Rendere conveniente la legalità nel Mezzogiorno

Di Anna Finocchiaro Lunedì 16 Febbraio 2009 12:59 Stampa

La presenza della criminalità organizzata che si fa im­presa rappresenta un elemento di perturbazione e di freno per l’economia del Mezzogiorno e di fatto costi­tuisce un limite ad uno sviluppo fondato sulla libera in­trapresa e sul corretto uso delle risorse pubbliche. Se, specie nel rovinoso avanzare della crisi economica, vo­gliamo evitare una vera e propria desertificazione di una parte consistente del tessuto economico e produttivo del Sud, dobbiamo compiere una serie di discriminazio­ni positive nei confronti dell’impresa sana per riequili­brare le condizioni di svantaggio competitivo rispetto all’impresa mafiosa. È necessario, insomma, rendere conveniente la legalità.

Nonostante una considerevole – per quantità e qualità – produzione di origine scientifica e istituzionale sul tema del rilievo negativo costituito dalla presenza criminale mafiosa nella determinazione del livello di sviluppo delle regioni meridionali, la questione non ha mai davvero occupato la scena pubblica sino a determinare e definire un sistema di politiche pubbliche diverse dalle politiche criminali.
Ciò è avvenuto, innanzitutto, in ragione della straordinaria valenza simbolica del versante investigativo e repressivo del contrasto alla mafia sul quale – è bene ricordarlo – anche nel tempo più recente si sono registrati risultati eccellenti. Ma questo non è più di un alibi. Tanto più se si considera che proprio la legislazione penale, a partire dalla legge Rognoni-La Torre – con intuizione precoce – aveva individuato nella presenza criminale fattasi impresa un elemento di perturbazione del mercato concorrenziale e un conseguente limite allo sviluppo fondato sulla libera intrapresa e sulla corretta destinazione e corretto esercizio delle risorse pubbliche.
Al punto da individuare tra i beni protetti dall’articolo 416bis (Associazione di tipo mafioso) la tutela dell’ordine economico, sia sotto il profilo dell’esercizio della forza intimidatrice per acquisire in modo diretto e indiretto la gestione o comunque il controllo delle attività economiche, sia sotto il profilo della captazione di risorse pubbliche attraverso il controllo di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici.
Dagli anni Ottanta in poi – e sino a recenti provvedimenti – il protagonismo mafioso nell’esercizio di attività d’impresa e accumulazione di capitale è stato il riferimento su cui si sono articolate risposte diverse ed efficaci di politica criminale. Ma, appunto, anche quando ci si muova con gli strumenti della prevenzione penale, si adopera una strumentazione “rigida” che comunque presuppone che il reato sia già stato commesso, od opera per fronteggiarlo, ma non è suscettibile di incidere sul complesso delle condizioni, e dei soggetti, che ospitano e frequentano lo stesso spazio mercantile sino a modificare definitivamente, e riequilibrare definitivamente, l’ordine economico complessivo come esso è stato turbato, per ripristinare dunque compiutamente condizioni di legalità economica, ristabilire la concorrenza e ricreare un favorevole climate business. Non riesce a farlo semplicemente perché non è questo il compito di quella strumentazione.
Anche provvedimenti sofisticati, di grande interesse e possibile impatto sotto il profilo della repressione penale, come la normativa sull’usura e sulle estorsioni, o la normativa sulla confisca dei beni mafiosi, non sono in grado di risolvere la questione. E questo anche a prescindere, ad esempio, dallo scetticismo o addirittura dall’ignoranza di una consistente percentuale di imprenditori circa i provvedimenti antiracket a loro disposizione.
Ci si chiede allora perché – ancora una volta – si affidi alla risposta criminale la riparazione di un danno che essa non può interamente restaurare, perché esso non è solo danno da evento, come direbbero i penalisti, e dunque non riguarda solo quei condannati, quell’impresa, quell’appalto, quell’accumulazione mafiosa, ma è danno strutturale. E riguarda – più analiticamente di quanto non si immagini – la molteplicità di fattori che sostengono le possibilità di sviluppo – e, talvolta, prima ancora – di esercizio delle attività economiche in intere aree del Mezzogiorno.
Molte volte abbiamo invocato maggiori strumenti alle forze dell’ordine e alla magistratura penale per il contrasto alle mafie, ma non mi pare di avere avvertito analoghe invocazioni che avessero come destinatari gli uffici provinciali del lavoro, quelli del catasto, o le agenzie delle entrate, o le camere di commercio. Lo dico per paradosso, ma quello che mi interessa mettere in evidenza è che se – specie nel rovinoso avanzare della crisi economica – vogliamo sostenere dignitosamente la necessità di garantirci contro il rischio di desertificazione di una parte consistente del tessuto economico e produttivo del Mezzogiorno (specie quello costituito da piccole e piccolissime imprese), abbiamo molto da fare – e presto, e bene – per evitare che alle criticità strutturali di quella parte del paese si sovrappongano – così spesso parassitariamente – gli effetti perturbativi della presenza mafiosa.
