Lo sviluppo economico della Russia: dal miracolo alla crisi

Di Vladimir Mau Giovedì 08 Ottobre 2009 19:28 Stampa

La sfida strategica che si pone di fronte alla Russia e al suo governo nella crisi attuale consiste nella crea­zione di condizioni per l’attuazione di riforme strut­turali fondamentali per frenare la dipendenza dalla domanda mondiale di combustibili, di materie prime e di prodotti a basso livello tecnologico. È possibile risolvere questo problema riducendo la subordina­zione della Russia dall’andamento dell’economia dei paesi più sviluppati. A questo scopo è necessario com­piere alcune significative riforme strutturali.

Nel 2008 in Russia, così come in diversi altri mercati emergenti, la fiducia nel miracolo economico si è tramutata nell’attesa di un collasso. Tra le principali cause della crisi si segnalano, in particolare, la caduta dei prezzi del petrolio e di altre materie prime destinate all’esportazione, la comparsa di un deficit della bilancia dei pagamenti e l’accentuazione della dipendenza del paese dall’afflusso di investimenti stranieri, il rapido aumento del debito estero delle imprese russe e l’elevata probabilità che, di fronte all’arrivo di una nuova fase di instabilità, esse non siano in grado di far fronte al proprio indebitamento senza aiuti di Stato, come pure la dubbia efficacia di molti progetti di investimento avviati in seguito al boom e difficilmente in grado di resistere ad un periodo di recessione. È molto importante notare come in Russia, per otto anni, si sia affermata una generazione di politici abituati a gestire la “crescita del benessere” e priva dell’esperienza necessaria per affrontare una crisi economica globale; questa convinzione è sempre più diffusa tra i cittadini.2

 

Peculiarità di una crisi emergente

In primo luogo si pone la questione della natura della crisi. Poiché gli eventi si sono sviluppati molto rapidamente e hanno richiesto un costante ripensamento, tutte le stime in merito hanno un carattere preliminare. L’élite politica ed economica russa, nel corso degli ultimi otto anni, si è preparata scrupolosamente ad affrontare una crisi come quella del 1998, sforzandosi di non ripetere gli errori del passato. In larga misura è riuscita in questo intento; ma quella attuale ha un carattere diverso. La crisi di dieci anni fa fu causata da fattori interni (la debolezza del potere politico, incapace di condurre una politica macroeconomica – soprattutto fiscale – responsabile). Ora, per la prima volta negli ultimi cento anni, in quanto parte di un sistema economico e finanziario globale, la Russia, che sta progressivamente diventando un normale paese ad economia di mercato, deve fare i conti con una crisi globale.

Per la verità, la crisi che si palesa chiaramente davanti ai nostri occhi va ben oltre il normale andamento ciclico. Se ne possono rilevare tre importanti caratteristiche.

In primo luogo, poiché iniziata nel contesto della globalizzazione, la crisi attuale risulta essere senza precedenti per quanto riguarda le sue dimensioni, e coinvolge praticamente tutti i paesi e le aree che si stavano sviluppando in modo dinamico. Colpisce principalmente le aree che avevano registrato i maggiori successi negli ultimi dieci anni mentre le aree e i paesi in fase di stagnazione ne sono colpiti in misura minore. Anche per quanto riguarda la situazione dell’economia interna ai singoli paesi, Russia compresa, i problemi più gravi si verificano là dove c’è stato un boom economico, mentre le regioni depresse quasi non avvertono i cambiamenti. Questo complica notevolmente il processo di uscita dalla crisi. Non è chiaro infatti chi sarà in grado di diventare la “locomotiva” della ripresa e della crescita.

In secondo luogo, la crisi attuale ha natura strutturale, ovvero presuppone un serio aggiornamento della struttura economica mondiale e della sua base tecnologica.3 Benché sia difficile dire quali cambiamenti strutturali si verificheranno, il loro effetto sarà quello di una redistribuzione dei rapporti di forza settoriali e regionali.

Infine, questa crisi ha un carattere innovativo. Negli ultimi anni molto è stato detto circa l’importanza dell’innovazione e dello spostamento dell’economia verso una strada innovativa di sviluppo: questo è esattamente ciò che è accaduto nella sfera economico-finanziaria, dove sono sorti e si sono rapidamente diffusi nuovi strumenti del mercato finanziario che, sul momento, sembravano in grado di creare le condizioni per una crescita infinita. Ma, come adesso è emerso chiaramente, molti leader del mondo finanziario avevano un’idea sbagliata in proposito, il che ha determinato un duplice effetto. Da un lato, le innovazioni finanziarie hanno notevolmente trasformato alcuni mercati, in particolare quelli delle materie prime più importanti. Il prezzo del petrolio è sempre stato poco prevedibile, ma dipendeva dal rapporto tra domanda e offerta e quindi, in una certa misura, veniva controllato dalle politiche dei principali produttori di petrolio, come è stato dimostrato da alcuni accadimenti del passato. Ad esempio, l’impennata dei prezzi del 1973 o le politiche petrolifere adottate a seguito della riduzione dei prezzi nel 1986, gestiti dai principali paesi esportatori di petrolio. Attualmente, con lo sviluppo degli strumenti finanziari dei mercati secondari, la situazione è cambiata radicalmente. Ora il prezzo del petrolio non dipende quasi più dalle politiche dei produttori e reagisce in modo debole agli sforzi dei membri dell’OPEC e degli altri paesi produttori. Oggi il prezzo del petrolio si forma sui mercati finanziari anche tramite strumenti derivati e tiene conto delle politiche di gestione degli intermediari finanziari e degli operatori legati alle forniture di petrolio. Il mondo non solo è piatto, per utilizzare l’espressione di Thomas Friedman, 4 ma è anche virtuale, poiché i principali indicatori economici si basano sui mercati degli strumenti finanziari derivati. È difficile che questa situazione persista ancora a lungo, perché prima o poi si manifesteranno un deficit o un surplus reali di ricchezza. Per il momento è necessario accettare il ruolo che il notevole rafforzamento dei fattori virtuali ha nella formazione dei principali rapporti economici. D’altro canto, per quanto riguarda il boom dell’innovazione finanziaria, l’élite economica e politica ha perso il controllo sulla circolazione degli strumenti finanziari. Per questo l’attuale crisi può essere definita come una rivolta dell’innovazione finanziaria, una rivolta delle macchine contro i propri creatori. Questo è un fatto negativo, ma è già successo. È gia accaduto, ad esempio, con la banca Barings, fallita nel 1995 a causa delle operazioni effettuate da Nick Leeson: si è trattato di un presagio della crisi inviato al mondo finanziario ma che, purtroppo, non è stato capito.

