano e potenziano il mercato, traendo però originariamente la loro forza da una fonte esterna al mercato: l’autorità politica del sovrano. È la sovranità, autoritaria o democratica, che legittima e rende possibile la loro funzione. L’arbitro del gioco, ovviamente, è al di fuori del gioco. La funzione della moneta, come è ben noto, è triplice. È unità di conto, mezzo di pagamento, riserva di valore. Queste funzioni può svolgerle sulla base di un atto di fede. Ma la fede comporta la fiducia. Come si è detto, il sovrano (lo Stato) propone, il mercato dispone. Perché la fede sia sorretta dalla fiducia, la moneta ha bisogno di ancorarsi a un oggetto generalmente pregiato. Qui si rivela nell’economia l’irrazionale magico che ne è parte integrante. L’oro è generalmente l’idolo di questa magia e la convertibilità della moneta in quell’idolo è stata per lunghi secoli la garanzia sulla quale si è fondata la fiducia.

Il credito è una promessa. Esso pure si fonda sulla legge, un atto di fede che impone la restituzione del prestito. Come la moneta esige la convertibilità, il credito esige la solvibilità per fondarsi su un credo.

I due pilastri sono, nella storia dell’economia, ben distinti. Ma durante tutta quella storia, e massimamente quella capitalistica, quei pilastri sono soggetti a una continua erosione. Lo sviluppo degli scambi esige una liquidità che sfida la solidità. La politica monetaria tenta in ogni modo di smaterializzare il suo ancoraggio. Il passo più ardito fu compiuto nel Settecento, quando il libertino John Law riuscì a persuadere il suo amico reggente di Francia a introdurre una moneta di carta fondata sulle ricchezze della Luisiana, peraltro inesistenti. Più tardi, quando il bisogno di stabilità creò un baluardo apparentemente invalicabile – il gold standard – il bisogno di liquidità lo aggirò con suoi Ersatz più flessibili, l’exchange standard, il dollar standard. Un processo di allentamento analogo si è verificato per il credito. L’obbligazione della solvibilità è stata aggirata dalla procrastinabilità del credito – così la chiama lo storico Marc Bloch – e questa è sollecitata sia dall’esigenza di finanziare in continuità il flusso degli investimenti produttivi, sia, soprattutto, dalle esigenze della finanza pubblica. La procrastinabilità degli investimenti si realizza attraverso la borsa; quella della finanza pubblica attraverso il debito pubblico.

Insomma la convertibilità funziona solo in quanto la moneta non sia convertita e la solvibilità solo in quanto il debito non sia restituito. Questo paradosso trova il suo momento storico di verità proprio nel secolo scorso, all’inizio e alla fine dei fatali anni Settanta. All’inizio il dollaro si mise, come Napoleone, la corona in testa da solo. Alla fine, il duo Thatcher-Reagan scatenò la liberalizzazione dei capitali che fece dell’indebitamento non più una promessa, ma una permanente scommessa. La finanza si basa non più sulla convertibilità e sulla solvibilità, processi distinti, ma sulla liquidità (nel senso di Bauman, della liquefazione, non di Keynes, della preferenza), come è stato acutamente osservato.1 E i due strumenti, la moneta e il credito, praticamente si identificano.

È ora possibile giudicare in tutta la sua portata le due fatali decisioni degli anni Settanta e comprendere l’origine storica della crisi che minaccia di travolgere le economie occidentali. Quelle due decisioni segnarono letteralmente il passaggio dall’età dell’oro all’età dei torbidi e decretarono l’abbandono di moneta e credito al mercato mondiale, che privò in pratica i governi degli Stati della loro sovranità monetaria e finanziaria. Il crollo del sistema di Bretton Woods e la liberalizzazione dei capitali condussero alla depoliticizzazione e all’autonomizzazione del mercato finanziario mondiale. Quest’ultimo, contrariamente alle pretese teoriche delle scuole liberiste, manca totalmente di meccanismi di autoregolazione analoghi ai prezzi dei prodotti reali. Nel caso di questi ultimi l’aumento dei prezzi frena la domanda agendo immediatamente sul reddito corrente e ristabilendo così l’equilibrio attraverso un feedback negativo. Nel mercato dei titoli, invece, l’aumento del prezzo dei titoli aumenta il loro valore e promuove aspettative di ulteriori aumenti (feedback positivo).

