Sul futuro delle socialdemocrazie europee

Di Antonio Negri Giovedì 08 Ottobre 2009 17:19 Stampa

Quali sono le ragioni della crisi in cui versano le socialde­mocrazie europee? La causa principale di queste difficoltà risiede probabilmente nella loro incapacità di proporre un programma politico adeguato alle trasformazioni che, ne­gli ultimi trent’anni, hanno riguardato le strutture produt­tive del capitalismo. Sebbene spesso lucide nella compren­sione delle trasformazioni che stavano alterando la natura del lavoro, le strutture dell’economia e il quadro geopoliti­co, le socialdemocrazie non hanno fatto seguire all’analisi azioni politiche e sociali adeguate.

Le socialdemocrazie europee sembrano piuttosto malmesse. Probabilmente perché, negli ultimi trent’anni, non sono riuscite a produrre un programma politico adeguato alle trasformazioni delle strutture produttive del capitalismo. È noto infatti come, a partire dalla metà degli anni Settanta, le élite globali, politiche ed economiche, abbiano giocato su due terreni una medesima battaglia: da un lato quella del superamento dell’organizzazione fordista del lavoro allo scopo di smantellare la regolazione sociale imposta dai movimenti operai e dalle socialdemocrazie già dagli anni Trenta; dall’altro lato quella per l’introduzione di un modello di “limitazione della democrazia” che puntava a costruire nuovi parametri di controllo sociale, asserviti al libero mercato e all’egemonia sociale dell’impresa. Le innovazioni tecnologiche che gravitano attorno all’automazione della produzione industriale e all’informatizzazione della società sono state estremamente importanti nel qualificare il superamento del fordismo; la finanziarizzazione massiccia dell’economia, assunta come criterio centrale – di misura e di indirizzo – nel riassetto dello sviluppo sociale della produzione, è stata l’elemento centrale per organizzare il duro controllo di una società aperta alla potenza del capitale e chiusa all’estensione della democrazia ai lavoratori e alle altre minoranze.

Le socialdemocrazie hanno indubbiamente percepito queste trasformazioni iniziate nella seconda metà degli anni Settanta, ma ne hanno letto le con seguenze sociali e politiche con grande ritardo. Non sono infatti riuscite a resistere all’offensiva avviata in Inghilterra da Margaret Thatcher né a riorientarsi dinanzi alle ricadute globali del reaganismo. Le strategie messe in atto dal neoliberalismo sono state sottovalutate, e anche quando sono state percepite sul terreno conoscitivo – nelle grandi scuole di Londra o di Parigi da tempo legate al progetto socialdemocratico – non è scattata la scintilla di una risposta politica adeguata all’offensiva neoliberale.