La natura e i meccanismi dei grandi sconvolgimenti economici sono sempre, fino alla fine, misteriosi e imperscrutabili. Le grandi crisi degli ultimi decenni sono diventate oggetto delle discussioni di economisti, politici e storici, e sono stati loro dedicati centinaia di articoli di ricerca e migliaia di tesi. Nello stesso tempo, identiche risposte non possono essere trovate nella storia economica. Il fenomeno della Grande depressione del 1930 non ha ricevuto una spiegazione definitiva; difatti continuano le discussioni anche sulle sue ragioni e sull’adeguatezza dei provvedimenti anticrisi di Franklin Delano Roosevelt.

 

Cause della crisi

Analizzando l’evolversi della crisi che è davanti ai nostri occhi è opportuno esaminare separatamente i tre gruppi di cause da cui essa deriva: in primo luogo, i problemi specifici dell’economia americana; in secondo luogo, i sistemi e i problemi fondamentali dell’attuale sviluppo economico; infine, le condizioni specifiche della Russia. Questi fattori agiscono in direzioni diverse, e il contrasto alla crisi dovrebbe tener conto di tutti e tre questi gruppi.

Nel discutere le cause della crisi attuale, in Russia vengono spesso criticati l’operato degli Stati Uniti e le inadeguate politiche fiscali e monetarie di questo paese. Prima di tutto, è evidente la realizzazione di una politica prociclica in seguito alla recessione del 2001 quando, anche in condizioni di crescita economica, l’America ha continuato a perseguire un aumento del deficit, invece di tornare alla politica clintoniana del pareggio di bilancio. Ciò si è riflesso, in particolare, in una politica di bassi tassi d’interesse, che sono rimasti tali a lungo, anche durante il periodo della ripresa economica (Grafico 1).

GRAF1

Tale andamento prevedeva uno stimolo artificiale della crescita economica, particolarmente importante per i paesi dell’Occidente alle prese con gli alti tassi di sviluppo della Cina. Per questo molti governi hanno attuato misure finalizzate a stimolare la crescita. Nello stesso tempo, il problema del “surriscaldamento” dell’economia non è sembrato attuale: secondo alcuni, i tempi della Grande depressione erano ormai molto lontani. In questa logica rientra anche il problema collegato alla gestione russa del “raddoppiamento del PIL” per dieci anni, come anche l’accento posto principalmente sulla realizzazione di obiettivi quantitativi. Se nella versione russa una politica simile si basava sull’esistenza di potenzialità non utilizzate, abbandonate dopo la crisi del 1990, e su un enorme afflusso di petrodollari, l’economia degli Stati Uniti doveva invece, parallelamente, svilupparsi fra due guerre, che non potevano essere finanziate senza un disavanzo di bilancio.

Fattore indipendente di crisi è stata, inoltre, una crescita economica senza precedenti che, nell’arco di cinque anni, ha aumentato di un quarto il PIL mondiale. Nel corso di un tale incremento, inevitabilmente si accumulano contraddizioni sistemiche, invisibili a causa della crescita del benessere. E, cosa ancora più importante, perfino avendo coscienza di queste contraddizioni è molto difficile intervenire e correggere qualcosa: effettivamente, perché intraprendere azioni restrittive o correttive quando tutto va a meraviglia? Ogni volta che in tali situazioni di espansione qualcuno comincia a lanciare avvertimenti o a mettere in dubbio la correttezza del percorso intrapreso, riecheggia una voce fiduciosa: «Questa volta sarà tutto diverso» («This time it’s different»).

Oltre ai nuovi strumenti economico-finanziari, vi è anche un altro aspetto della globalizzazione che è considerato come una fonte inesauribile di successo finanziario e di crescita sostenuta. Questo fenomeno è stato definito da Niall Ferguson “Chimerica”: una combinazione di Cina e America. Si tratta della formazione di squilibri globali che per decenni sono stati considerati alla base dell’equilibrio e della sostenibilità della crescita mondiale. Così si è costituito un sistema contrario al modello di globalizzazione del XIX-XX secolo: se un centinaio di anni fa il capitale si spostava dal centro (paesi sviluppati) alla periferia (i mercati emergenti a quel tempo), ora i mercati emergenti sono diventati centri di risparmio, mentre gli Stati Uniti e gli altri paesi sviluppati sono prevalentemente consumatori.5

Infine, l’evoluzione della crisi ha ancora un presupposto fondamentale. Negli ultimi quindici-venti anni, le finalità del business hanno subito notevoli trasformazioni. La crescita della capitalizzazione è diventata il parametro di riferimento dello sviluppo della società. Proprio questo indicatore, più di tutti, ha interessato gli azionisti, e proprio tramite questo si stima oggi l’efficacia di una gestione. La volontà di massimizzare la capitalizzazione non è però coerente con il reale progresso socioeconomico e/o con la crescita della produttività del lavoro. L’aumento della capitalizzazione è, ovviamente, collegato ad essi, ma solo in ultima analisi. Tuttavia, di fronte agli azionisti, i manager preferiscono puntare sulla crescita (di breve periodo) della capitalizzazione di borsa delle aziende piuttosto che assicurare un incremento della produttività sul lungo periodo. Per una buona comunicazione sono necessarie fusioni e acquisizioni, in quanto l’aumento delle attività contribuisce alla crescita della capitalizzazione. E, naturalmente, non si bada a chiudere le aziende che rimangono perché questo porterebbe ad una sua diminuzione. Ne risulta che molte grandi società industriali mantengono lo stesso livelli di produzione inefficiente.