Non mi sfugge affatto che stiamo comunque ragionando di un contesto economico e produttivo già affetto da vistose criticità. Pochi dati per segnalarne il grado: a) nel 2007 il PIL del Mezzogiorno è cresciuto dello 0,79%, un punto percentuale in meno rispetto al Centro-Nord; b) nel 2007 il Mezzogiorno ha registrato, per il sesto anno consecutivo, una crescita inferiore a quella del resto del paese; c) nell’ultimo quadriennio l’incremento cumulato del prodotto (a prezzi concatenati) del Sud è stato pari a poco più di un terzo di quello del Centro-Nord (2,4% contro 6,4%); d) in termini di prodotto per abitante negli ultimi sette anni il gap con il Centro- Nord si è ridotto di 1,2 punti percentuali, ma in ragione di un aumento della popolazione al Nord (6,1% contro 1% al Sud); e) gli investimenti fissi lordi sono aumentati solo dell’1,2% annuo negli anni 2001-07 contro l’1,9% del Centro-Nord, specie per la componente “macchine e attrezzature”; f) il tasso di accumulazione (rapporto tra investimenti fissi lordi e PIL) è risultato nel 2007 pari al 22,3% nel Mezzogiorno e al 20,8% nel Centro-Nord con un differenziale a favore del Sud dell’1,5%, sostanzialmente invariato negli ultimi dieci anni, e ben lontano dai dieci punti percentuali degli anni Sessanta e Settanta; g) la crescita della spesa finale delle famiglie è risultata al Sud nel 2001-07 dello 0,5% medio annuo, contro lo 0,8% del Centro-Nord; h) il terziario nel Sud è cresciuto tra il 2001 e il 2007 ad un tasso pari a meno della metà di quello del Centro-Nord (0,8% contro 1,7%); i) nel 2007 la crescita del Sud è stata meno di un quarto di quella del Nord; j) le regioni meridionali mostrano anche un più alto livello di disuguaglianza distributiva rispetto a quelle del Centro-Nord; in particolare Campania, Calabria e Sicilia risultano tra le aree più disuguali d’Europa (Grecia, Portogallo, Lituania e Lettonia).1
Non sono più confortanti i dati che riguardano gli investimenti esteri.2 Dati tanto più significativi se si considera che il Mezzogiorno presenta potenziali condizioni favorevoli per la localizzazione di imprese esterne all’area perché rappresenta il 35% della popolazione italiana, dispone di forza lavoro non occupata, ha un costo del lavoro mediamente inferiore al resto d’Italia, offre ampie aree industriali non congestionate, può beneficiare di incentivi finanziari previsti dai programmi comunitari e dalle leggi nazionali. Ciò nonostante, riceve una quota marginale degli investimenti diretti esteri (IDE): nel biennio 2005-06 meno dell’1% dei flussi totali. Nel 2005, nella sola Lombardia, il numero di imprese con capitale estero era dieci volte maggiore di quello dell’intero Mezzogiorno.
Queste le risultanti di un sistema i cui punti di criticità vengono normalmente (e direi unanimemente) individuati in: gravi carenze infrastrutturali;3 difficoltà nel funzionamento della pubblica amministrazione (lentezza, eccesso di burocratismo, inadeguatezza); enti locali a scarsa capacità progettuale; sistema bancario – sempre più vistosamente oggi, in ragione della crisi – non in grado di assecondare le dinamiche di sviluppo sociale e di compiere un’approfondita valutazione del merito del credito, specie con riguardo alla miriade di piccole e piccolissime imprese che costituiscono la gran parte del sistema produttivo meridionale; frammentazione del sistema imprenditoriale e ostilità al consorziarsi; sostanziale fallimento delle politiche europee di convergenza e complessiva inappropriatezza – circa il volume e le destinazioni – della spesa europea “aggiuntiva”; debolezza del capitale sociale. A queste macro-criticità, citate solo nelle più vistose emergenze, si aggiunge la presenza della criminalità organizzata che costituisce sotto diversi aspetti un potenziale negativo. Questa affermazione resta confermata dalla letteratura scientifica economica4, nonché dalla ricostruzione operata in numerosi provvedimenti giudiziari e dai rapporti annuali del Censis e dello Svimez.
Innanzitutto il clima di insicurezza derivante dalla presenza criminale sui territori costituisce un deterrente agli investimenti, respinge generalmente l’allocazione di imprese provenienti da altre aree, comporta costi aggiuntivi per la riduzione del rischio da danno derivante da reato. Il Censis5 ha stimato che oltre ai costi sostenuti dalle imprese per spese di vigilanza e dispositivi per la sicurezza, l’insicurezza abbatte la crescita aggiuntiva stimata come possibile dalle imprese (–7,5 miliardi di euro nel 2001). La presenza mafiosa sul territorio penalizza poi la formazione del capitale sociale. Al contrario, le mafie sono in grado, per il proprio radicamento e la propria capacità di penetrazione nel mercato, ma anche nelle pubbliche amministrazioni e nelle sedi di decisione politica, di gestire una rete di relazioni che appare tutta funzionale a marginalizzare i soggetti che scelgono di restare esterni al cartello. Si conferma cioè che la presenza mafiosa contribuisce a definire un sistema di legalità debole che appare ostile ad ogni agire imprenditoriale orientato dal rispetto delle regole. E questo mentre obiettivo delle organizzazioni criminali continua a essere quello connesso alla capitalizzazione del consenso, oggi non più affidato alla celebrazione di fattori tradizionali e suggestivi come l’onore, benché più propriamente affidato alla capacità di esercitare il ruolo di ammortizzatore sociale mediante il procacciamento di lavoro che – sempre irregolare e malpagato, spesso illegale – fornisce risposta a tante famiglie meridionali.
