Una proposta per le pensioni

Di Claudio De Vincenti Venerdì 08 Maggio 2009 18:07 Stampa

Il sistema pensionistico italiano, uniformato dal 1995 al modello NDC, è passato allo schema contributivo. Il Protocollo sul welfare del 2007 ha ridefinito i coefficienti di trasformazione ma non ha riassorbito tutte le criticità. Occorrono nuove iniziative per rendere più evoluto il modello di welfare; tra queste è auspicabile l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, che potrebbe concorrere a ridurre l’incidenza della spesa pubblica sul PIL.

La questione dell’età pensionabile delle donne, posta all’ordine del giorno dalla sentenza della Corte di giustizia europea e dalla recente raccomandazione Ecofin, ha riacceso il dibattito sul sistema pensionistico italiano. Dibattito peraltro mai sopito, se pensiamo prima alla forzatura operata con lo “scalone” Maroni e poi alle tensioni intorno a quello che doveva essere un provvedimento tecnico – la prima revisione dei coefficienti di trasformazione prevista dalla riforma Dini per il 2005 – e che venne rinviato dal precedente governo Berlusconi e, infine, sbloccato dal Protocollo sul welfare del governo Prodi del 23 luglio 2007 e attuato con la legge 247 del medesimo anno. La discussione ha spesso messo in secondo piano il fatto che l’asse portante del sistema pensionistico basato sul principio di equità e sostenibilità fosse stato realizzato dalla riforma del 1995 e che ciò di cui oggi vi è bisogno è di metterne a frutto la logica sia per migliorare i trattamenti pensionistici futuri sia per correggerne i difetti in un’ottica di solidarietà intergenerazionale e di riequilibrio nell’uso delle risorse a favore di altre e urgenti componenti del nostro sistema di welfare. È su questi punti che verrà affrontato il tema, poiché solo nella prospettiva indicata può essere compresa anche la questione dell’età pensionabile delle donne.

Si comincerà con un breve richiamo alle caratteristiche di equità e sostenibilità del sistema impostato con la legge Dini. Lo schema contributivo italiano ha per la prima volta con quella legge tradotto in pratica quello che nel mondo è ormai noto come modello NDC (Notional Defined Contribution). Questo modello, insieme con l’analoga, peraltro più coerente, riforma svedese, di due anni successiva alla nostra, ne ha ispirate altre fra le quali quella polacca e quella lettone, e ha influenzato anche i “sistemi pensionistici a punti” ideati in Francia e in Germania.1

All’origine del passaggio al sistema contributivo italiano vi è stata la consapevolezza crescente non solo dei problemi di sostenibilità ma delle iniquità del sistema retributivo, sulle quali avevano richiamato l’attenzione studiosi come Onorato Castellino e Sandro Gronchi, in particolare in un seminario del 1993 presso la Fondazione Cespe.2 Lo studio presentato in quella sede da Gronchi e condotto per la Ragioneria generale dello Stato,3 chiariva le iniquità della formula retributiva: in altri termini, lo studioso paragonando il sistema pensionistico a ripartizione ad una banca virtuale in cui prima si depositano i contributi e poi si prelevano le prestazioni, dimostrava che quella banca trattava diversamente i “correntisti” accreditando loro tassi di interesse molto differenziati. La banca virtuale, in particolare, remunerava i contributi delle carriere dinamiche (cioè a crescita elevata della retribuzione) molto meglio di quelli versati dalle carriere piatte (a bassa crescita retributiva). Inoltre, remunerava meglio i contributi versati dai pensionati di anzianità rispetto a quelli versati dai pensionati di vecchiaia.