Questa situazione è ben nota all’esperienza sovietica, la cui caratteristica più importante è stata la “lotta per il piano industriale”. Le aziende preferivano realizzare prodotti obsoleti, piuttosto che passare a produrne di nuovi perché un rinnovamento avrebbe provocato una riduzione della produzione di unità (in kg, metri, rubli) e quindi non avrebbe garantito la realizzazione e il superamento dell’obiettivo pianificato. Si parlava allora di feticismo della pianificazione.6

Oltre ai generali fattori di instabilità, ci sono poi motivi specifici per la rapida diffusione della crisi in Russia. Essa si è estesa rapidamente in paesi che si distinguevano per una situazione macroeconomica particolarmente favorevole, caratterizzata da un doppio segno positivo (del bilancio e della bilancia dei pagamenti). Ciò, per la Russia, ha rappresentato un fattore importante, capace di attrarre capitali dall’estero e, di conseguenza, di creare nuovi posti di lavoro. Naturalmente, con l’inizio della crisi si è verificato il fenomeno opposto: la contrazione del credito ha immediatamente portato ad un calo dei corsi di borsa. Parallelamente, è apparso chiaro che il mercato azionario russo, nonostante la rapida crescita del periodo 2004- 07, rimane ancora un mercato in fase di sviluppo caratterizzato da scarsa liquidità.

GRAF2

Come mostra il Grafico 2, in seguito alla caduta dei corsi di borsa, gli indici azionari hanno raggiunto approssimativamente i livelli che si sono registrati prima della fase di forte rialzo del 2005. L’immagine che ne risulta, simile ad un triangolo, riflette chiaramente la formazione di una bolla nel mercato finanziario che ha portato ad un aumento degli squilibri nella fase di boom.

Si è rivelata anche qui l’inefficienza della struttura dell’economia e delle esportazioni. In una fase di recessione la posizione dominante dei mercati delle materie prime e degli investimenti nelle esportazioni comporta un aumento del disavanzo della bilancia dei pagamenti del paese in una misura ancor più dipendente dalle fluttuazioni cicliche rispetto a quanto potrebbe avvenire in un paese con un’economia diversificata. Il rallentamento della crescita e il calo dell’attività degli investimenti nei paesi importatori comportano un brusco arresto sui mercati delle materie prime. Così si è realizzato l’effetto speculare del fenomeno in cui la Russia si è imbattuta dopo l’esperienza del 1998. L’accelerazione dello sviluppo dell’economia mondiale ha creato la domanda di prodotti “made in Russia”, il che ha portato all’epoca (in una fase in cui era appena cominciata la crescita dei prezzi energetici) ad un boom economico. Si è parlato molto della necessità di una diversificazione strutturale, ovviamente, ma nelle condizioni di espansione economica nessuno è stato in grado di occuparsi seriamente di questo problema (Grafico 3).

GRAF3

L’aumento dei prestiti concessi alle imprese ha costituito un grave problema. Molte aziende indebitate sono strettamente legate al settore pubblico e operano nella logica della privatizzazione dei profitti e della nazionalizzazione delle perdite. Così sono percepite anche dal mercato finanziario, per il quale è evidente che in tempi di crisi la maggior parte delle aziende indebitate potrebbe avvalersi del sostegno del bilancio federale. Tanto più che si prospetta un’ipotesi di rischio morale (moral hazard), nota fin dai tempi della crisi asiatica del 1997, quando era possibile gestire il denaro in modo irresponsabile e concedere credito senza una motivazione adeguata. Ma tocca proprio allo Stato salvare i debitori in caso di crisi economica. Si può parlare di un’accentuazione della tendenza “chaebolista” da parte di numerose importanti aziende russe, per riprendere l’esempio della Corea del Sud e dei cosiddetti chaebol, ossia di quelle aziende che si trovavano sotto il controllo governativo di fatto e che si ispiravano al principio e alla pratica della privatizzazione dei profitti e della nazionalizzazione delle perdite.

Nel 2007 si è verificato un importante cambiamento nella dinamica del debito estero: se fino a quel momento gli interessi sul debito complessivo (pubblico e privato) erano diminuiti, essi hanno iniziato a crescere. Questo ha notevolmente aumentato la dipendenza della Russia dall’andamento del mercato finanziario globale, e ben presto ha portato alla diffusione di una vera e propria crisi (Grafico 4). Puntare sull’attività delle aziende pubbliche indebitate sarebbe stato ancora un altro errore: queste aziende hanno facilmente accesso alle garanzie anche se i successi dell’economia russa degli ultimi anni in molti casi hanno permesso di rinunciarvi. In seguito alla crisi esse si sono trovate di fronte ad un rapido calo del loro valore (aveva iniziato ad avere effetto il meccanismo dei margin calls, le richieste di ricostituzione delle garanzie a causa della loro svalutazione) e alla concreta minaccia di perdere i propri assets.

Questa situazione ha avuto un grande impatto sulla formazione del bilancio e della politica dei cambi. Da un lato, la presenza di un ingente debito da parte di importanti attori economici, spesso con una attività di importanza strategica, limitava la possibilità di un calo del tasso di cambio del rublo che avrebbe potuto portare ad un forte aumento del prezzo del servizio del debito estero. Dall’altro lato, è stato necessario ricorrere a risorse pubbliche per aiutare finanziariamente i debitori a far fronte al rimborso del debito.