L’impresa mafiosa, poi, deriva dalle attività illecite (a cominciare dal racket delle estorsioni, peraltro determinante per il controllo del territorio) una disponibilità di capitali a costo irrisorio che è nelle condizioni di reinvestire in attività economiche finalizzate al riciclaggio. È una delle prime condizioni di alterazione della libera concorrenza rispetto alle imprese sane, costrette al ricorso al circuito bancario e non in grado di sostenere la concorrenza con i prezzi praticati dalle imprese mafiose. L’impresa criminale, inoltre, si giova di manodopera spesso irregolare, e talvolta usata anche per il compimento di attività illecite, con costi competitivi e non comparabili a quelli sostenuti dall’impresa sana. Ancora, essa è in grado, per forza intimidatrice, di acquisire quote di mercato, determinare la domanda e accaparrarsi – per effetto di legami corruttivi o collusivi – pubbliche risorse destinandole a proprio vantaggio. Per i vantaggi di cui gode, infine, tende ad agire in regime di monopolio. Insomma «l’attività della mafia nei mercati legittimi “spiazza” i rivali, imponendo in numerose industrie barriere all’entrata oggettiva, sia sui mercati dei prodotti, sia in quello del lavoro. Sotto molti aspetti, questi mercati sono di gran lunga meno contendibili nelle regioni colpite dal crimine organizzato piuttosto che nelle altre. In alcuni casi estremi, nei quali la mafia riesce a controllare sia il lato dell’offerta, sia quello della domanda dei beni forniti dallo Stato, i mercati (sia il mercato della corruzione, sia quelli normali) sono soppressi e si afferma un’organizzazione economica gerarchica, nella quale imprese esterne al cartello o gli entranti potenziali sono costretti a fronteggiare costi di transazione molto elevati».6 Assistiamo ad un vero fallimento di mercato.
Una situazione così complessa e grave non può che essere affrontata con un sistema di strumenti eccezionali che agisca, intanto, per restituire alle imprese sane margini di esistenza e forza competitiva. Insisto sul fatto che debba trattarsi di un sistema di politiche pubbliche. Perché il rischio è, altrimenti, che un singolo profilo di potenziale “vantaggio” risulti non significativo nell’economia della valutazione complessiva fatta dall’imprenditore circa la convenienza offertagli. Così continua a essere, purtroppo, la possibilità di accedere al fondo antiracket nel caso in cui si denunci precocemente l’estorsione, nonostante l’intelligente e moderno impegno delle associazioni imprenditoriali (Confindustria siciliana innanzitutto) e delle numerose associazioni antiracket, cui comunque va garantito dalle istituzioni ogni sostegno. Così è stato anche con riguardo ai sussidi previsti per attrarre gli IDE. Questi incentivi, che non hanno peraltro effetti significativi nelle regioni in ritardo di sviluppo, trovano un disincentivo specifico nella presenza di criminalità organizzata, indice di aree a legalità debole nelle quali non esiste un favorevole climate business.
Dunque, una strumentazione complessa che si diriga innanzitutto alle imprese già operanti sul territorio, prima dell’irrompere finale della crisi economica.
Questa potrebbe consistere di una “batteria” di discriminazioni positive nei confronti dell’impresa sana. Certificate come tali con il coinvolgimento – secondo procedute calibrate sotto il profilo della affidabilità della verifica e della tempestività di essa – di ogni ufficio pubblico cointeressato. Dagli ispettorati del lavoro agli uffici finanziari, dalle prefetture ai casellari giudiziari dei tribunali, alle agenzie per l’ambiente. Altro che non la certificazione antimafia, insomma. Affidata ad un’autorità terza, sul modello delle certificazioni di qualità. All’impresa sana, che non si vale di capitale mafioso, che non sfrutta il lavoro e rispetta le norme ambientali, che non evade il fisco ed è rispettosa degli impegni eventualmente assunti con la pubblica amministrazione andrebbero riconosciuti alcuni vantaggi: procedure fortemente abbreviate e fondate sul principio di responsabilità e autocertificazione dell’imprenditore nei rapporti con la PA; sgravi fiscali e contributivi; prelazione nei rapporti concessori, autorizzatori e nelle procedure per la concessione di possibili appalti; accesso al credito agevolato mediante eventuale costituzione di un fondo pubblico; assicurazione di standard di sicurezza nelle aree industriali.
Una discriminazione positiva, dunque, per riequilibrare le condizioni di svantaggio competitivo rispetto all’impresa mafiosa. Uno strumento, certo solo uno, di una strategia complessa che dovrebbe registrare altro respiro per affrontare e risolvere le difficoltà strutturali in cui è imprigionato lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma uno strumento che potrebbe modernamente mostrare come la legalità sia conveniente e come lo Stato accompagni e riconosca l’impegno di chi – nonostante tutto – voglia intraprendere. Uno strumento tanto più importante ora, nel momento più aspro di una crisi che rischia di lasciare libero ogni campo alla forza monopolistica dell’impresa mafiosa. Sapendo, peraltro, che solo dove c’è impresa sana c’è lavoro “buono” per le famiglie meridionali.

