La previdenza sociale: un bilancio in chiaroscuro

Di Tiziano Treu Venerdì 08 Maggio 2009 18:04 Stampa

Le riforme e le modifiche al sistema previdenziale che si sono susseguite negli ultimi quindici anni hanno permesso di raggiungere traguardi importanti, primo fra tutti la stabilizzazione della spesa pensionistica. Molto però rimane ancora da fare per superare i problemi rimasti irrisolti e per rispondere ai cambiamenti inattesi che si sono prodotti nel frattempo e che, a cominciare dall’allungamento dell’aspettativa di vita, impongono una rielaborazione delle valutazioni fatte nel 1995.

Il bilancio della previdenza sociale di questi ultimi anni presenta luci e ombre, non solo ombre come qualcuno vorrebbe far credere. La riforma più significativa resta l’introduzione del cosiddetto metodo contributivo operata dalla legge 335/95 e perfezionata nel 1997. Il nesso attuariale che tale metodo ha instaurato fra contributi e prestazioni pensionistiche realizza un elemento di equità, garantendo parità di rendimenti a tutti i soggetti partecipanti al sistema, e insieme fornisce a questo una capacità interna di stabilizzazione automatica, con l’adeguamento dei cosiddetti coefficienti di trasformazione all’andamento delle aspettative di vita.

Questa combinazione di equità e di rigore è un merito ormai riconosciuto da tutti. La riforma del 1995 ha corretto i vizi capitali del precedente sistema: la sperequazione dei trattamenti fra soggetti e fra categorie incarnata in maniera emblematica dalle pensioni di anzianità, dai fondi speciali e dalle pensioni d’oro, l’insostenibilità nel tempo delle promesse formulate dal sistema tradizionale e la sua esposizione a interventi correttivi non trasparenti. L’automatismo del nesso contributi/ prestazioni previsto nel 1995 rende più visibili e controllabili eventuali interventi manipolativi della politica. Non basta peraltro ad escluderli, come si è visto dalla omissione della revisione dei coefficienti che era dovuta nel 2005: un ritardo che costituisce una delle ombre più gravi del bilancio e una minaccia per il futuro. L’innovazione strutturale introdotta con la riforma del 1995 ha avuto un ruolo decisivo nel frenare l’esplosione di costi insita nel vecchio sistema retributivo e che lo avrebbe portato alla bancarotta. L’obiettivo assunto dal governo di allora, e in seguito dalla Commissione Onofri, di stabilizzare la spesa pensionistica è stato perseguito con successo, se non raggiunto; c’è stato un contenimento, se non una stabilizzazione della spesa. Gli effetti di risparmio realizzati rispetto ai vecchi equilibri sono ancora percepibili, come mostrano le valutazioni più recenti (Tabella 1). Nel decennio seguito alla legge 335/95 le sole pensioni integrate al minimo e i pensionamenti anticipati hanno liberato risorse per circa 6,5 miliardi di euro. Un altro elemento strutturale introdotto in quel periodo (dal 1993) è la configurazione del sistema previdenziale attraverso due pilastri, quello pubblico di base e quello complementare privato-collettivo.

Anche questo è un netto cambiamento di rotta rispetto alla assolutizzazione della previdenza pubblica, propria della nostra tradizione politica e giuridico- culturale; un cambiamento che punta a riallineare il nostro assetto previdenziale con quelli misti prevalenti in Europa e avallati dalla nostra Costituzione all’articolo 38.

Le due linee di riforma avviate nei primi anni Novanta hanno avuto nel tempo un andamento segnato da criticità fra loro diverse. È in questa lunga fase attuativa che si rivelano i punti oscuri del bilancio della previdenza. Lo sviluppo della previdenza complementare è stato frenato da difetti regolativi (poca concorrenza e incerto rapporto fra fondi comuni e fondi aperti, limitata portabilità delle posizioni), da una configurazione non adeguata degli incentivi fiscali (nettamente inferiori ai livelli di altri paesi) e da una ancora consistente previdenza di base. Questa è inoltre aumentata dal TFR, anomalo istituto in senso lato previdenziale, che ha ridotto il bisogno di previdenza complementare. Il recente tentativo di superare questa anomalia facilitando la devoluzione del TFR ai fondi pensione ha prodotto risultati parziali, oltre che per la persistente debolezza degli incentivi, per le inerzie culturali diffuse e soprattutto per le resistenze delle piccole imprese a privarsi di un istituto essenziale per il loro autofinanziamento, data l’opacità e la fragilità dei nostri mercati finanziari. Per vincere tali resistenze si propongono diverse linee di azione: migliori meccanismi incentivanti, anche per favorire la scelta delle rendite invece che del capitale, revisione della attuale irreversibilità della adesione ai fondi, iscrizione automatica agli stessi (come in Gran Bretagna) con opzione di uscita dal sistema.1