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La risposta alla crisi

La crisi ha provocato una scossa nell’élite del mondo economico e politico. Nessuno si aspettava un effetto simile, né uno sviluppo tanto rapido. 7 La prima risposta alla crisi è stata piuttosto caotica: i governi dei paesi sviluppati hanno cercato di rallentarne la diffusione. La priorità è stata quella di affrontare due gruppi di problemi: in primo luogo, evitare il collasso del sistema bancario, ovvero, salvare gli istituti finanziari; in secondo luogo, tentare di scongiurare o almeno attenuare la recessione, per sfuggire all’ipotesi di una drastica caduta della produzione.

Alcuni paesi economicamente sviluppati, temendo il crollo del sistema bancario e uno shock deflattivo, hanno preso misure aggressive per sostenere e incoraggiare le attività industriali. Tra le più importanti vi sono la fornitura di liquidità, l’estensione delle garanzie sui depositi bancari delle persone fisiche, la nazionalizzazione di alcune banche, una decisa riduzione dei tassi di rifinanziamento, l’adozione di piani di sviluppo (iniezioni di liquidità per stimolare la domanda nell’economia reale). Allo stesso tempo, i governi di molti paesi sono andati incontro alla svalutazione della moneta nazionale nei confronti del dollaro statunitense (Grafico 5), allo scopo di facilitare il mantenimento delle riserve internazionali e stimolare la produzione interna. Un’analisi della logica e dell’efficacia di queste misure va oltre l’ambito di questo articolo; tuttavia il problema fondamentale consiste nel fatto che esse possono comportare una grave destabilizzazione macroeconomica.

 

Politiche keynesiane

La popolarità delle ricette keynesiane è cresciuta rapidamente non appena la crisi ha cominciato ad estendersi.

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A causa del suo carattere improvviso e della sua entità si sono adottate misure anticrisi confuse, la maggior parte delle quali contrastava con dottrine economiche e tradizioni politiche che solo poco tempo prima sembravano eterne e immutabili. «È stato l’anno in cui le etichette politiche hanno perso il loro significato. Se i governi, accantonate le diverse convinzioni, nazionalizzassero le banche e gonfiassero l’economia con la moneta, allora, che cosa distinguerebbe oggi la destra dalla sinistra, i liberali dai conservatori, i socialisti dai capitalisti, i keynesiani dai monetaristi?».8 La frase «We are all Keynesians now» («Oggi siamo tutti keynesiani») pubblicata sulla copertina del “Time” agli inizi degli anni Sessanta, è ancora una volta tornata popolare. Come quasi mezzo secolo fa, il nome di Keynes è ora usato come un simbolo di interventismo statale, il contrario del liberismo economico, senza riguardo a ciò che il grande economista ha scritto e pensato in realtà. Come quando la stessa frase fu ripresa da Richard Nixon per giustificare, tramite la citazione del nome dell’autorevole economista, l’introduzione della regolamentazione statale dei prezzi, sebbene lo stesso John Maynard Keynes non avrebbe condiviso le politiche economiche del governo statunitense di quel momento. Altri, scettici rispetto ad un ripensamento della politica economica, non condividono una simile “keynesianizzazione collettiva”; Peer Steinbrueck, il ministro delle Finanze tedesco, tra l’altro un socialdemocratico, ha definito le azioni dei suoi partner europei «crass Keynesianism» (un «volgare keynesismo»).

Se si prescinde dalla storia del termine keynesismo, la maggior parte delle decisioni che ad esso si richiamano, in un modo o nell’altro, si colloca entro le seguenti categorie: dirigismo, socialismo e populismo. Si tratta di termini interdipendenti, ma non identici.

Alle misure dirigiste appartengono l’adozione di decisioni individuali da parte degli organi statali, la scelta dei diritti e degli obblighi, così come la disponibilità dello Stato a indicare agli operatori economici quali servizi dovrebbero fornire e quali merci dovrebbero produrre. È la situazione che si è creata con Lehman Brothers, da un lato, e Bear Stearns, AIG e Citibank dall’altra, e su cui è difficile dare un’interpretazione di mercato. Le autorità hanno deciso di mandare in fallimento alcuni e di aiutare altri, come sarebbe avvenuto in un’economia statalista.

Il passo successivo, del tutto naturale, diventa quindi l’adozione di decisioni governative relativamente al carattere delle attività degli istituti nazionalizzati. Gordon Brown ha dichiarato che spingerà le banche finite sotto il suo controllo a investire più risorse nelle piccole imprese. Anche le banche russe necessitano di tali interventi indipendentemente dal modo in cui la crisi ha colpito la qualità del loro credito. Il sostegno alle piccole imprese è ovviamente una cosa giusta, favorita da tutti i governi moderni. Tuttavia è facile prevedere gli effetti di questo tipo di soluzioni: se la autorità politiche daranno istruzioni alle banche su come investire il denaro, dovranno dimostrare il loro sostegno a tali istituti quando questi condizionamenti politici sulle scelte di investimento risulteranno inefficaci. Ciò implica un circolo vizioso nell’economia fra sostegno statale e inefficacia degli investimenti.

Alle misure socialiste appartiene la socializzazione (o nazionalizzazione) dei rischi. Salvando i debitori, aumentando il capitale delle banche e le garanzie sui depositi lo Stato si assume i rischi legati alle decisioni di tutti i principali protagonisti della vita economica: banche, correntisti, debitori. Si mette così in dubbio un principio fondamentale del capitalismo, e cioè la responsabilità individuale per le decisioni prese. Relativamente alla situazione russa, si può affermare che la politica di nazionalizzazione delle perdite rende ulteriormente inevitabile la nazionalizzazione dei rischi. Si inizia questo processo nel settore bancario, ma attraverso le banche le garanzie si diffondono anche in altre aziende e settori.