L’inflazione finanziaria, e cioè un aumento del prezzo dei titoli oltre il loro valore reale, non è avvertita immediatamente come nel caso del prezzo dei beni reali. La patata che aumenta di prezzo resta una patata, il suo valore reale non è variato e l’acquisto di patate comporta un aumento immediato di costi. Del titolo che aumenta di prezzo, invece, non si sa se il suo valore reale è effettivamente aumentato o no. È una valutazione largamente soggettiva che sarà confermata o smentita solo col tempo. Ma si sa subito che il valore monetario del titolo è aumentato: e ciò incentiva l’acquisto di nuovi titoli. Inoltre, anche quando diventa manifesto che il valore di borsa dei titoli eccede largamente il loro vale reale, la domanda di titoli continua ad aumentare. È difficile che giocatori in vincita abbandonino il tavolo di gioco finché si vince. È così che il gioco delle aspettative si avvita in un clima di «euforia irrazionale». Proprio così fu definita alla fine degli anni Novanta dall’allora governatore della Federal Reserve Alan Greenspan, che più di ogni altro contribuì ad alimentarla.

Alla base dell’euforia degli anni Novanta negli Stati Uniti c’era stato indubbiamente un salto di produttività reale dovuto all’introduzione delle grandi innovazioni elettroniche e informatiche (la nuova economia). Ne derivò però una crescita dei valori azionari sproporzionata rispetto a quella dei valori reali: un’inflazione finanziaria. Questa ha promosso un processo cumulativo di indebitamento che ha coinvolto l’intero sistema. Le famiglie hanno investito i loro guadagni patrimoniali in aumento dei consumi e in acquisti di case finanziati largamente dal ricorso al credito. Le banche, in concorrenza tra loro, lo hanno facilitato con una folle leva finanziaria. Gli intermediari finanziari hanno amplificato l’indebitamento generale attraverso l’emissione di titoli derivati di difficile valutazione e scarsa trasparenza (500 trilioni di dollari), acquistati in massa dalle banche, dalle famiglie, dagli enti che raccolgono i risparmi pensionistici e da enti pubblici. Infine, il governo ha avallato questo colossale processo di indebitamento con una politica monetaria e fiscale ultrapermissiva e un corrispondente indebitamento della bilancia dei pagamenti americana e del bilancio pubblico: i due bilanci gemelli. La follia dell’indebitamento cumulativo trae origine da un processo di riflessività, un gioco degli specchi, che Keynes aveva descritto con una elegante parabola. Se si vuole prevedere l’esito di un concorso di bellezza, aveva detto, non bisogna chiedersi qual è la ragazza più bella ma quella che la giuria giudicherà la più bella. Diceva sempre Keynes che se «lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene». Ora, è proprio in quel gioco di specchi che l’economia finanziaria americana è stata travolta.

Ciò che molti avevano inutilmente previsto – economisti come Stiglitz e Krugman, finanzieri come Soros e Buffet – si è puntualmente verificato. Le insolvenze provocate dall’aumento dei tassi d’interesse hanno messo a nudo perdite particolarmente gravi nelle grandi banche d’investimento che non possono contare sui depositi: perdite tanto più gravi quanto più difficili da valutare nell’intreccio dei reciproci coinvolgimenti. L’interdipendenza del sistema genera un contagio che minaccia di trasmettere la crisi dall’America all’Europa e al resto del mondo e di diffonderla dall’economia finanziaria all’economia reale. Di fronte a questo rischio catastrofico, il governo americano ha reagito dapprima con grandi salvataggi isolati, quindi con una cauzione indiscriminata delle perdite da parte dello Stato. Si è, per il momento, ancora nella tempesta. Nessuno può dire quale ne sarà l’esito. Coloro i quali ieri pretendevano di deregolare l’economia, oggi chiedono nuove regole allo Stato. Quanti ieri affermavano che lo Stato non è la soluzione ma il problema pretendono oggi dallo Stato la soluzione del problema.