In primo luogo sembra che le socialdemocrazie non abbiano proposto alternative a quelle modificazioni dell’organizzazione dell’impresa e della produzione sociale che hanno trasformato radicalmente la natura del lavoro. Il lavoro ha smesso di essere prevalentemente materiale ed è divenuto sempre più ampiamente immateriale, cognitivo, comunicativo. Il sistema salariale classico è entrato in crisi, il precariato si è avviato a giocare un ruolo importante. Bisognava accettare questa trasformazione e, da un lato, convincere le organizzazioni dei lavoratori a misurarsi con essa; dall’altro, costruire nuovi orizzonti di regolazione del lavoro sia sul terreno sociale (investendo incessantemente – a garanzia dei redditi da lavoro – sul welfare come unico dispositivo capace di riorganizzare il lavoro “oltre” la fabbrica) sia, propriamente, sulla trasformazione della forza lavoro (investendo senza parsimonia nella scuola, nella ricerca e nella rifondazione dei servizi). Assumiamo che la rivoluzione neoliberale tendesse a bloccare politicamente il livello del “salario necessario”, cioè di quella misura (storicamente determinata) del soddisfacimento di bisogni delle famiglie dei lavoratori, necessaria sia per mantenere un alto grado di produzione, sia per sostenere un’adeguata riproduzione della forza lavoro complessiva. La questione (per le socialdemocrazie) era dunque non solo quella di mantenere o di aumentare le quantità, ma soprattutto quella di qualificare o di trasformare politicamente la lotta sulla misura del “salario necessario”, nel quadro della trasformazione della forza lavoro. Il salario necessario era stato sottratto, dallo sviluppo capitalistico e dall’ideologia neoliberale, all’analisi dei tempi della giornata lavorativa e sottoposto alle leggi della finanza. La conseguenza di ciò è stata che la lotta economica per il sovvertimento delle regole del salario relativo si è trasformata in lotta sociale e politica per il sovvertimento delle regole della distribuzione finanziaria, del reddito e del welfare. La rivoluzione neoliberale ha messo un prezzo sulla libertà e l’eguaglianza: esse costano, ci dicevano cinicamente Thatcher e Reagan; sono certo valori assoluti ma hanno anche una base economica determinata. Gli si sarebbe dovuto rispondere che quest’affermazione era senz’altro fondata, ma che poteva essere del tutto rovesciata. In effetti, quando il lavoro diventa intellettuale, la libertà ne è un elemento imprescindibile; quando il lavoro diventa cooperativo, l’eguaglianza ne è un elemento qualificante: sicché senza libertà e/o eguaglianza non c’è ormai più lavoro produttivo. Il lavoro diventava quindi più potente nel suo confronto con il comando capitalista. Perché non si è costruita una politica su questo terreno?

In secondo luogo, le socialdemocrazie non hanno compreso che, nella nuova organizzazione capitalistica del lavoro e della produzione, la finanza era divenuta prioritaria rispetto alla produzione diretta. Ciò è avvenuto perché i valori monetari e finanziari hanno potuto cominciare a circolare liberamente e ad organizzare la loro relativa autonomia in un mercato che tendeva a divenire globale. Ma ciò determinava anche effetti ambigui: all’inizio più in linea con l’animo borghese della politica che con quello capitalista dell’industria, poi, con conseguenze perverse. Per dirla più succintamente – malgrado ogni retorica contraria – la rendita diventava prioritaria rispetto al profitto. Questo non significa che i valori della finanza fossero solo speculativi: al contrario, la finanza si mostrava simmetrica alla produzione sociale, tanto da rappresentarne la misura (quella misura che il valore della giornata lavorativa non riesce più a costituire). Per governare una siffatta finanziarizzazione (che non era una deviazione parassitaria di quote di plusvalore, ma – come si è detto – la nuova forma di accumulazione del capitale, simmetrica ai nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore) si sarebbe dovuta reinventare la democrazia, costruire nuovi diritti di proprietà sociale dei beni comuni. Ecco dunque come bisognava intervenire e dove le socialdemocrazie non sono riuscite a farlo. Sarebbe stato necessario impostare una politica democratica della finanza, eliminare la speculazione, non per ritornare nostalgicamente alle misure della produzione industriale (e cioè a quel fantasma idiota che a destra e a sinistra chiamano la “produzione reale”) ma a una concreta e corretta dinamica finanziaria della produzione sociale. Molte analisi assumono oggi a loro oggetto il contesto “bioeconomico”, cioè l’integrazione di vita, società e produzione come base materiale dell’analisi economica – ma anche, e soprattutto, come terreno specifico dell’intervento democratico di regolazione. Quando la finanza viene lasciata da sola, quando non viene regolata democraticamente, diventa puramente e semplicemente, e in maniera inevitabile, una forma della rendita (cioè un fenomeno parassitario, privato, geneticamente collegato all’individualismo proprietario – da questo rivendicato con arroganza – tanto più infame quanto più la produzione diventa sociale). Si può aggiungere a questo proposito che le privatizzazioni (così generosamente autorizzate dalle socialdemocrazie) anziché sostenere l’espansione degli investimenti hanno costruito e permesso ulteriori posizioni di rendita.