Anche il rapporto di proprietà, il caposaldo dell’intero sistema economico-sociale, subisce una seria trasformazione. Quando si fornisce assistenza finanziaria, si determina una reale nazionalizzazione delle aziende che versano in una situazione di crisi. La nazionalizzazione è effettuata dopo aver adottato misure drastiche lungo tre direttrici: accollandosi il debito delle singole imprese, ricapitalizzandole in cambio di azioni o mediante l’inflazione dei ratei passivi. Lo Stato è propenso a prendere su di sé tutti i passivi (obbligazioni) delle istituzioni finanziarie, fornendo garanzie o attuando un’immediata iniezione di capitale. Naturalmente, l’aiuto agli istituti finanziari comporta una formale o effettiva riduzione dei pacchetti degli attuali azionisti. Pertanto, come detto in precedenza, viene messo in dubbio il diritto di proprietà privata.

Crescono inoltre i rischi di populismo. L’inizio di una recessione intensifica considerevolmente le richieste di aiuto da parte dei produttori. È divertente leggere, ai giorni nostri, le raccomandazioni, ben conosciute dall’esperienza russa degli anni Novanta, delle relazioni analitiche delle banche occidentali, che conservano la pretesa del mantenimento di un ampio budget e di un’espansione monetaria che potrebbero contribuire a sostenere la domanda aggregata. Se la Russia o qualsiasi altro paese con un mercato in crescita fosse intervenuto con queste proposte più recentemente, gli analisti avrebbero reagito con una dura critica e sarebbero stati assolutamente nel giusto.

La distribuzione del denaro a basso costo ai produttori, in una situazione simile, sarebbe pericolosa, perché accelererebbe inevitabilmente l’inflazione. A questo proposito emerge una considerevole differenza tra la situazione russa e quella americana. La Russia (come la maggior parte degli altri paesi) non può stampare una valuta di riserva mondiale. Per tale motivo, in questo paese, il populismo monetario non stimolerà la crescita ma provocherà una fuga dal rublo.

La “svolta a sinistra” osservata nei paesi con una radicata tradizione capitalista ricorda il rapido passaggio dal comunismo di guerra alla NEP. Nel marzo del 1921 niente lasciava presagire il rifiuto dei rigidi modelli nei quali si intravedeva l’inizio della realizzazione del sogno comunista. E improvvisamente, alcune settimane dopo, arrivò un drammatico passaggio verso il ripristino delle relazioni di mercato. Cosa era successo? La potenza sovietica sembrava essere sull’orlo della distruzione e le cause della rivolta di Kronštadt furono giustamente comprese dalla dirigenza bolscevica. La nuova politica economica doveva eliminare i conflitti, ridurre le tensioni sociali, ristabilire la crescita economica. La NEP, secondo le parole di Lenin, veniva introdotta «seriamente e a lungo», ma non «per sempre».

Tornare al socialismo pare senza dubbio un tentativo di guadagnare tempo per una pausa, per reinterpretare alcuni concetti. È ancora troppo presto per giudicare se si tratterà di un lungo periodo di tempo, ma certamente non sarà per sempre. Qualunque Stato eccessivamente regolamentato contrasta con il carattere flessibile e dinamico delle forze produttive dell’epoca postindustriale, così come la forza del mercato non rispondeva agli obiettivi dell’industrializzazione accelerata degli inizi del XX secolo. Proprio per questo, il modello di mercato della NEP fu abbandonato dopo pochi anni. È difficile che per le attuali tendenze stataliste-socialiste si possa utilizzare l’espressione “seriamente e a lungo”.

Quanto durerà questa “neo-NEP” statalista? Una rapida uscita dalla crisi renderà, prima di tutto, inutile la maggioranza delle misure di regolamentazione sociale. Il carattere duraturo della crisi (che sembra più probabile) libererà velocemente dall’illusione che l’intervento statale nell’economia (crass Keynesianism) sia in grado di guarire i dissesti del mercato. Ancora oggi è evidente l’incongruenza logica dell’affermazione secondo la quale la crisi avrebbe dimostrato la necessità di una regolamentazione statale più attiva: dopotutto, lo Stato regolamentava i mercati finanziari, ma non era in grado di far fronte in maniera adeguata a questo compito. Come ha notato un parlamentare americano, la crisi non deriva dalla deregolamentazione. Questa ha causato confusione nelle norme di regolamentazione e fra le attività dei regolatori, ma non vi è motivo di ritenere che lo Stato continuerà a regolamentare meglio i mercati finanziari. È, questa, un’altra questione che ha bisogno di nuove decisioni istituzionali tali da consentire il miglioramento della trasparenza e la stabilità dei mercati finanziari.

 

La lotta contro la crisi in Russia

Le autorità russe hanno suggerito importanti misure destinate ad attenuare la crisi. Hanno ripetuto in parte quanto fatto nei paesi più sviluppati, ma su alcuni punti essenziali si sono differenziate da questi.

Sono state prese misure per evitare il collasso del sistema creditizio. Alle banche sono state concesse ingenti risorse finanziarie per superare la crisi di liquidità. Da una parte, questo doveva contribuire al mantenimento delle attività produttive (proprio la disponibilità di risorse creditizie pare essere in Russia una fonte di crescita del settore immobiliare e non del mercato azionario). Dall’altra, la salvaguardia della stabilità del sistema bancario è direttamente collegata all’obiettivo della stabilità socio-politica del paese. Le perdite subite dai cittadini a causa delle banche saranno infinitamente più dolorose e politicamente più pericolose delle perdite dovute al crollo degli indici borsistici.