Quale che sia la possibile efficacia di tali rimedi, resta il fatto che a distanza di quindici anni la previdenza complementare non è ancora in grado di svolgere la funzione per cui è stata istituita: quella di fornire le prestazioni necessarie a integrare pensioni di base in tendenziale declino con la progressiva andata a regime del metodo contributivo. Tale ritardo è aggravato oggi dalla crisi finanziaria mondiale, che ha colpito, se non travolto, anche i più solidi fondi pensione, minando la già scarsa fiducia nella previdenza a capitalizzazione ed evidenziando la sua inferiorità rispetto al rendimento garantito del TFR.

Le criticità che gravano sulla previdenza di base sono in parte diverse da quelle che hanno indebolito il pilastro complementare. Alcune derivano da difetti di costruzione del sistema. La più evidente e più discussa dipende dalla lentezza dell’andata a regime del metodo contributivo e quindi dalla inusitata longevità della fase transitoria. Si tratta di un prezzo pagato alla necessità di non incidere troppo drasticamente su aspettative a lungo consolidate, in particolare dal nucleo dei soggetti rappresentati dai sindacati, il cui consenso è stata una condizione di realizzabilità di una svolta così radicale del sistema.

Un limite altrettanto strutturale della riforma del 1995 è che essa risente della frammentazione storica del nostro sistema in gestioni previdenziali separate, governate da regole diverse, che riflettono e perpetuano la segmentazione anomala del nostro mercato del lavoro.

L’aspetto più eclatante di questa separatezza è la diversificazione delle aliquote contributive per le varie tipologie di lavoro: dipendente, parasubordinato e autonomo; una diversità che si aggiunge ad altre differenze di trattamento, non giustificata né dalle esigenze di tutela né dai caratteri strutturali dei diversi lavori. La riforma del 1995 ha corretto alcuni aspetti distorsivi dell’impianto categoriale del nostro sistema (i fondi speciali di vario genere) ma non lo ha superato, e ha lasciato in vita in particolare il diverso funzionamento contributivo delle varie tipologie di lavoro (in particolar modo di quello autonomo e parasubordinato).

Il superamento di questo impianto era già stato adombrato dalla Commissione Onofri nel 1997, in coerenza con il suo obiettivo di riorientare l’intero sistema di welfare in una logica di universalismo (sia pure selettivo). Ma le sue indicazioni non hanno avuto seguito e non si è raggiunto l’obiettivo in nessuno dei vari segmenti (ammortizzatori, pensioni, assistenza, salario minimo).

Nel tempo si è perseguito l’obiettivo più limitato, ma importante, di avvicinare progressivamente i contributi sociali del lavoro autonomo parasubordinato al livello più elevato del lavoro dipendente (il 33%); non si è considerato se fosse possibile ipotizzare una convergenza a mezza strada per evidenti preoccupazioni circa l’effetto sul livello delle pensioni future dei dipendenti. Il percorso, quindi, andrebbe completato, perché la diversificazione delle aliquote disturba l’equilibrio finanziario del sistema e contribuisce alle distorsioni del mercato del lavoro. È emblematico l’abuso delle collaborazioni e dei contratti a progetto conseguente al loro minor costo contributivo. In questo percorso andrebbe ridiscussa la questione del livello accettabile dei contributi sociali, fra loro armonizzati, tenendo conto dell’adeguatezza delle pensioni future.

Meno dibattuti in sede di bilancio della previdenza sono gli errori riguardanti la configurazione dei coefficienti di trasformazione, da tempo inutilmente denunciati da Sandro Gronchi. 2 Questi coefficienti sono stati stabiliti nel 1995 in via generale, erga omnes, mentre avrebbero dovuto essere differenziati per coorti di età per non creare disparità di trattamento fra persone di età diversa, contrarie all’equità e ingiustificate nella logica del sistema contributivo. Così pure i coefficienti dovrebbero essere definiti diversamente per categorie a longevità ridotta (addetti a lavori usuranti) la cui mancata considerazione è tuttora un ostacolo a un progressivo elevamento dell’età pensionabile. Infine, secondo Gronchi, essi andrebbero stabiliti distintamente anche per stato civile, onde non generare trasferimenti privi di fondamento economico e sociale dai non coniugati ai coniugati.

