La crisi è globale perché ha origine nella globalizzazione

Di Giulio Tremonti Lunedì 16 Febbraio 2009 12:37 Stampa

Il legame fra la crisi attuale e la globalizzazione non è casua­le ma causale, poiché è proprio in questa globalizzazione ope­rata troppo in fretta e troppo “a debito” che essa ha le sue ra­dici. La soluzione a questa crisi sta nel separare il bene dal ma­le, nel salvare, separandole dal resto, le famiglie, le industrie e le banche autenticamente funzionali allo sviluppo. Sono infine necessarie nuove regole, senza le quali il superamen­to di questa crisi sarebbe solo la preparazione della nuova.

Solo ora è largamente diffuso il consenso in ordine al fatto che la crisi c’è ed è tanto generale quanto globale. Appena un anno, non un secolo fa, la tendenza più diffusa era molto diversa. Ed era in specie una tendenza: a) a non vedere la crisi; b) a minimizzarla, considerandola solo una “turbolenza dei mercati finanziari” (sic!); c) ad esorcizzarla, vedendo all’orizzonte l’arrivo del cosiddetto decoupling (le vecchie economie si fermano, ma le nuove accelerano, compensando).

La crisi è dunque generale e globale. Generale per impatto, perché non è limitata alla finanza (il primo stadio), ma è estesa all’economia reale (il secondo stadio) e di qui ulteriormente alle strutture sociali e politiche, perché capace di modificare gli stili di vita, di influire sui corsi elettorali, di causare disordini sociali (il terzo stadio).

È poi globale per estensione, perchè estesa dagli Stati Uniti all’Asia, dall’Europa alla Russia, all’America Latina.

E tuttavia non basta tutto questo per completare l’analisi. Il legame tra crisi e globalizzazione è infatti un legame doppio: non solo la crisi è globale, ma ha essa stessa la sua origine proprio nella globalizzazione. Il rapporto tra crisi e globalizzazione non può in specie essere ridotto ad una pura giustapposizione basata sulla classica fallace logica del “post hoc, ergo propter hoc”.

È piuttosto, quello tra crisi e globalizzazione, un legame non casuale ma causale. Un legame razionalmente meccanico, un legame di tipo causaeffetto. Perché la globalizzazione non è stata e non è un fenomeno puramente naturale, ma un fenomeno con causa politica. Un fenomeno ad altissima intensità politica.

Ed è per questo, per il suo disegno e per la sua dinamica politica, che è proprio nella globalizzazione che va cercata la causa della crisi: la crisi è globale perché ha cause esse stesse globali.

La globalizzazione è stata, è e sarà una grandissima positiva opportunità per l’umanità. Ma è stata anche, ed è, origine di grandissimi squilibri e di grandissime criticità. Non per la globalizzazione in sé, ma per come è stata politicamente operata: troppo in fretta e troppo “a debito”.

Troppo in fretta. Nella storia l’apertura dei grandi spazi, l’eliminazione delle distanze fisiche, costituisce una ricorrente causa di rottura di sistema. Secoli fa è stato il caso della scoperta geografica dell’America. Pochi anni fa è stato il caso della scoperta economica dell’Asia.

Con una differenza: il primo è stato un fatto naturale, appunto una scoperta geografica. Il secondo è stato invece un fatto politico. Il primo è stato un processo che nel suo sviluppo storico ha occupato almeno un paio di secoli. Il secondo è stato invece un fenomeno istantaneo.

I processi di vasta portata occupano normalmente il ciclo delle longue durées, il ciclo tipico delle “Annales”. E prendono dunque il tempo del passaggio da una generazione all’altra, non un segmento di tempo minimo, addirittura concentrato e interno al tempo proprio di una vita umana.

Lo sviluppo della globalizzazione è stato invece prima compresso, ed è poi esploso in un pugno di anni. Il 1989 segna a Berlino la fine del comunismo. Il 1994 segna a Marrakech l’inizio del mercatismo costruito come nuova ideologia sostitutiva. Il 2001 segna l’avvio formale della globalizzazione, perchè l’11 dicembre del 2001 la Cina è entrata nel WTO. Il 2007 è infine l’anno di avvio della crisi.