Ciò, tuttavia, lascia qualche dubbio. Le banche alle quali lo Stato ha fornito liquidità hanno preferito tradurla in valuta straniera, per garantirsi contro i rischi valutari, o utilizzandola per ridurre il proprio debito nei confronti dei creditori stranieri; comportamento, quest’ultimo, economicamente giustificato, ma che non risponde alle intenzioni delle autorità monetarie per quanto riguarda la fornitura di fondi. Inoltre, in alcuni casi, la redistribuzione dei fondi assegnati dallo Stato veniva accompagnata da tangenti, il che non sorprende, nel contesto di un accesso limitato a una risorsa scarsa e ad un prezzo più basso (si prevede che il denaro dal destinatario principale sia messo a disposizione dei mutuatari di secondo livello non al tasso di mercato, ma a una percentuale leggermente superiore, dalla quale deriva una distribuzione primaria).

Lo Stato, in una certa misura, ha cercato di sostenere gli indici del mercato azionario, ma ha subito rinunciato a questa impresa. Nelle circostanze che si sono create, tali tentativi significavano solo una cosa: aiutare gli investitori che scappavano dal paese a ottenere ingenti somme per la vendita di titoli nominali. Certo, il calo dei prezzi delle azioni non è piacevole per gli azionisti e crea problemi con i depositi (margin calls), ma la soluzione dell’ultimo problema sta su un altro piano.

Si è cominciato a discutere delle questioni di prevenzione della crisi occupazionale. La rapida crescita economica negli ultimi anni è stata in gran parte legata al basso costo del denaro sul mercato dei capitali. Tuttavia il denaro a basso costo non contribuisce all’efficienza degli investimenti, in particolare quando si tratta di imprese parastatali. Tali imprese ricevono finanziamenti in misura maggiore rispetto ai loro effettivi bisogni: lo Stato, in questo caso, funge da sostegno. Ora la situazione è cambiata. Non ci sono più crediti sufficientemente garantiti. Verso la fine del 2008 il debito complessivo ammontava a circa 43 miliardi di dollari. Lo Stato ha manifestato la sua disponibilità a fornire un importo di 50 miliardi di dollari per risolvere questo problema.

Anche la politica monetaria si è dimostrata ambigua. Per ragioni politiche, le autorità non si sono completamente decise ad abbandonare il sostegno al corso del rublo e hanno proceduto a tappe scaglionate durante la svalutazione. I motivi della cautela su questa questione sono chiari: il terzo deprezzamento del rublo in venti anni non avrebbe aiutato a consolidare la fiducia nella moneta nazionale. In questa politica c’è stato un aspetto positivo ma anche una serie di gravi effetti negativi.

L’effetto positivo consiste nel fatto che i cittadini hanno avuto la possibilità di proteggersi dalla svalutazione del rublo. Praticamente tutti coloro che lo hanno voluto, hanno potuto cambiare i rubli in dollari o in euro (Grafici 6 e 7).

GraF6/7

Tuttavia, la graduale svalutazione ha alimentato il panico nel mercato e ha portato ad una significativa riduzione delle riserve di valuta estera, il che rende possibile un nuovo livello di equilibrio del tasso di cambio, più basso rispetto a quello che potrebbe darsi in una situazione di forte svalutazione. Inoltre, l’incertezza circa il tasso di cambio ha praticamente bloccato l’attività degli enti creditizi. In previsione del suo declino, le banche sono state riluttanti a concedere prestiti in rubli o in valuta straniera. Inoltre, la forte svalutazione del rublo sarebbe un ulteriore elemento a sostegno della produzione nazionale, proteggerebbe il mercato interno dai prodotti importati, aiuterebbe gli esportatori, ma creerebbe anche, in futuro, ulteriori incentivi all’afflusso di capitali esteri, sotto forma di investimenti diretti. Infine, il governo ha proposto un ampio pacchetto di incentivi, soprattutto fiscali, per lo sviluppo della produzione reale, compresi i tagli fiscali, misure di sostegno alle piccole imprese, la formazione di un elenco che cura con particolare attenzione le imprese dello Stato. Tali misure non si possono giudicare univocamente.

Chiaramente, il sostegno alle piccole imprese è importante per ragioni sia economiche sia sociali, poiché può contribuire in maniera significativa a ridurre la disoccupazione. Tuttavia, i problemi delle piccole imprese non sono legati tanto alla situazione economica o giuridica, ma a quella politica. In Russia si è tradizionalmente scettici nei confronti della piccola impresa, che è sempre stata la più indifesa di fronte all’arbitrarietà della burocrazia. Lo sviluppo delle piccole imprese richiede un profondo cambiamento nell’orientamento della società russa e in particolare della sua classe dirigente. Vi sono seri dubbi circa l’efficacia di un’assistenza diretta alle imprese di grandi dimensioni. I principali problemi di produzione delle aziende non consistono tanto nella mancanza di liquidità, quanto in una violazione del funzionamento dei meccanismi economici e, in ultima analisi, nell’inefficienza di molti settori industriali. Una forte iniezione di capitali finanziari non risolverà i problemi di efficienza e di ritardo strutturale dell’economia, ma senza di essa, l’uscita da questa crisi subirebbe solo un ulteriore ritardo.

 

Alcune delle lezioni del passato: l’esperienza della crisi

La discussione sui problemi della crisi attuale, in un modo o nell’altro, ruota intorno ai precedenti storici. In primo luogo alla Grande depressione, alla deflazione di lunga durata e al tasso di disoccupazione a doppia cifra che l’ha caratterizzata e che è stato possibile superare del tutto solo attraverso la seconda guerra mondiale. Si cita alquanto di rado la crisi degli anni Settanta, durante la quale si è verificato un fenomeno nuovo: la stagflazione. Tenendo presenti questi due precedenti storici, occorre ragionare sulla situazione economica attuale, fermo restando che tali precedenti sono solo un comodo strumento di analisi, ma non offrono necessariamente soluzioni già pronte.