È certo che non sarà facile, questa volta, trovare una soluzione. Ci sono gli apocalittici, che si aspettano l’imminente crollo del capitalismo. Ci sono gli integrati che pensano che la crisi possa essere affrontata con semplici marchingegni finanziari. Chi scrive ritiene che ambedue sbaglino. Nei giorni scorsi i governi dei paesi occidentali, posti di fronte a una minaccia imminente di crollo dei mercati, hanno dimostrato di affrontare l’emergenza con misure energiche, efficaci e, una volta tanto, se non comuni, comunemente concordate: provvista di liquidità, ricapitolazione, addirittura nazionalizzazione di banche, rastrellamento pubblico di obbligazioni tossiche, garanzie temporanee alle banche per i crediti interbancari e ai depositanti per frenare il panico. Tutto ciò può essere sufficiente per arginare la deriva della sregolatezza. Gli interventi di salvataggio sono imponenti: non è ancora possibile calcolarli, ma potrebbero giungere al 20% del prodotto nazionale dei paesi coinvolti. E tuttavia, non serviranno a costruire nuove e salde regole.

Quel che la crisi ha dimostrato ampiamente è che il capitalismo finanziario, subentrato all’età dell’oro, ha avuto vita breve, aprendo una età dei torbidi. Tutti affermano oggi che il sistema ha bisogno di nuove regole. Ma poi non dicono se le nuove regole debbano limitarsi a una ripulitura e a una rinfrescata degli appartamenti o investire le fondamenta del palazzo.

Ora, è improbabile che si verifichino crolli imminenti del sistema capitalistico. Il perché si dirà in conclusione. Però questo capitalismo finanziario non sembra essere tecnicamente emendabile, in quanto socialmente e politicamente insostenibile. Queste ragioni – che verranno passate brevemente in rassegna – riguardano la stabilità del sistema, la sua governabilità, l’allocazione delle risorse, la distribuzione e, soprattutto, la base di legittimazione etica.

L’instabilità La liberalizzazione dei movimenti di capitale fu salutata da Milton Friedman come l’alba di una nuova era di stabilità, che avrebbe messo fine alle fluttuazioni dei cambi e all’inflazione dei prezzi provocate dalle pretese keynesiane di gestione dirigistica dell’economia. Ebbene, nei due decenni seguenti si sono avute decine di crisi monetarie e valutarie di portata internazionale, culminate nella più recente e più devastante. Quanto all’inflazione, all’effettivo contenimento dei prezzi dei prodotti ha corrisposto un formidabile aumento di quelli dei titoli: l’inflazione finanziaria, non controllata a causa di quella sua natura riflessiva e cumulativa ricordata prima. Ora, mentre l’inflazione “normale” può essere fronteggiata con misure di restrizione monetaria, non vi sono meccanismi di controllo dell’inflazione finanziaria. La deregolazione del sistema lo ha portato alla sregolatezza: come quel cannone del romanzo di Victor Hugo che, strappato ai suoi ormeggi, spazza la tolda della nave in tempesta.

L’errata allocazione La sempre maggiore importanza della finanza rispetto all’economia reale determina conseguenze rilevanti e socialmente perverse nell’allocazione delle risorse. Gli impieghi di risorse che producono alti profitti nel periodo breve, fino a quelli speculativi che si chiudono nel giro di giorni o di ore, sono preferiti agli investimenti di lungo periodo che si traducono in un aumento della capacità produttiva, ma in un periodo più lungo e con tassi di profitto più moderati. Si accelera il ritorno dei capitali, ma a scapito della loro produttività nel tempo.