Un altro difetto interno al sistema contributivo stabilito nel 1995 è stata la scelta di indicizzare le pensioni ai prezzi e non alla dinamica dei redditi. La scelta fu allora motivata da ragioni di opportunità politica: non presentare il nuovo sistema con una copertura pensionistica iniziale troppo inferiore alla promessa del metodo retributivo dell’80% dell’ultima retribuzione.

Questa scelta, che è destinata a generare pensioni “d’annata”, cioè differenze tra pensioni decorrenti da anni diversi, ha comportato conseguenze sempre più gravi sull’entità reale dei trattamenti pensionistici a seguito dell’allungamento della speranza di vita e quindi del periodo di fruizione delle pensioni da parte dei pensionati. È sempre più frequente la denuncia da parte di soggetti titolari di pensioni di dimensioni soddisfacenti che le hanno viste drasticamente erose a distanza di quattordici anni dalla riforma per via dell’inadeguatezza del sistema di indicizzazione. Le stime del nucleo di valutazione ministeriale della spesa previdenziale segnalano che, con il sistema attuale, dopo dieci anni dal pensionamento la copertura pensionistica rispetto alla retribuzione finale si riduce del 15% del tasso previsto di sostituzione.

Una terza criticità interna al sistema è data dalla periodizzazione a dieci anni della revisione dei coefficienti. Un intervallo così lungo ha implicazioni distorsive sul funzionamento del sistema, perché equipara nel calcolo della pensione situazioni fortemente differenziate in relazione alle aspettative di vita. L’impatto distorsivo è stato enfatizzato dall’avere sottovalutato la velocità dell’allungamento delle aspettative di vita. Le valutazioni fatte nel 1995 prevedevano un allungamento di un anno al decennio, mentre questo si è rivelato di dimensioni superiore al doppio (2,3 anni); e la sfasatura è destinata a crescere a seguito del rinvio della revisione dei coefficienti.

La correzione di questi difetti è necessaria affinché il metodo contributivo garantisca in concreto il raggiungimento dei suoi obiettivi di equità inter e intragenerazionale, e non perda la credibilità che ne costituisce un valore essenziale.3

Per questo tali correzioni sono da tempo tanto sollecitate dagli esperti quanto ignorate dai politici.

La resistenza ad accelerare la revisione dei coefficienti ha però un motivo di fondo che non si può ignorare, attinente all’incidenza del sistema sui livelli pensionistici futuri. Se tale revisione è essenziale per mantenere l’equilibrio finanziario del sistema, essa comporta una drastica riduzione delle prestazioni pensionistiche, ulteriore rispetto a quella riscontrabile con l’andata a regime del sistema contributivo.

Questo spiega la resistenza dei sindacati ad accettare la revisione con i tempi e i modi previsti nel 1995, la sua accentuazione in caso di proceda alla revisione con tempi maggiormente ravvicinati. La resistenza è stata esplicitata nel protocollo sociale del 23 luglio 2007, con l’indicazione che le pensioni contributive future dovrebbero puntare ad arrivare a una copertura del 60% dell’ultima retribuzione. Si tratta di una indicazione di obiettivo, perché il risultato del 60% non può essere garantito come tale senza distorcere la logica del sistema contributivo.

Le preoccupazioni circa l’impatto del sistema contributivo sul livello delle pensioni sono aggravate da fattori solo in parte previsti nel 1995: fra questi, in primis, il rallentamento della crescita economica, che pesa sulla resa e sulla sostenibilità dell’intero sistema; quindi l’accresciuta turbolenza dei mercati del lavoro, l’aumentata discontinuità e precarietà delle condizioni di lavoro, e la riduzione delle dinamiche retributive, specie dei gruppi più deboli, giovani, donne e ora anziani. Tutti questi elementi – discontinuità delle carriere, precarietà, basse retribuzioni – si riflettono direttamente, proprio per il carattere corrispettivo del sistema contributivo, sulle pensioni future, nel senso di ridurne la copertura.

Si tratta di una conseguenza non evitabile nel sistema del 1995 perché esso è preordinato a garantire pensioni correlate ai contributi versati nel corso della vita lavorativa e non necessariamente adeguate. Viceversa, è proprio l’adeguatezza delle pensioni che si rivela un’esigenza sempre più pressante nel contesto dell’attuale incertezza e precarietà economica per un numero crescente di soggetti.