L’analisi indicava, da sola, la soluzione: occorreva fare in modo che la banca virtuale accreditasse lo stesso tasso di rendimento su tutti i conti correnti. E in questo veniva individuato il nocciolo del passaggio al sistema contributivo, riassumibile nell’equivalenza attuariale tra contributi versati e trattamento pensionistico di cui si usufruisce. Il sistema consente di affrontare tre temi centrali di un assetto pensionistico: a) garantisce la sostenibilità strutturale del sistema ove si stabilisca che il rendimento uniforme sia scelto uguale al tasso di crescita della massa salariale (oppure ad una sua proxy qual è, nel lungo periodo, il tasso di crescita del PIL); b) garantisce trasparenza ed equità inter e intragenerazionale (per inciso, quanto detto circa la sperequazione dei tassi di rendimento del sistema retributivo, implica che il passaggio all’uniformità del tasso di rendimento comporta, a parità di anzianità contributiva, un riequilibrio nei trattamenti pensionistici relativi a favore di operai e impiegati rispetto a quelli di quadri e dirigenti); c) fornisce i corretti incentivi agli assicurati, in termini sia di incentivi al lavoro che all’emersione contributiva nel corso di tutta la vita lavorativa.

È questa l’idea portante della riforma del 1995, che ha lasciato peraltro alcune zone d’ombra,4 solo parzialmente affrontate, per quanto riguarda l’armonizzazione delle diverse gestioni previdenziali, con l’intervento del primo governo Prodi (legge 449/97, articolo 59). Il dibattito oggi in corso può essere l’occasione per dare finalmente piena coerenza all’impianto del sistema.

 

Le indicazioni di prospettiva

Partendo dalle questioni attinenti al funzionamento del sistema contributivo italiano, si discuterà su un tema in prospettiva centrale, quello del livello dei trattamenti a regime. Secondo il Rapporto 2006 del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (ma altre stime danno risultati non molto diversi) i trattamenti pensionistici del sistema pubblico andranno riducendosi (in rapporto all’ultima retribuzione) a partire dal 2017, per stabilizzarsi dopo il 2040 su tassi di sostituzione (lordi), per un lavoratore con 65 anni di età e 40 di contributi, del 65% circa per un dipendente con carriera piatta e del 54% per un dipendente con carriera dinamica; nel caso dell’autonomo, data la bassa aliquota contributiva, i tassi di sostituzione saranno nettamente inferiori. Si tenga presente che quelli indicati sono tassi di sostituzione calcolati nel caso di 40 anni di contributi pieni, il che rinvia all’ulteriore problema costituito dal fatto che, almeno nella fase attuale, sembrano destinati a diffondersi fenomeni di discontinuità dei rapporti di lavoro e quindi anche delle carriere contributive. Per converso, i tassi di sostituzione effettivi potranno risultare migliori di quelli indicati in virtù dell’integrazione pensionistica fornita dalla previdenza complementare. Ma si ritiene sia comunque giusto porsi il problema se trattamenti pensionistici pubblici come quelli indicati siano adeguati, tanto più alla luce delle stime circa l’evoluzione di lungo periodo della spesa pensionistica, la cui incidenza sul PIL, dopo la gobba del 2035, è destinata, al contrario che in altri paesi europei, a tornare al di sotto del livello attuale. È questo il nodo di fondo che sta sotto alle resistenze che nei fatti hanno fin qui frenato la revisione dei coefficienti di trasformazione. Il Protocollo sul welfare del 23 luglio 2007 ha previsto una prima ridefinizione dei coefficienti, poi varata con la legge 247/07, rinviando alla costituzione di una apposita commissione paritetica con le parti sociali la ridefinizione dei criteri per il loro adeguamento successivo. Rinviando all’intervento di Sandro Gronchi su questo stesso numero di Italianieuropei per una analisi nel merito della revisione dei coefficienti, in particolare riguardo alla necessità di differenziare i coefficienti per coorti successive che si affacciano all’età di pensionamento, si sottolinea qui che una manipolazione politica dei coefficienti sarebbe la strada sbagliata per affrontare il problema sopra evidenziato dell’adeguatezza dei trattamenti. I coefficienti sono un elemento costitutivo del sistema, che garantisce la corretta applicazione del criterio dell’equivalenza attuariale tra montante contributivo e trattamento pensionistico complessivamente goduto e l’uniformità dei tassi di rendimento tra i lavoratori. Appare ambigua la parte del Protocollo sulla procedura di revisione dei coefficienti; questa deve rispondere a criteri strettamente tecnici, deve avvenire a intervalli ravvicinati (al meglio, per ogni coorte che anno dopo anno si affaccia all’età di pensionamento) e deve essere automatica, non soggetta a negoziazione. Il problema del livello dei trattamenti pensionistici futuri va affrontato rispettando le coerenze del sistema contributivo e non stravolgendole, altrimenti le iniquità che caratterizzavano il sistema retributivo, “cacciate dalla porta” (a regime) con la riforma del 1995, finiranno per “rientrare dalla finestra”. Uno dei meriti del sistema NDC è quello di rendere del tutto trasparente la relazione tra aliquota contributiva, anni di lavoro e quindi di contribuzione, speranza di vita residua al pensionamento e trattamento pensionistico annuo che ne deriva. Salvaguardare la coerenza attuariale di questa relazione è essenziale affinché per tutti noi siano chiari i termini delle scelte necessarie a garantire trattamenti pensionistici adeguati.