Le socialdemocrazie non hanno inoltre, a partire dagli anni Settanta, minimamente compreso il configurarsi di un nuovo quadro geopolitico, sia sul terreno intensivo-istituzionale della crisi della sovranità nazionale, sia sul conseguente quadro politico degli equilibri internazionali. Cosa si vuol dire con questo? Per rispondere basta fare un solo esempio: la questione europea. Il costruirsi lungo gli anni Ottanta di una nuova dimensione geopolitica globale (definitasi conclusivamente dopo il 1989) ha determinato, accanto all’indebolirsi del concetto di sovranità nazionale, l’urgenza di fissare dei poli efficaci di organizzazione politica internazionale; per le socialdemocrazie europee, una forte soggettivazione di tipo globale non poteva che realizzarsi attorno all’Unione europea come istituzione politica. Credete che le socialdemocrazie l’abbiano fatto? Assolutamente no. Hanno mantenuto, prima e dopo il 1989, il concetto di Europa dentro la prospettiva atlantica, non hanno mai contestato, anzi hanno esaltato, nel periodo delle guerre jugoslave, l’importanza dei nodi scorsoi con l’utilizzo dei quali la NATO ha strozzato l’Europa. L’Europa dell’Est non è stata conquistata dall’ideale e dalle istituzioni europee ma annessa dalla NATO. Tutto questo ha avuto conseguenze disastrose. L’incapacità di costruire in modo coerente un soggetto europeo ha tolto alle socialdemocrazie l’ultima possibilità di salvare il salvabile a vantaggio dei lavoratori, di mantenere i compromessi sociali del secondo dopoguerra. Oggi, un Dany Cohn-Bendit qualsiasi può irridere la socialdemocrazia, agitando il “feticcio Europa” dal punto di vista di un interesse interclassista privo di principi! Ed è una fortuna che lo faccia, così almeno l’Europa potrà organizzarsi, nell’ordine globale, come una bella Svizzera grassa e impotente, come appunto, per un paio di secoli, è stata la Confederazione elvetica nell’ordine europeo. Il fatto è che tutto questo, oltre che sulla scena internazionale, non solo non basta, ma produce effetti perniciosi all’interno dell’Europa stessa: si assiste così al pullulare immondo di piccoli potentati locali, velleitari, identitari e populisti. Sono queste le vere basi che sostengono oggi la politica atlantica in Europa; sono queste le forze che svuotano ogni possibilità di reinventare una politica globale dell’Europa nel nuovo ordine mondiale (e nella crisi dell’unilateralismo statunitense). Le socialdemocrazie sembrano responsabili di questa involuzione complessiva.

Oltre alla relativa crisi del principio di sovranità, le socialdemocrazie non hanno neppure inteso la “crisi del governo”. In genere pensano ancora che un governo nazionale, costituito da un insieme di strutture istituzionalmente e costituzionalmente garantite, basti per governare. Di qui il feticismo per l’unità amministrativa dell’ordinamento, per le tradizioni costituzionali, per l’indipendenza della magistratura, solo per parlare dei temi più importanti. Ma oggi, e le socialdemocrazie sembrano non essersene accorte, non si governa più all’interno degli Stati-nazione, al massimo si esercita governance. Quindi, quando sono maggioritarie, le socialdemocrazie tentano di imporre il governo e falliscono. Quando sono minoritarie, non fanno altro che opposizione ideologica. Ma – verrebbe da aggiungere attraverso un piccolo paradosso – essere minoritari nella governance è, in una fase di crisi dei regimi rappresentativi, quasi meglio che essere al governo. L’esperienza infatti ci insegna che si possono vincere le elezioni con grandi margini di vantaggio e non riuscire a governare: Obama docet. Al contrario, è possibile, a forze scaltre, di relativa potenza, aprire continuamente focolai di resistenza (a fronte di una maggioranza), sia sul terreno sindacale sia sul terreno ecologico, sul terreno educativo come sul terreno sociale: ed è divertente notare come i Verdi tedeschi, come quelli francesi, proprio sul terreno della governance riescano ad essere trasversalmente efficaci, sia quando siedono al governo sia quando non vi partecipano – e ciò senza teoria né prassi sociale solidamente costituite, semplicemente sulla base di un radicato opportunismo. Le socialdemocrazie hanno invece inopportunamente dismesso ogni rapporto di discussione, di alleanza e/o di “cinghia di trasmissione” con le organizzazioni sociali della forza lavoro e della società, e, di conseguenza, sono risultate sistematicamente incapaci di attaccare le forze di destra e di centro per il loro legame organico con i potentati economici nazionali e transnazionali.