Dal 1989 ad oggi, al 2009, in tutto fanno venti anni: dieci anni di preparazione prima, dieci anni di esplosione poi. In senso storico è evidentemente un tempo minimo. Non solo. Non solo la globalizzazione è stata operata troppo in fretta, perché altri più lunghi e più equilibrati tempi politici potevano essere applicati. Tempi tali da ridurre l’impatto degli enormi squilibri economici e sociali, culturali e politici, che sono tipici di un fenomeno intenso come la globalizzazione. Il “vaso di Pandora” poteva e doveva essere aperto, ma in modo più prudente.

Inoltre, la globalizzazione è stata anche operata troppo “a debito”, perché basata su di una “divisione prima” del mondo, con l’Asia produttrice di merci a basso costo e con l’America compratrice a debito. A doppio debito. Debito interno, perchè fatto in America con una speciale politica monetaria di creazione di valori artificiali, a partire dai valori immobiliari. Una politica basata sui cosiddetti sub - prime. E poi, in aggiunta, anche debito esterno, perché contratto dall’America stessa con l’Asia, prima venditrice delle sue merci e poi simmetricamente compratrice di titoli pubblici americani.

È per questo che la crisi ha avuto il suo motore primo nel campo della finanza e qui, specificamente, nella logica del debito. È stato in specie in questi termini che ha avuto inizio la degenerazione del capitalismo come era venuto formandosi nei decenni precedenti e di riflesso, e per questa via, ha avuto inizio la configurazione delle nostre società secondo un modello nuovo: la debt society, la lev eraged society, la società del debito.

La funzione insieme euforica e parossistica del debito ha in specie spinto verso l’uso dello strumento del debito non solo per acquisire quantità crescenti e superflue di beni di consumo privato. Lo strumento del debito è stato utilizzato non solo per costruire beni industriali nuovi, ma anche – soprattutto – per acquisire la proprietà di beni industriali già esistenti (debito nuovo per impianti vecchi).

La degenerazione del capitalismo si è manifestata principalmente in quattro patologie.

 

Prima patologia

Per secoli i banchieri hanno raccolto denaro sulla fiducia e prestato denaro a proprio rischio, valutando propriamente il rischio che così si assumevano. La nuova tecnica della finanza ha invece consentito, a chi raccoglie il denaro, di liberarsi dal rischio e di farlo con una tecnica per cui si vende a terzi il rischio, incorporandolo in nuovi prodotti finanziari. Così che meno rischi e più guadagni. È così che il rischio ha cominciato a circolare. Esiste un’ampia “letteratura” secondo cui questi meccanismi avrebbero dovuto avere una funzione positiva, di riduzione progressiva, di ammortamento del rischio. Più o meno tutti avrebbero così beneficiato della distribuzione del rischio operata via prodotti “derivati”, persino i contadini indiani. Insomma, secondo questa letteratura, i derivati avrebbero costituito una nuova e positiva scoperta sociale. Come se la grande scoperta sociale dell’Ottocento, l’imposta progressiva, fosse seguita da una nuova scoperta pure socialmente positiva: la finanza “derivativa”.

Questo ha fatto degenerare i modelli di comportamento. C’è un antico detto, secondo cui i banchieri ti prestano il denaro come l’ombrello. Ma te lo prestano quando c’è il bel tempo e te lo ritirano quando invece viene la pioggia. Qui è avvenuto l’opposto: più debito e ancora più debito. È così che si è diffusa l’arte di vivere indebitati, grazie al buon cuore delle banche, e nella progressione di un paradigma che, basato sull’azzardo matematizzato dei derivati, ha creato e sta creando effetti progressivi di crisi.

 

Seconda patologia

La possibilità di sviluppare attività economiche e finanziarie (il nuovo capitalismo emergente e performante) fuori dalle giurisdizioni ordinarie. È stato detto che questo tipo di evoluzione degenerativa del capitalismo è dovuto alla cosiddetta deregulation.

In parte è stato così. In effetti negli Stati Uniti nel 1995, nel 1997, nel 1999 e ancora nel 2000, sono stati formalizzati provvedimenti legislativi assolutamente orientati nel senso della deregulation finanziaria. È così, ma non è solo così. La deregulation, infatti, non spiega tutto. L’Europa, per esempio, è un’area fortemente regolamentata. Eppure è un’area su cui pure c’è l’impatto della crisi. L’essenza del problema non sta in realtà solo nella deregulation, che pure – si ripete – ha avuto un suo ruolo, quanto nella possibilità di sviluppare attività fuori da ogni tipo di giurisdizione. La struttura geopolitica che si è aperta nel mondo ha in specie consentito di fare “shopping” di legislazione, di sviluppare attività non solo in aree caratterizzate da una giurisdizione ordinaria vera – vera perché congiuntamente formale e sostanziale – ma anche in aree che formalmente erano organizzate come giurisdizioni, ma sostanzialmente erano (e sono) aree nelle quali l’unica regola è quella di non avere regole. Ed è così che una quota importante del capitalismo è entrata, più che nello schema della deregulation, nel regno dell’anomia.