L’obiettivo di sostenere il livello delle pensioni può essere agevolato con interventi sul percorso lavorativo dei soggetti – in parte già previsti nella recente legislazione: riscatto dei periodi di laurea, contributi figurativi per diversi periodi di sospensione del lavoro, totalizzazione dei contributi ecc. Ma tali interventi possono servire come integrazioni parziali del sistema, mentre non bastano a correggere gli effetti di carriere discontinue, né tanto meno insufficienze di reddito, oggi diffuse soprattutto in molti lavori precari e scarsamente qualificati.4

Una situazione del genere, se non corretta, rischia di favorire una fuga dalla contribuzione da parte di soggetti che, a causa della ridotta contribuzione, di carriere intermittenti, di bassi salari o per una combinazione di tali fattori, raggiungerebbero secondo l’attuale disciplina prestazioni inferiori o analoghe a quelle garantite dagli importi degli assegni e delle pensioni sociali.

A questo stato di cose, che costituisce una criticità decisiva per le prospettive del sistema pensionistico, non si rimedia con aggiustamenti interni al metodo contributivo. È necessario un cambiamento di logica che introduca nel sistema elementi di carattere non corrispettivo ma solidaristico, i quali permettano pensioni adeguate alle esigenze di vita delle persone. La questione è emersa qualche anno fa nel dibattito politico, ma le proposte di muoversi in questa direzione non hanno avuto seguito. In realtà, la spinta ad affrontare il tema è venuta da esigenze diverse, solo in parte convergenti con quelle di adeguamento del sistema pensionistico; in particolare dalla necessità di ridurre il cuneo contributivo a carico delle imprese per i lavoratori subordinati, specie per quelli a bassi salari, e avvicinare le aliquote contributive per i vari tipi di lavoro (lavoratori subordinati, lavoratori autonomi e parasubordinati).

La sovrapposizione di queste diverse finalità non ha favorito l’accettazione (e forse la chiarezza) delle proposte, che peraltro furono abbandonate dal governo Prodi a favore della scelta di intervenire sul cosiddetto cuneo fiscale e non su quello contributivo. L’urgenza di riprendere quelle proposte non è diminuita, anzi si è acutizzata con la crescente incidenza del metodo contributivo sulla platea dei lavoratori e, per altro verso, con la diffusione dei lavori intermittenti e parasubordinati. Le modalità con cui si può correggere l’attuale sistema contributivo, per garantire prestazioni pensionistiche più adeguate, sono diverse.

Un intervento, per così dire, indiretto, può essere quello di prevedere rendimenti più elevati della media per i lavoratori a basso salario che risentono più gravemente dell’applicazione del metodo contributivo, eventualmente compensandoli con rendimenti minori per chi ha retribuzioni più alte. Una soluzione diretta è quella di stabilire tout court un’integrazione a carico del bilancio pubblico delle pensioni di coloro che, per l’andamento dei loro percorsi lavorativi, non hanno accumulato contributi sufficienti a raggiungere il livello di pensione ritenuto adeguato (come avveniva con l’integrazione al minimo delle vecchie pensioni retributive).5

Lo sviluppo coerente di queste proposte è quello di costruire un sistema pensionistico pubblico basato su due componenti: una prestazione pensionistica di base finanziata dal fisco, secondo la logica universalistica, destinata a garantire a tutti i cittadini anziani bisognosi prestazioni adeguate alle esigenze di vita; un secondo livello, di tipo contributivo puro, o addirittura costituito su basi di capitalizzazione, che garantirebbe prestazioni aggiuntive correlate ai contributi versati dai singoli soggetti nel corso della loro vita (anche questo secondo pilastro avrebbe rilievo generale, quindi, carattere obbligatorio). Resterebbe la possibilità di pensioni complementari volontarie costruite nelle forme attuali, aggiornate e sostenute da agevolazioni fiscali più adeguate.

Una simile riconfigurazione del sistema previdenziale è coerente con le indicazioni della nostra Costituzione, che prefigura un assetto misto costituito su due livelli previdenziali, finalizzato a garantire ai cittadini bisognosi i mezzi necessari al mantenimento (articolo 38, comma 1) e ai lavoratori prestazioni adeguate alle loro esigenze di vita (articolo 38, comma 2). Questa proposta va meglio definita per molti aspetti, a cominciare dalla gradualità della sua attuazione e dal livello di pensione base da garantire, ma non può essere esclusa dall’agenda attuale della politica.6

Last but not least, il bilancio della previdenza deve fare i conti con la questione dell’età pensionabile. Si tratta, non solo in Italia, dell’aspetto più travagliato della questione, ma nel nostro paese è stato ridiscusso troppe volte e secondo logiche antinomiche.