Si può riconoscere che la reazione delle socialdemocrazie alla crisi degli anni Settanta e Ottanta non è stata lineare né omogenea. È stato soprattutto il New Labour ad anticipare un po’ tutti sul terreno della percezione delle trasformazioni in corso. I partiti socialdemocratici scandinavi si sono anch’essi mossi con coerenza rispetto alla percezione della crisi del fordismo e all’irreversibilità dei tessuti sociali produttivi definiti dalla nuova organizzazione dell’impresa, del mercato e della finanza. Ma alla comprensione della trasformazione è seguita solo la deriva politica. È mancata ogni fiducia nel fatto che quella realtà potesse essere modificata. Le socialdemocrazie hanno aborrito il rischio, l’idea stessa di cimentarsi nel costruire dell’altro, per non parlare di produrre un progetto di trasformazione. È così che, dopo il 1989, si è aperto un vero e proprio precipizio. La forza che ancora le socialdemocrazie riuscivano ad esprimere come puntello al potere borghese contro la minaccia sovietica è venuta meno, la loro funzione parlamentare e sindacale si è ridotta al minimo. I grandi poteri hanno distrutto le parole d’ordine di una socialdemocrazia che non andava al di là di una proposta oscillante fra mercato “equamente regolato”, ordine pubblico e polizia “democratici”, “moralità” della mediazione partitica. Buone parole, al posto di qualsiasi linea politica che non fosse, ancora e sempre, l’assoggettamento alla NATO e a un modello capitalistico considerato immodificabile e insuperabile.

Questo per quanto riguarda il passato. E per il futuro? Non possiamo sapere se le socialdemocrazie avranno il tempo per svegliarsi dal loro disilluso torpore, o meglio, dal loro sonno post dogmatico, ma sembrano essere nella stessa condizione nella quale si trovò Gorbaciov quando tentò di scuotere l’URSS dalla glaciazione brezneviana. Con quali mezzi, con quali idee potrebbero le socialdemocrazie affrontare oggi positivamente la crisi in atto, che a tutti sembra gravissima e che il presidente brasiliano Lula ha definito “una crisi di civiltà”? Se (per procedere sommariamente) ci limitassimo ai punti sviluppati sopra, si potrebbe dire che le socialdemocrazie dovrebbero impegnarsi nell’organizzazione del lavoro cognitivo, né più né meno, cioè nell’organizzazione del nuovo proletariato che, attorno alle condizioni immateriali e cooperative del lavoro, produce oggi ogni eccedenza di valore. Dovrebbero attrarre i sindacati nell’orbita delle lotte sulla nuova produttività sociale, al di là di ogni remora corporativa, dentro e contro i processi di precarizzazione del lavoro e di differenziazione del salario, costruendo valori comuni a tutti i lavoratori (se c’è un’alleanza prioritaria da determinare è quella fra operai e lavoratori cognitivi). C’è inoltre il problema di organizzare una nuova distribuzione “welfarista” dei redditi: una distribuzione che deve (come tutte le vere distribuzioni fanno) operare sui processi produttivi. Si tratta di costruire una politica di “produzione dell’uomo per l’uomo”, vale a dire di strumenti e di finalità produttivi che puntino sull’aumento della capacità dei cittadini di essere liberi ed eguali.