Si giunge così ad alcune indicazioni di prospettiva, cominciando da quelle per così dire più interne al sistema contributivo stesso per concludere poi con una proposta di affiancamento del sistema contributivo con un istituto specifico finanziato attraverso la fiscalità generale.

Si veda il primo insieme di indicazioni:

a) rispetto alle modifiche introdotte dalla legge 247/07 in applicazione del Protocollo sul welfare, si può far leva sull’equivalenza attuariale garantita dal sistema NDC per valorizzare la flessibilità dell’età di pensionamento attraverso il ripristino della libertà di scelta da parte del lavoratore prevista dalla Dini; si tratta però, alla luce delle modifiche demografiche intervenute da allora, di partire da una età minima di pensionamento più alta e cioè i 61 anni previsti dalla 247/07 a partire dal 2013, e di rivedere corrispondentemente l’età massima,5 introducendo al contempo le modifiche normative necessarie a consentire a chi lo vorrà di andare in pensione anche oltre tale limite. In questo modo, a partire dai 61 anni, ognuno sceglierà autonomamente se andare in pensione prima, scontando una minore pensione annua in relazione al minor montante contributivo accumulato e al più lungo periodo di pensionamento, o successivamente, con una pensione corrispondentemente più alta. Tornando all’ispirazione della Dini, inoltre, la forchetta di età di pensionamento dovrà essere uguale per uomini e donne (su questo punto, si rinvia all’intervento di Fornero, Mastrobuoni e Taddei su questo stesso numero di “Italianieuropei”);

b) come opzione a disposizione dei lavoratori che abbiano raggiunto l’età minima di pensionamento vanno introdotti schemi misti basati sul parttime integrato con una pensione parziale, con conseguente accumulo di ulteriori contributi da parte del lavoratore che andranno ad accrescere la pensione futura; la pensione parziale viene calcolata in base all’equivalenza attuariale al momento dell’opzione, i contributi versati successivamente sul part-time continuano a capitalizzarsi secondo lo schema NDC fino al pensionamento definitivo; offrire questa alternativa rispetto alla scelta di pensionarsi al raggiungimento dell’età minima può avere effetti importanti, senza oneri per la finanza pubblica, sull’adeguatezza dei trattamenti futuri, in particolare delle lavoratrici;

c) nell’ambito della riforma degli ammortizzatori sociali, va realizzata la contribuzione figurativa prevista dal Protocollo a favore del lavoratore per il periodo di godimento dell’indennità di disoccupazione e a favore dei lavoratori a progetto e a collaborazione, nelle fasi di interruzione del rapporto; va inoltre realizzata la piena cumulabilità senza oneri dei contributi versati ai diversi fondi; queste misure sono di particolare importanza per le lavoratrici, i cui trattamenti pensionistici risentono, oltre che della disparità nelle retribuzioni effettivamente ottenute, anche di carriere contributive decisamente meno continue di quelle degli uomini;