L’introduzione del cosiddetto scalone da parte della legge Maroni è una scelta che altera la logica della riforma del 1995 e ne incrina la coerenza sistematica: in primis perché ripropone, aggiornate, soglie rigide di età per le pensioni di anzianità al posto della libertà di scelta entro una fascia di età – con il superamento di ogni distinzione fra vecchiaia e anzianità – propria del sistema contributivo.

Il superamento dello scalone introdotto dalla legge 247/07 tramite l’innalzamento graduale dell’età pensionabile è giustificato in quanto tiene conto delle aspettative di soggetti vicini alla soglia di pensione, che riflettono storie personali e condizioni di lavoro diverse da quelle attuali (carriere precoci, lavori pesanti ecc.). Si tratta di una soluzione di compromesso che risente fortemente del peso del passato: un passato presidiato dallo schieramento sindacale e presente in una popolazione che invecchia rapidamente.

Dati questi condizionamenti era difficile fare meglio: cioè ottenere un risultato meno costoso tale da rendere disponibili risorse per altri capitoli di welfare che pure ne hanno bisogno; dalle politiche attive del lavoro al sostegno dei gruppi deboli, agli ammortizzatori sociali. Questa, del resto, è l’esperienza degli ultimi anni, a partire dalla riforma del 1995, che ha reso possibile contenere la dinamica della spesa pensionistica, ma non ridurla come era stato previsto dalla Commissione Onofri.

Detto questo, si sarebbero potute trovare, come osservato da molti esperti, soluzioni rispettose del quadro contributivo che assicurassero coerenza nel periodo transitorio e flessibilità a regime. Non era necessario alterare, comprimendola, la fascia di età pensionabile unica, introdotta nella legge Dini (allora era 57 e 65 anni). Si poteva mantenere questo elemento di flessibilità senza pregiudicare l’esigenza di alzare l’età pensionabile; bastava fare slittare in avanti la fascia di età, allineandola gradualmente alla nuova età minima prevista dal protocollo (58 anni a salire).

Il mantenimento di una fascia flessibile può favorire il progressivo innalzamento dell’età pensionabile, per scelta libera dentro la fascia. La piena andata a regime del sistema contributivo porta a ridimensionare il rilievo stesso del limite minimo di età pensionabile.

Per questo motivo si è proposto a più riprese, fin dalla Commissione Onofri, all’indomani della riforma, e da altri successivamente, 7 di accelerare il passaggio al regime del criterio contributivo. Tale accelerazione, oltre ad avere un effetto diretto sul contenimento della spesa pensionistica, comporterebbe una soluzione più equa di questioni ancora irrisolte, quali la valutazione delle condizioni di pensionamento per i lavori usuranti e la diversa età delle pensioni di vecchiaia delle donne.

L’urgenza di intervenire su questo ultimo punto è accelerata dalla decisione della Corte di giustizia europea, che ha ritenuto ingiustificatamente discriminatoria la diversità di età pensionabile fra uomini e donne. Ci si limita qui a notare che la decisione è ristretta al settore pubblico, dato che gli interventi dell’Unione europea si possono riferire solo a questo comparto. D’altra parte, neppure nel nostro ordinamento questa soluzione paritaria sarebbe automaticamente estendibile al lavoro privato, dato che i due settori – pubblico e privato – hanno avuto storicamente discipline diverse, non solo in materia pensionistica; e queste differenze sono state ritenute giustificate dalla nostra Corte costituzionale per la diversa natura dei rapporti e del datore di lavoro, anche dopo la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego. Se questa tesi è sostenibile sul piano strettamente giuridico, è destinata a indebolirsi sul piano politico e sociale, e forse anche su quello costituzionale, tanto più a fronte della tendenza all’avvicinamento fra lavoro privato e lavoro pubblico (peraltro alterata dall’attuale governo). La Corte europea non indica i modi con cui correggere le disparità di trattamento delle pensioni di vecchiaia di uomini e donne, e neppure i tempi di adeguamento alla decisione. È quindi possibile valutare i provvedimenti da prendere senza improvvisazioni, alla luce di una valutazione complessiva delle condizioni del mercato del lavoro e della necessità di promuovere l’occupazione femminile.