Le socialdemocrazie dovrebbero anche costruire un nuovo controllo democratico del sistema finanziario. Non solo di quello che si rappresenta nelle banche (che è cosa da fare finché dura la crisi) ma soprattutto di quello che è legato ai processi di investimento, alle dimensioni generali del rapporto fra impresa e mercato, fra produzione diretta e condizioni sociali della produzione. Si tratta non solo di garantire la giusta simmetria dei valori finanziari rispetto alla produzione sociale: il compito è quello di reinventare strumenti democratici di Big Government, rendendo permanenti gli strumenti che sono stati utilizzati nei momenti più acuti della crisi. Paul Krugman ha più volte insistito giustamente su questo passaggio e crediamo che sia uno dei pochi economisti che oggi, alla previsione del ciclo, sappia aggiungere una corretta individuazione delle misure di intervento politico e di exit-politics che non instaurino, con la riproduzione del privilegio, nuovi accelerati cicli di crisi. Ma è chiaro che il problema fondamentale resta quello della rendita: bisogna distruggerla e restituirne i valori alla comunità; questa è oggi la prima condizione di ogni elementare avanzamento democratico. È evidente che, in questo quadro, le politiche fiscali vanno interamente ripensate e riconfigurate sulla produzione sociale, senza evidentemente perdere le grandi conquiste democratiche legate al principio di progressività dell’imposta, ma destinandole all’eliminazione della rendita. Le socialdemocrazie dovrebbero inoltre mettere l’unità dell’Europa al centro del loro discorso politico. Senza istituzioni europee non esiste, in questa fase di crisi dell’unilateralismo americano, alcuna possibilità di autonomia politica. La rottura del vincolo atlantico è fondamentale, sia dal punto di vista della sicurezza, dei rifornimenti energetici e in generale del governo dei flussi produttivi sul mercato mondiale (per non parlare della lotta contro la povertà); sia – ed è la cosa più importante – dal punto di vista della ricostruzione di un orizzonte politico comune per le popolazioni europee. Non c’è prezzo che su questo terreno non possa essere pagato. I contenuti culturali dell’umanesimo europeo e le grandi tradizioni progressiste del movimento operaio possono essere innovate solo sul terreno europeo.

E poi, e questo è il punto cruciale, le socialdemocrazie dovrebbero essere capaci di coraggio. Non si chiede il coraggio di Lenin né quello di Roosevelt; basterebbe quello del buonsenso. Per proporre e per provare a fare quel che si è detto sopra non occorre un grande sforzo: basta semplicemente ascoltare il mondo del lavoro e quello del sapere. Poi, come prima indicazione, dal punto di vista della teoria costituzionale, avere coraggio potrebbe significare rinunciare ad ogni modello di bipolarismo destra-sinistra che, nella situazione attuale, è del tutto inappropriato; nella prospettiva della governance, avere coraggio potrebbe significare rinunciare ad ogni modello di bipartitismo, mostrando piuttosto lealtà costituzionale alla pluralità delle spinte sociali e politiche per il rinnovamento. Si tratta di uscire dalla political science e dalle sue arguzie conservatrici, e di riscoprire le grandi linee della produzione di soggettività nel mondo intellettuale e sociale del lavoro. Ragionare sulle nuove forme e sui nuovi soggetti della lotta di classe (dal punto di vita sociologico) non sarà forse inutile alle socialdemocrazie, programmare uno scontro sul terreno sociale (dal punto di vista politico) sarà forse utile e produttivo. Le socialdemocrazie dovrebbero ricordare che, in Italia, ad esempio, senza il luglio del 1960 non si sarebbero mai risollevate dall’aprile del 1948.