A giudicare dalle azioni da loro intraprese, la cosa di cui hanno maggiormente timore i governi dei paesi sviluppati è la deflazione (dalla qua le, come dimostra l’esempio del Giappone del 1990 occorre almeno un decennio per uscire). I modelli di crisi deflazionistica e stagflazionistica sono essenzialmente alternativi, e per questo si adottano meccanismi diversi per il loro superamento.

La lotta alla deflazione ha bisogno di stimoli alla domanda, ovvero di una politica mirante ad un surplus di bilancio e di un’espansione fiscale. È ammissibile un abbassamento dei tassi di interesse e delle tasse per garantire l’aumento della spesa pubblica. In caso di stagflazione sono necessarie misure opposte: prima di tutto è necessario un controllo sulla moneta, cioè il rafforzamento della politica fiscale e l’aumento dei tassi di interesse. Dopo il decennio di crisi economica degli anni Settanta, la via d’uscita è stata trovata solo quando Paul Volcker, messo a capo della Fed, ha introdotto inedite misure restrittive e un forte aumento dei tassi di rifinanziamento. Di conseguenza, il tasso di disoccupazione ha superato il 10%, mentre i tassi di interesse hanno superato il 20%. Negli Stati Uniti aveva avuto inizio una grave recessione, per la quale Jimmy Carter ha pagato con la mancata rielezione, ma il paese ne è uscito con un’economia moderna e dinamica. Naturalmente, la riproposizione di questi due modelli non può essere automatica, ed è improbabile che la crisi attuale sia esattamente una loro copia. Tuttavia, è importante per noi comprendere che la cura di una malattia dipende dalla sua natura e non sempre è efficace una stessa terapia; talvolta ne serve una diametralmente opposta. Per quanto riguarda la situazione attuale, le esperienze di entrambe le crisi possono essere molto utili. I paesi sviluppati portano avanti adesso politiche che essi consideravano inaccettabili nei mercati emergenti (e, in particolare, nei paesi post comunisti) nel corso del decennio 1980-90.9

Le potenti iniezioni di liquidità che effettuano gli Stati Uniti e l’Unione europea possono effettivamente impedire che la situazione economica peggiori fino a raggiungere livelli politicamente inaccettabili. Tuttavia, bisogna adottare una certa cautela quando si tenta di applicare queste misure nei paesi in via di sviluppo. Il punto sta nel fatto che le autorità monetarie degli Stati Uniti posseggono due caratteristiche precipue.

In primo luogo, come già ricordato, hanno il potere di stampare valuta di riserva; potere che, benché scosso un po’ dall’attuale crisi finanziaria, non è mai stato messo seriamente in discussione. Inoltre, la maggior parte dei paesi nel mondo, mantenendo le proprie riserve in dollari, erano interessati a conservare la loro relativa stabilità.

In secondo luogo, proprio a causa del particolare status del dollaro, le imprese e le famiglie statunitensi non hanno strumenti alternativi a copertura del rischio valutario ed è improbabile che si precipitino a cambiare dollari con euro o yen, anche in caso di dubbi sulla correttezza delle politiche delle autorità monetarie. Questo è il motivo per cui, nonostante l’espansione monetaria e di bilancio degli ultimi mesi, la velocità di circolazione della moneta negli Stati Uniti non solo non è aumentata, ma in alcuni casi ha addirittura rallentato.

Del tutto diversa sarebbe la reazione all’espansione finanziaria nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, e soprattutto in Russia. Là dove non è presente una lunga “storia di credito” della moneta nazionale ovviamente non ci sarebbe un indebolimento della politica fiscale e monetaria e la conseguente elevata probabilità di una svalutazione della moneta nazionale stessa, accompagnata da una crescita della velocità della sua circolazione e dell’inflazione. Nel contesto di una recessione globale, questa opzione significherebbe inevitabilmente una stagflazione.

Una tale politica risulta particolarmente pericolosa nei paesi con una prevalenza del settore delle esportazioni. La dipendenza di queste economie dalla congiuntura globale è estremamente elevata, perché anche una piccola contrazione della domanda nei mercati esteri può portare ad un significativo calo della produzione nei paesi esportatori di materie prime. Per sostenere un’attività in crisi nei paesi sviluppati e per stimolare una domanda debole delle esportazioni dei paesi con un’economia in via di sviluppo la recessione, in questi ultimi, può essere accompagnata da una volatilità del cambio della moneta nazionale. L’espansione non sarebbe in grado di compensare il calo della domanda esterna, che porterebbe ad un’inflazione non accompagnata da una crescita dell’attività manifatturiera.10

In altre parole, nelle condizioni dell’attuale crisi è del tutto ipotizzabile una situazione in cui si combinino la deflazione in una parte del mondo e la stagflazione nell’altra. Specialmente quest’ultimo rischio sembra essere il più serio per la Russia di oggi. In questo modo, il mondo potrebbe trovarsi di fronte a due modelli di crisi che si sviluppano parallelamente, ma che richiedono un approccio opposto. La lotta contro la deflazione nel mondo occidentale passerà attraverso una riduzione dell’inflazione nelle economie in fase di sviluppo. E infine, rifacendosi alle politiche occidentali per fronteggiare la crisi, tali paesi saranno rapidamente intrappolati in un periodo di stagflazione.

La politica anticrisi della Russia dovrebbe orientarsi, prima di tutto, a prevenire gli squilibri macroeconomici del sistema. Anche mettendo in conto un disavanzo di bilancio nel 2009, è necessario mettere in funzione fonti naturali di copertura, utilizzando un prestito interno ed escludendo l’emissione di moneta. È molto pericoloso sperare che uno stimolo artificiale della domanda – un keynesismo volgare – possa risolvere i principali problemi di sviluppo socioeconomico del paese.