 


 

[1] I dati sono tratti da R. Padovani, Mezzogiorno e dintorni. Questione meridionale e prospettive di sviluppo del paese, intervento al seminario “Sostenere l’autosviluppo”, Fondazione per il Sud, Rende (CS), Università della Calabria, 23 ottobre 2008, disponibile su www.svimez.it.

[2] Svimez, Rapporto Svimez 2008 sull’economia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 2008; V. Daniele, U. Marani, Criminalità e investimenti esteri. Un’analisi per le province italiane, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 1/2008.

[3] Il difetto di strutture materiali penalizza l’impresa meridionale sotto i profili del costo della logistica nell’approvvigionamento e nella di - stribuzione; il difetto di strutture immateriali penalizza sotto il profilo dell’ammodernamento dei processi organizzativi e produttivi (vaste aree della Sicilia, ad esempio, non sono servite dalla banda larga).


[4] Cfr. Censis, Impresa e criminalità nel Mezzogiorno. Meccanismi illegali di distorsione della concorrenza, Gangemi, Roma 2003; E. Felli, G. Tria, Produttività e crimine organizzato: un’analisi delle regioni italiane, in “Sviluppo economico”, 1/2000; M. Centorrino, F. Ofria, L’impatto criminale sulla produttività del settore privato dell’economia. Un’analisi regionale, Giuffrè, Milano 2001; Centorrino, Ofria, Criminalità organizzata e produttività del lavoro nel Mezzogiorno: un’applicazione del modello “Kaldor-Verdoorn”, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 1/2008; Felli, Tria, in IV Rapporto semiannuale del Progetto strategico del CNR, L’Italia in Europa: governance e politiche per lo sviluppo economico-sociale, luglio 1999; A. Asmundo, Mezzogiorno: l’economia del sottosviluppo, in “Il Popolo”, 4 febbraio 2000; A. La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 2005.

[5] Censis, op. cit.

[6] Felli, Tria, op. cit.