d) nell’ambito della riforma degli ammortizzatori sociali, va previsto il versamento di contributi figurativi a favore del lavoratore per il periodo di godimento dell’indennità di disoccupazione;

e) per i lavoratori che non raggiungono il minimo di pensione contributiva vanno allargate le maglie della cumulabilità futura tra assegno sociale e pensione contributiva, riducendo la percentuale (75%) con cui quest’ultima va a scomputo dell’assegno sociale (aliquota marginale implicita); in questo modo si incentiva maggiormente l’accumulo di contributi nell’arco della vita lavorativa;

f) per i lavoratori autonomi si dovrà andare verso un graduale aumento dell’aliquota contributiva, unico strumento per innalzare i loro trattamenti pensionistici futuri;

g) last but not least, una misura che riguarda la trasparenza per il singolo lavoratore della sua situazione pensionistica: occorre disporre che l’INPS fornisca periodicamente al lavoratore non solo il quadro della sua situazione contributiva, ma anche un calcolo provvisorio della sua pensione nel caso la sua carriera contributiva prosegua secondo il trend passato; in questo modo ogni lavoratore avrebbe chiara la sua situazione prospettica e potrebbe decidere se versare contributi volontari o premunirsi tramite il rafforzamento della pensione integrativa.

Come è chiaro, l’insieme delle misure indicate, tutte coerenti con il modello NDC, è volto a sostenere i trattamenti futuri. Si tratta a questo punto di formulare un giudizio, propriamente politico, circa l’adeguatezza dei tassi di sostituzione e quindi dei trattamenti garantiti dalla sostenibilità finanziaria interna del sistema. Ove si ritenga necessario incrementarli, si può intervenire introducendo a fianco del sistema contributivo un istituto finanziato dalla fiscalità generale. Pur rispondendo in quanto tale a una logica diversa da quella squisitamente assicurativa propria del sistema NDC, è essenziale che l’istituto in questione non ne contraddica la logica, determinando comportamenti confliggenti con la tenuta del sistema.

La proposta per i lavoratori che andranno in pensione con il sistema contributivo pieno si articola sui seguenti punti. In primo luogo, si tratta di introdurre, a carico della fiscalità generale, un’integrazione della pensione proporzionale agli anni di contribuzione versata; la proporzionalità tra integrazione e anni di contribuzione, oltre che rispondere a un elementare criterio di equità, è essenziale per mantenere i corretti incentivi all’emersione contributiva. In secondo luogo, l’integrazione potrebbe essere definita in cifra fissa per ogni anno di contribuzione versata (quindi sarebbe proporzionale agli anni di contribuzione ma uguale per tutte le retribuzioni); questa soluzione è preferibile rispetto ad altre alternative, come per esempio l’attribuzione a ogni lavoratore di contributi figurativi in percentuale della retribuzione, perché in quest’ultimo caso si avrebbe di fatto un innalzamento del tasso di rendimento dei contributi effettivamente versati che premierebbe maggiormente le carriere a crescita salariale elevata e i pensionamenti precoci; l’integrazione pensionistica in cifra fissa per anno di contribuzione versato evita questo effetto e risponde all’obiettivo di sostenere in proporzione maggiore, a parità di anni di contribuzione, le pensioni più basse realizzando così un obiettivo di natura non assicurativa, ma mantenendo coerenza con la logica incentivante del sistema contributivo.