La spinta impressa alla profittività immediata degli investimenti accentua fortemente, nell’allocazione delle risorse, lo svantaggio degli investimenti e della spesa pubblica e frena quindi la produzione di beni collettivi, mentre quella dei beni privati è promossa dalla competizione consumistica, attiva- ta da una poderosa spinta pubblicitaria: 500 miliardi di dollari all’anno (una cifra che si può confrontare con i 70 miliardi di dollari destinati alla ricerca sanitaria o con i 60 destinati agli aiuti ai paesi poveri). All’effetto Galbraith si accompagna l’effetto Baumol: l’aumento dei costi degli investimenti pubblici, che solo in piccola parte può essere compensato da un aumento della produttività. Il risultato è una sproporzione allocativa tra le risorse destinate ai beni collettivi (infrastrutture, servizi pubblici, welfare State) sempre più necessari al benessere di società complesse; e i beni privati, anche quelli più futili.

La diseguaglianza Non ci si addentrerà in questo articolo nella disputa, se la diseguaglianza sia cresciuta o si sia ridotta nella fase del capitalismo finanziario. Se, come sembra, si sia ridotta, seppure non di molto, tra i paesi più ricchi e quelli emergenti, e non certo tra i più ricchi e i più poveri; se invece, come sembra, sia sostanzialmente aumentata all’interno dei paesi più ricchi, e drammaticamente all’interno di quelli più poveri. Un fatto è incontrovertibile: che, in una cultura di esaltazione della ricchezza e dei consumi privati, l’obiettivo dell’eguaglianza (meglio, della diminuzione delle diseguaglianze) è sparito dall’agenda delle priorità economiche.

Più che di diseguaglianza si dovrebbe parlare di secessione: della formazione di una nuova plutocrazia librata al di sopra della società, in una condizione di separatezza non solo dei redditi ma dei modi di vita, talvolta dei luoghi, isolati e protetti da polizie private in quartieri recintati; degli spostamenti, effettuati in aerei privati tra aeroporti riservati; dei convegni organizzati in zone esclusive; delle vacanze disponibili in paradisi privilegiati; dei servizi personali gratuiti.

L’indice più significativo di questa condizione secessionistica è costituita dai guadagni faraonici assicurati ai dirigenti supremi, totalmente sganciata da qualunque criterio meritocratico, per assumere un carattere di prelievo arbitrario, di rendita posizionale. Decine, qualche volta centinaia di migliaia di dollari attribuiti a condottieri vittoriosi o sconfitti, indifferentemente.

La critica di questo aspetto è attribuita dagli apologeti dell’iniquità all’invidia. È invece il segno più evidente della separazione tra il guada- gno e il lavoro, la cui identificazione costituiva, all’origine del capitalismo, la fonte del suo orgoglio e della sua legittimazione morale. Platone diceva che una società ineguale sono due società. Questo sdoppiamento significa in sostanza che la società non c’è più.

L’ingovernabilità La globalizzazione, soprattutto quella che si è attuata attraverso la liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha determinato un forte aumento del grado di interdipendenza dell’economia mondiale. L’interdipendenza richiede di essere governata. La tesi di chi sostiene l’autogoverno è smentita clamorosamente da quanto sta accadendo. C’è un vuoto di governo dell’economia globalizzata. Fino a ieri un certo grado di governo dell’economia mondiale era assicurato dai paesi economicamente egemoni. Le egemonie si sono succedute nella storia, da quella romana a quella britannica, assicurata, come si è detto, dalla combinazione tra le cannoniere e il cricket, tra la forza e il consenso. Anche l’egemonia americana, succeduta a quella britannica, poggia su quella combinazione. Essa è stata forte ed efficace nell’età dell’oro, ma negli ultimi tempi, in seguito ai grandi insuccessi militari e al totale fallimento dell’arroganza neocon dell’infausta squadra Bush, si è indebolita. Certo, ci sono ancora le cannoniere e c’è anche il cricket, ma il modello americano sembra essere in declino.