In questo quadro la parificazione delle regole per uomini e donne potrebbe tener conto delle correzioni necessarie per rendere più coerente ed equo il sistema contributivo. Invece di proporre avvicinamenti progressivi fino all’equiparazione delle regole sulla pensione di vecchiaia secondo la logica rigida delle soglie, si dovrebbe generalizzare una fascia flessibile, entro cui ammettere libertà di scelta di pensionamento, comune a uomini e donne, con il superamento progressivo della distinzione fra pensione di vecchiaia e di anzianità, in coerenza con il metodo contributivo.

Tale fascia potrebbe essere progressivamente elevata per entrambi i generi in tempi ed entro limiti da definire. Si è proposto di adottare una fascia fra 62 e 67 anni, considerando che dal 2013 l’età di accesso alla pensione di anzianità è per tutti di 62 anni (63 per i lavoratori autonomi).8 Da altri si è ipotizzato un intervallo fra 59 e 68 anni, però con una applicazione immediata del metodo contributivo, che comporterebbe una riduzione attuariale delle pensioni maturate dopo il 2010 per chi si ritira dal lavoro prima del limite massimo della fascia.9 Le implicazioni finanziarie e sociali di queste proposte sono diverse a seconda delle variabili adottate. Una loro estensione anche al settore privato ne accentuerebbe la rilevanza di sistema e l’effetto di risparmio. Questo verrebbe accentuato se l’equiparazione delle regole pensionistiche fra uomini e donne si collocasse nel quadro della proposta accelerazione del metodo contributivo. Ma la discussione, per essere proficua, dovrebbe valutare il complesso di questi elementi e indicare la destinazione dei risparmi conseguibili. Quelli derivanti dalla parificazione delle regole per uomini e donne dovrebbero essere utilizzati per potenziare gli strumenti che consentono di conciliare lavoro e responsabilità familiare e di sostenere l’occupazione femminile: perché questo è un obiettivo utile allo sviluppo del paese e alla stessa sostenibilità del sistema pensionistico.


[1] M. Marè, Equità generazionale e previdenza complementare. La via d’uscita c’è, in AREL Europa Lavoro Economia, Un welfare per crescere, AREL, Roma 2009, p. 70 sgg.

[2] S. Gronchi, Il ruolo dei coefficienti nei sistemi NDC, in S. Pirrone (a cura di), Flessibilità e sicurezze, Il Mulino, Bologna 2008, p. 71 sgg. L’autore spiega anche motivi ed effetti della non differenziazione dei coefficienti in genere.

[3] A. Brugiavini, E. Fornero, È una questione di metodo contributivo, in “laVoce.info”, 12 luglio 2008.

[4] Essi, inoltre, introducono deviazioni non irrilevanti rispetto al criterio di calcolo contributivo. Su questo punto si veda F. Pammolli, N. Salerno, Il sistema pensionistico: quale riforma, in L. Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare. Dieci anni dopo la Commissione Onofri, Il Mulino, Bologna 2008, p. 349. Le correzioni di tali distorsioni possono essere ottenute solo con politiche economiche di sostegno all’occupazione e alle retribuzioni, perché, come osserva Elsa Fornero, è una illusione voler sanare le lacune del mercato del lavoro con interventi sulle pensioni. Si veda E. Fornero, Stop and go nel processo italiano di riforma del sistema pensionistico, in Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare cit., p. 37 sgg.

[5] Nella stessa direzione va la proposta di Felice Pizzuti di fiscalizzare gli effetti dell’adeguamento dei contributi. Si veda F. Pizzuti, Il sistema pensionistico e il sistema di welfare, in Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare cit., p. 330.

[6] Per questi aspetti si rinvia a T. Treu, Una revisione strutturale per il sistema pensionistico, in AREL Europa Lavoro Economia, Un welfare per crescere cit., p. 65 sgg. In una direzione simile si muove una proposta di legge di Giuliano Cazzola (AC 1299), peraltro in forma di delega e quindi limitata ai principi generali.

[7] Da ultimo T. Boeri, A. Brugiavini, Pensioni: se i risparmi richiedono flessibilità, in “laVoce.info”, 30 gennaio 2009; F. Pammolli, N. Salerno, Il sistema pensionistico, quale riforma, in Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare cit., p. 350 sgg.

[8] L. Tronti, La sentenza europea e la riforma delle pensioni, in “laVoce.info”, 10 febbraio 2009.

[9] Boeri, Brugiavini, op. cit.