 

Terza patologia

Il capitalismo è essenzialmente basato sullo schema tipico, sull’idealtipo della società di capitali. Il capitalismo ha generato la società per azioni e viceversa. Come nella storia dell’uovo e della gallina. Ed è in specie proprio sullo schema della società di capitali che si è sviluppato quel sistema di equilibri di cui il capitalismo ha vitale bisogno. Il sistema dei controlli giurisdizionali, amministrativi, mediatici, giudiziari, è stato in specie ed è a sua volta basato proprio sullo schema della società per azioni. Questo è stato fino a pochi anni fa. Poi la parte affluente e più dinamica e performante del capitalismo è uscita dallo schema della società per azioni e ha utilizzato altri strumenti: gli hedge fund, gli equity fund. Questi sono strumenti che rappresentano una evoluzione assolutamente esterna e alternativa rispetto allo schema legale di base proprio del capitalismo, che è appunto quello della società per azioni.

 

Quarta patologia

Il capitalismo, e dentro il capitalismo lo strumento principe della società per azioni, si basano tra l’altro sul criterio della partita doppia. E questo è, come dire, un tributo che va pagato a un antico francescano, a fra’ Luca Pacioli. Il criterio della partita doppia si organizza fondamentalmente e essenzialmente sulla distinzione tra conto patrimoniale e conto economico. Non esiste l’uno senza l’altro e non esiste l’altro senza l’uno. Diversamente, l’ultimo capitalismo si è liberato dal vincolo della partita doppia. Si è spostato solo sul conto economico, abbandonando la base del conto patrimoniale. Questo non è stato solo un passaggio contabile, è stato soprattutto un passaggio politico e morale. Il conto patrimoniale è infatti il mondo dei valori. Il conto economico è invece il mondo dei prezzi. Il conto patrimoniale è un mondo in cui vedi la struttura, la storia, l’origine, il presente e il futuro di una società, e anche la sua missione industriale e morale. Il conto economico è invece un’altra cosa. Se tutto il capitalismo vira sul conto economico e cessa di essere orientato nella logica della lunga durata, come è invece tipico e proprio del conto patrimoniale, se diventa corto e breve, perché così è la logica del conto economico, se non conta più la durata della società, ma l’anno sociale, questo a sua volta diviso in semestri, in trimestri, in fixing giornalieri, allora è chiaro che quasi tutto cambia. È così che il capitalismo ha preso la forma istantanea del conto economico. È così che è venuto via via configurandosi un capitalismo di tipo nuovo, di tipo “take away”: estrai ricchezza dal conto patrimoniale, saccheggi i valori che ci sono dentro e li porti fuori.

 

L’uscita dalla crisi: la via normale

Nel biennio 2007-08 la via che si è tentato di percorrere per uscire dalla crisi è stata principalmente la via americana. Nel biennio 2007-08 negli Stati Uniti si è fatto di tutto. È stato applicato tutto l’arsenale della politica economica: iniezioni di liquidità, abbattimenti dei saggi di interesse, riduzioni fiscali, sospensioni di borsa, salvataggi bancari, fallimenti bancari, piani di salvataggio bancari, azzeramento dei tassi di interesse (il capitale con rendimento zero non è solo o tanto un dato economico, è soprattutto un dato politico).

Tutto questo è servito a ben poco. Non è salita la crescita economica. Per contro, è salito il debito pubblico.

La politica per il biennio 2009-10, concordata in novembre dal G20 di Washington e in aggiunta ora sviluppata dalla nuova presidenza statunitense, è una variante su questo schema. Una variante quantitativa (almeno altri 800 miliardi di interventi e di debito pubblico in più). Una variante qualitativa (l’aggiunta di forti politiche keynesiane di pubblica domanda e di investimento pubblico). In più, vi è la forza simbolica e perciò politica del nuovo presidente.