L’ammontare dell’integrazione dipende naturalmente dal rapporto tra spesa pensionistica complessiva e PIL giudicato sostenibile nel lungo periodo dal punto di vista macroeconomico. Si segnala solo che un sottoprodotto della proposta potrebbe essere quello di rendere gestibile in termini di consenso una revisione – per i pensionati contributivi – del meccanismo di indicizzazione delle pensioni attualmente previsto, nel senso di passare alla indicizzazione al PIL (in modo da evitare il fenomeno delle pensioni di annata): una simile scelta, come sappiamo, implica – a parità di valore attuale del trattamento complessivamente goduto nell’arco del periodo di pensionamento – una pensione più alta negli ultimi anni ma più bassa all’inizio e quindi un più basso tasso di sostituzione al momento del pensionamento; l’integrazione a carico della fiscalità generale sdrammatizzerebbe il problema, innalzando il tasso di sostituzione di fatto.

 

La transizione

In relazione a questo assetto più adeguato, sia in termini di coerenza del sistema contributivo che di adeguatezza dei trattamenti del sistema a regime, si possono delineare gli interventi principali da attuare da subito per la fase di transizione, ossia per i pensionandi del sistema retributivo (l’ultima coorte con quarant’anni di anzianità andrà in pensione nel 2017) e per quelli del sistema misto retributivo- contributivo (coloro che al 31 dicembre 1995 avevano meno di 18 anni di anzianità contributiva). Gli interventi, che hanno la duplice finalità di assicurare l’equità intergenerazionale e il contenimento della spesa pensionistica nel corso della transizione, sono nell’ordine:

a) mantenere il progressivo innalzamento dei requisiti per il pensionamento di anzianità stabiliti dalla legge 247/07 (fino a raggiungere, dal 1° gennaio 2013, le combinazioni alternative di 61 anni di età e 36 di contributi o di 62+35);

b) coerentemente, a partire dall’1 gennaio 2011 – quando scatta il requisito minimo dei 61 anni di età – innalzare l’età limite di pensionamento di vecchiaia per le donne di 1 anno ogni due fino ad allinearla ai 65 anni degli uomini;

c) come opzione a disposizione dei lavoratori che abbiano raggiunto la quota minima di pensionamento vanno introdotti schemi misti basati sul part-time integrato con una pensione parziale, analoghi a quelli descritti per il regime contributivo, con conseguente accumulo di ulteriore anzianità contributiva (a tempo parziale) da parte del lavoratore che andrà ad accrescere la pensione futura; nel caso dei pensionandi retributivi e misti, offrire quest’alternativa rispetto alla scelta di pensionarsi al raggiungimento dell’età minima può avere effetti importanti non solo sul versante dell’adeguatezza dei trattamenti ma anche, in funzione della quota di lavoratori e lavoratrici che aderiranno invece di andare subito in pensione, sul versante dei risparmi di spesa pubblica;

d) per i lavori usuranti, ammesso che si riesca a definirli in modo serio sulla base di indicatori oggettivi (stime corrette dell’impatto specifico del tipo di lavoro svolto sulla speranza di vita), si può prevedere l’opportunità di accedere comunque agli schemi misti di lavoro part-time e pensione al raggiungimento dei 57 anni di età e 35 di contributi;

e) a partire dal 2010 va introdotto il regime pro-rata per tutti i lavoratori in attività; l’impatto di risparmio di spesa è ormai modesto, dato che la misura ha rilievo solo per quanti andranno in pensione tra il 2010 e il 2017, ma il significato equitativo è evidente. Infine, un segnale importante dell’attenzione al sostegno dei pensionati a reddito basso sia nel regime retributivo che in quello contributivo verrebbe dall’introduzione di una semplice forma di imposta negativa, ossia dalla restituzione dell’incapienza ai pensionati con almeno 65 anni di età e redditi inferiori alla soglia imponibile; il sostegno si rivolgerebbe alle sole pensioni soggette a IRPEF – cioè a quelle da lavoro – e dovrebbe essere costruito in modo da tener conto dei redditi effettivi del pensionato – più pensioni in capo allo stesso soggetto, redditi da lavoro, redditi da fabbricati ecc. – e in modo da scontare eventuali sostegni assistenziali già da lui goduti.