Sono venute alla ribalta nuove grandi potenze, come la Cina e l’India. Altre si preparano a entrare, come il Brasile, o a rientrare, come la Russia. E poi c’è una novità: i poteri apolitici, i governi privati delle corporation multinazionali, che hanno redditi comparabili con quelli degli Stati (dei cento primi percettori di reddito del mondo cinquanta sono Stati e cinquanta corporation), e i poteri occulti dei paradisi fiscali. Chi sostiene che ambedue, corporation e paradisi fiscali, facciano parte integrante dell’egemonia americana ha ragione solo in parte. Sia le corporation che i fiscal heaven si sottraggono infatti al controllo di tutti gli Stati, anche degli Stati Uniti. Tra il governo americano e le corporation c’è un rapporto analogo a quello che correva tra il governo olandese e la Compagnia delle Indie orientali, rapporto di natura “politica”, talvolta da pari a pari. Se il governo americano, come sembra, finirà per dover gestire una parte consistente delle grandi banche fallite si creerà fatalmente un divario d’interessi e un terreno di conflitti, come è avvenuto in Italia con la creazione del sistema delle partecipazioni statali, nato anch’esso da un colossale crack capitalistico. In tal caso diventerà evidente ciò che oggi è ancora ambiguo: la diversità tra la potenza di cui dispone l’economia finanziaria fortemente integrata e il potere di cui dispone una politica frammentata in duecento Stati “sovrani”.

Questo divario si esprime già in forme estremamente preoccupanti per il destino della democrazia. Dietro la globalizzazione dei mercati finanziari c’è una grande controffensiva del capitalismo contro lo Stato; e del capitale contro il lavoro organizzato. Sul piano mondiale essa si manifesta con la fine della sovranità nazionale, di quel monopolio esclusivo del potere che è il nucleo cellulare della forza politica. Sul piano nazionale essa assume le forme della privatizzazione della vita sociale e della degradazione della qualità politica. Negli Stati Uniti in particolare, ma anche negli altri paesi democratici, come l’Italia, assistiamo a un processo di mercatizzazione della politica. Come afferma Robert Reich riferendosi agli Stati Uniti, la corruzione politica cessa di essere una trasgressione per diventare una prassi universalmente accettata attraverso l’acquisto in massa di partiti e di imprese elettorali. La mercatizzazione della politica è un processo circolare. Essa degrada la politica ad affare, screditandola e promuovendo la domanda di privatizzazione e di mercatizzazione. Qui si coglie quel nesso tra privatismo e populismo che costituisce una minaccia mortale per la democrazia. Quando infatti la società è polverizzata in un mucchio indifferenziato di consumatori, non più di cittadini, essa si espone pericolosamente al vento delle suggestioni collettive. Da istituzione che filtra una classe dirigente attraverso la pubblica discussione, la democrazia si trasforma in un’impresa che produce maggioranze attraverso possenti mezzi di suggestione emotiva e pubblicitaria.

Instabilità economica, allocazione delle risorse perversa rispetto alle priorità sociali, secessione di una nuova plutocrazia, ingovernabilità del disordine mondiale, attacco privatistico e populistico alla democrazia sono altrettanti aspetti dell’insostenibilità del capitalismo finanziario. Ma l’aspetto che sembra in ultima analisi più grave è la sua delegit- timazione morale. Il dominio della finanza è l’espressione estrema dell’autoreferenza e dell’alienazione: di un’accumulazione rivolta a nessun altro fine che non sia l’accumulazione stessa. Viene in mente l’invettiva dell’italiano Bernardo Davanzati, nel Cinquecento, alla fiera di Besançon «dove non vi vanno i popoli a comprar mercanzie ma solamente cinquanta o sessanta cambiatori con un quaderno di fogli (…) Quelli di Bisenzone non sono debiti o crediti effettivi ma arbitri rivolture e girandole che non servono al comodo della mercanzia ma solamente all’utile del denaro».

Il capitalismo ha sempre avuto bisogno di una legittimazione “esterna”, che fosse la grazia weberiana o la felicità degli utilitaristi. L’autolegittimazione dell’avidità è come l’autoregolazione dei mercati: un autoinganno.