L’ottimismo della volontà ci spinge in questa direzione. In considerazione più della forza simbolica del nuovo presidente che della forza economica del piano.

Il pessimismo della ragione ci impone tuttavia di avanzare una ipotesi di soluzione alternativa, ispirata da una forma di “pensiero laterale”.

 

Una “uscita di sicurezza”?

È più o meno come essere dentro un videogame. Quando sei in un videogame, ti trovi davanti un mostro: affronti il mostro, lo sconfiggi e passi al livello successivo. Ma, dopo la vittoria, proprio quando stai cercando di rilassarti, arriva un altro mostro, più grande del precedente.

Oggi ci sono sette mostri: il primo mostro era la crisi dei subprime, ed è stato gestito; il secondo era il collasso del mercato del credito; il terzo era la bancarotta delle maggiori istituzioni bancarie; il quarto era il collasso delle borse. Ora, nascosti dietro l’angolo, ci sono il quinto mostro (le carte di credito), il sesto (le possibili bancarotte di società, prodotte dalle difficoltà di classamento dei loro corporate bond) e il settimo: i derivati, simbolo della finanza deviata. I derivati nel loro crescente importo sono 12,5 volte il PIL del pianeta. L’importo netto è stimato inferiore, tra i 50 e i 25 trilioni di dollari (il Piano Obama è atteso per meno di 1 trilione!). E tuttavia, lordo o netto che sia l’importo, quello generato dai derivati è un diffuso, indecifrabile, pervasivo rischio di controparte, tale da configurare quello che si definisce come “rischio incalcolabile”.

In un comune videogame, quando si è stanchi, si può semplicemente spegnere. Ma in questo gioco, in questo gioco reale, ciò non è possibile.

Che fare? Se hai un infarto curi il cuore e non le gambe. Se la crisi ha origine nella finanza, non la curi dalla parte sbagliata, con gli stimoli (sic!) applicati dal lato dell’economia reale. È certo giusto agire sulle strutture sociali ed economiche, per cercare di assicurarne la tenuta. Ma forse non è giusto pensare che bastino gli stimoli per invertire le tendenze dominanti e dominate da una crisi che è nata e produce i suoi effetti paralizzanti nell’altra parte dell’economia. E cioè non nell’economia reale, ma appunto nella finanza.

Se l’origine della crisi è nella finanza, e dentro la finanza, se la causa della crisi è nella mancanza di fiducia tra banchieri e finanzieri, se la crisi non è una crisi di liquidità ma una crisi di solvibilità (perché temi che la tua controparte possa essere insolvente e quindi preferisci non averci rapporti), la medicina non è nel fondere banche fallite con banche fallite, non è nello switch o swap tra debito privato e debito pubblico, non è creando domanda privata artificiale addizionale. Se sei drogato, la cura non si fa con altra droga. Se il male è il debito – un eccesso di debito – la cura non è data da altro debito addizionale, privato o pubblico che sia.

Salvare tutto è missione divina. Se si pensa di salvare tutto, con l’ultima istanza dei governi, con i debiti pubblici, finisce che non si salva niente e si perdono alla fine anche i bilanci pubblici. Salvare il possibile è invece missione politica.

La forma di pensiero da applicare in questa prospettiva è nuovissima e, anzi, vecchissima, è insieme secolare e sapienziale. È quella biblica: sabbatica o giubilare. E consiste nel separare il bene dal male. Salvare le famiglie, le industrie, la parte delle banche autenticamente funzionale per lo sviluppo.

Separare il resto, immettendolo in veicoli ad hoc, stabilire una moratoria di tassi e di tempi, sterilizzare i relativi valori nei bilanci. Il nome tecnico può cambiare: bad bank o chapter 11, ma la sostanza è la stessa, chiusa in una formula di radicale separazione del bene dal male, del funzionale dallo speculativo.

 

Il futuro: il legal standard

Il futuro non può in ogni caso essere il seguito o la proiezione del passato. I secoli passati sono stati, nelle relazioni economiche internazionali, soprattutto i secoli del gold standard. Il nuovo secolo deve, può essere il secolo del legal standard. Fatto da regole non limitate alla finanza, ma estese alla struttura sostanziale del capitalismo, come è degenerata negli ultimi anni. Senza nuove regole il superamento di questa crisi, fatto con i vari piani di salvataggio o con la bad bank, sarebbe infatti solo la preparazione della nuova.