 

Per concludere: qualche conto

Le indicazioni fornite nei paragrafi precedenti si prestano ad alcune valutazioni quantitative. 6 L’equiparazione graduale dell’età di pensionamento delle donne a quella degli uomini ha due effetti molto rilevanti: riduce notevolmente la differenza di genere nei trattamenti pensionistici (la pensione media delle nuove leve di pensionate, rispetto a quella degli uomini, salirebbe nel 2020 dal 56% al 69%, per portarsi all’80% a regime) e produce risparmi di spesa consistenti (0,15 punti di PIL nel 2015; 0,23 nel 2020; 0,4 punti di PIL nel 2030; 0,5 nel 2040). Effetti analoghi, nel senso sia di un miglioramento dei trattamenti sia di una riduzione di spesa, produrrebbe, in caso di adesione del lavoratore, lo schema misto di lavoro part-time integrato con pensione parziale: nel caso di un prolungamento di quattro anni con lo schema misto, al pensionamento definitivo il trattamento pensionistico risulterebbe nel complesso più alto del 4-5%; assumendo una adesione allo schema del 25% di coloro che andrebbero in pensione con l’età minima e assumendo un prolungamento di quattro anni, i risparmi di spesa sarebbero significativi (0,2 punti di PIL nel 2015 e 0,3 dal 2020 in poi).

Fin qui risparmi di spesa. La proposta per i pensionandi contributivi di un’integrazione in cifra fissa per ogni anno di contribuzione versata ha invece effetti di aumento della spesa pensionistica; essi dovrebbero risultare peraltro molto contenuti e più che sopravanzati dagli effetti di risparmio delle misure appena richiamate. Per esempio, nel caso di una integrazione per i contributivi a regime pari a 25 euro annui per ogni anno di contribuzione versata: l’ipotesi implica che un lavoratore con quarant’anni di contributi versati godrebbe a regime di una integrazione annua pari a 1.000 euro; per quanto riguarda l’onere, l’integrazione avrà naturalmente un’incidenza molto limitata finché le coorti contributive sono quantitativamente minoritarie, cosicché resterà nettamente inferiore ai risparmi prodotti dalle altre misure indicate; a regime (dal 2040), l’integrazione implicherebbe circa 0,4 punti di PIL in più di spesa pensionistica, meno dei risparmi a regime dovuti all’equiparazione dell’età di pensionamento delle donne. In altri termini, l’integrazione implica di per sé un limitato aumento dell’incidenza sul PIL a regime e, se combinata con le misura di risparmio indicate, implica comunque una flessione della spesa sul PIL anche a regime.


[1] Del dibattito innescato dalla riforma svedese offre un esempio il volume collettaneo del 2006 a cura della World Bank: R. Holzmann, E. Palmer (a cura di), NDC Pension Schemes: Concept, Issues, Implementation, Prospects, World Bank, Washington D.C. 2006.

[2] Fondazione Cespe, La Riforma della Previdenza Pubblica, Fondazione Cespe, Serie Azzurra: Incontri Istruttori, 13/1993.

[3] Ministero del Tesoro, Ragioneria generale dello Stato, I rendimenti impliciti della previdenza obbligatoria, in “Conti Pubblici e Congiuntura Economica”, 2/1994. Per un suo ulteriore sviluppo si veda S. Gronchi, I rendimenti impliciti della previdenza obbligatoria: un’analisi delle iniquità del sistema, in “Economia Italiana”, 1/1995.

[4] Si vedano al riguardo le riflessioni di Piero Giarda in P. Giarda, La revisione del sistema pensionistico nel 1997: come avrebbe potuto essere, in “Economia Politica: Rivista di Teoria e Analisi”, 2/1998.

[5] Nel progetto di legge Cazzola (AC 1299), per esempio, si indicano al riguardo i 67 anni.

[6] Si ringrazia Pierluigi Morelli, direttore di ricerca del CER, per aver elaborato le stime riportate di seguito.