Diceva Emile Durkheim che, nel contratto, quasi niente è contrattuale. Quasi tutto si basa sulla legge e sulla fiducia. Il mercato è una istituzione costruita dagli uomini, non una forma della natura. Locke avrebbe detto: non è una entity, ma una convenience, non un’essenza, ma uno strumento. Non bisogna dunque confondere il mercato con la libertà, il liberismo con il liberalismo, errore giustamente contestato da Benedetto Croce a Luigi Einaudi in una disputa famosa. La libertà è la facoltà di scegliere tra il bene e il male avendo gustato con empietà il frutto dell’albero della conoscenza. Non si confonde con gli strumenti inventati dall’uomo per realizzare quella libera scelta, non per asservirla. Non deve essere ridotta a comportamenti obbligati, travestiti da comandamenti della natura.

Quando si scambia lo strumento del mercato con un fine in se stesso ci si infila in un gioco degli specchi entro il quale il mercato stesso si dissolve. Quando si riduce la finalità dell’uomo all’accumulazione dell’avere si annulla l’uomo come essere sociale e la società come la sua naturale dimora. Si realizza l’ideale della nota baronessa: l’inesistenza della società.

E qui si innesta l’altra formidabile questione esistenziale che si è volutamente tralasciata. La riduzione della società a mercato spinge l’esistenza umana verso un altro processo autodistruttivo: la degradazione della sua base ecologica naturale. L’identificazione dell’economia con l’accumulazione genera una crescita letteralmente sterminata, che può segnare la fine non solo del capitalismo, ma dell’avventura umana. Lasciato a se stesso il capitalismo rischia queste due derive fatali: la distruzione della società umana e delle sue basi naturali di sopravvivenza. Mai un sistema storico di organizzazione sociale è stato così prossimo all’onnipotenza e alla rovina.

Ciò non significa che il capitalismo, come si diceva una volta nelle assemblee di sinistra, abbia i giorni contati. Le rovine possono avere tempi lunghi, lunghissimi.

Prima di questa crisi ho pubblicato un libro intitolato “Il capitalismo ha i secoli contati”. Dopo l’inizio della crisi non cambierei il titolo. Keynes disse: «Il capitalismo non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni più necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo che cosa mettere al suo posto restiamo estremamente perplessi». Ebbene questa è anche la convinzione di chi scrive. Il capitalismo finirà certo, un giorno, come tutte le formazioni storiche, ma solo quando saranno emerse nuove strutture economiche, politiche e soprattutto antropologiche capaci di affrontare e risolvere i problemi.

Quel titolo non andrebbe cambiato per due buone ragioni. La prima è quella che è stata appena evocata. I sistemi sociali escono di scena definitivamente solo quando si sono create le strutture di nuovi sistemi. Così uscì di scena il sistema aristocratico. L’errore di Marx fu di credere che la borghesia avesse già creato le condizioni di una società socialista, e che bastasse dare una spallata per farla emergere. In mancanza di alternative maturate le insostenibilità possono trascinarsi per tempi lunghissimi. La storia offre esempi di regimi che sono crollati per secoli. Occorre non una spallata, ma il lavoro costruttivo di un progetto, l’utopia concreta di una società sana.

La seconda ragione è che un nuovo progetto di società sana, che affronti alla radice le due grandi derive del capitalismo, quella dell’insostenibilità ecologica e quella dell’insostenibilità politica, può essere realizzato utilizzando la parte creativa e vitale del capitalismo stesso. Si pensi a quell’imprenditorialità capitalistica che non si è identificata con l’accumulazione per il profitto, ma con grandi imprese creative e della quale anche in Italia si sono avuti luminosi esempi. Il compito supremo delle generazioni immediatamente future, a cominciare da quella presente, è di distogliere il capitalismo da questo volto pietrificante della crescita sterminata e dell’accumulazione insensata e di rivolgere la sua grande forza vitale al perseguimento dell’educazione e della conoscenza. In questo senso il capitalismo, trascendendosi, può contare i secoli.2

[1] M. Amato, Le radici di una fede. Per una storia del rapporto tra moneta e credito in Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2008.

[2] Il testo è tratto dall’intevento alla conferenza “Le ragioni di Penia. La coscienza della prosperità: per una nuova economia morale”, Rimini, 17-20 ottobre 2008.