 

Priorità e rischi della politica anticrisi nel 2009

La crisi rappresenta una pericolosa causa di destabilizzazione sociopolitica, e proprio a questo problema sarà necessario dedicare un’attenzione prioritaria. Pertanto, per attenuare i suoi effetti, sarà necessario prima di tutto aiutare i lavoratori, non le imprese, né i dirigenti e gli azionisti. Durante gli anni del boom si sono accumulate molte distorsioni strutturali (numerose delle quali derivanti dall’epoca sovietica), e un tentativo di mantenere a galla le imprese improduttive frenerebbe i cambiamenti strutturali dell’economia nazionale. Lo Stato deve garantire la stabilità sociopolitica, piuttosto che andare in aiuto di una particolare attività.

Nella lotta contro la disoccupazione non bisognerebbe coltivare grandi speranze nelle opere pubbliche. Abbiamo letto molto a questo riguardo nei libri di storia sovietica, ma si deve ricordare che questo è stato un fenomeno della società industrializzata, dove la maggior parte dei lavoratori era formata dai “colletti blu” delle fabbriche. Nel mondo di oggi si possono e si devono utilizzare diversi tipi di programmi di formazione che permettano alle persone in situazioni di crisi di ripensare alla propria strategia di vita e di acquisire nuove competenze. I costi di questi programmi non saranno più alti di quelli per gli appalti di opere pubbliche, mentre produrranno un effetto significativo per l’uscita dalla crisi.

Discutendo delle prospettive di aiuto alle singole imprese, ci sarà bisogno di elaborare criteri chiari per la loro individuazione e per la definizione delle misure di sostegno. In primo luogo, bisogna verificare l’impatto sulle singole città dove il problema della chiusura di un’impresa porterebbe a conseguenze di carattere politico e sociale. In secondo luogo, per le infrastrutture occorrerà verificare quando è consentito un sostegno diretto da parte dello Stato al loro funzionamento.

Ma la cosa più pericolosa è rappresentata da quella tipologia di aiuti alle imprese finalizzata a prevenire la chiusura delle produzioni inefficienti e l’ammodernamento dell’economia nazionale. Ecco perché è importante minimizzare la portata del passaggio di responsabilità allo Stato. E se lo Stato è disponibile al salvataggio di un’impresa, deve farlo pubblicamente e attraverso regole chiare a tutti. In seguito alla crisi, lo Stato rischia di allargare significativamente l’elenco delle proprie attività, ma è improbabile che fornisca un controllo adeguato per una loro gestione efficace. Vi è il rischio di un ritorno alla ben nota situazione, presente dall’inizio del 1990, degli “amministratori rossi”, ossia di imprese gestite senza che vi sia alcun controllo. Per evitare questo, chi gestisce le imprese deve assolutamente conoscerne il vero proprietario, che sarà responsabile dei risultati della sua amministrazione.

Infine, bisogna evitare al massimo le misure protezionistiche, che limitano la concorrenza internazionale. Per quanto riguarda la situazione attuale, la misura più efficace per proteggere i produttori nazionali è una politica dei tassi di cambio che non consenta un eccessivo rafforzamento del rublo. La svalutazione, a differenza delle misure tariffarie, è già una buona cosa, perché funziona allo stesso modo e per tutti: non bisogna ricorrere alla corruzione facendo pressioni per ottenere tariffe di importazione più vantaggiose.

La sfida strategica che si pone di fronte alla Russia e al suo governo nella crisi attuale consiste nella creazione di condizioni per l’attuazione di riforme strutturali fondamentali per ridurne la dipendenza dalla domanda mondiale di combustibili, di materie prime e di prodotti a basso livello tecnologico. Risolvere questo problema è possibile riducendo la dipendenza della Russia dall’andamento dell’economia dei paesi più sviluppati. A tal fine emerge la necessità di portare avanti le seguenti riforme strutturali: creazione di meccanismi volti a stimolare la domanda interna e ad accrescere il suo ruolo per garantire lo sviluppo dinamico dell’economia russa; attuazione di una profonda riforma istituzionale in campo economico e politico; coerente diversificazione dell’economia (e, successivamente, anche delle esportazioni); modernizzazione dell’istruzione, che può ricevere ulteriore impulso per rispondere alle sfide della crisi.


[1] Si ringraziano S. M. Drobyshevskji, O. V. Kochetkovy, S. G. Sinel’nikov-Myrylev, N. Sundstrem per l’aiuto nella preparazione di quest’articolo.

[2] V. Mau, Politica economica per l’anno 2007: rischi e successi, in “Domande dell’economia”, 2/2008 (originale in russo).

[3] Su questo punto cfr. S. Y. Glazev, Possibilità e limitazioni dello sviluppo tecnico-economico della Russia in situazioni di cambiamenti strutturali nell’economia mondiale, GUU, 2008 (originale in russo).

[4] T. Friedman, The World is Flat. The Globalized World in the Twenty-First Century, Penguin Books, Londra 2006.

[5] N. Ferguson, The Ascent of Money: A Financial History of the World, The Penguin Press, New York 2008.

[6] Su questo tema cfr. V. Mau, I. Starodubrovskaja, Il feticismo della pianificazione: una necessaria valutazione politico-economica, in “Scienze economiche”, 4/1988 (originale in russo).

[ù7] Sul carattere inaspettato della crisi e sulle dichiarazioni dell’élite economica e politica si veda C. Giles, The Vision Thing, in “Financial Times”, 26 novembre 2008.

[8] J. Thornhill, A Year of Chocolate Box Politics, in “Financial Times”, 23 dicembre 2008.

[9] Cfr. Ferguson, Geopolitical Consequences of the Credit Crunch, in “The Washington Post”, 21 settembre 2008; K. Rogoff, America goes from Teacher to Student, in “project-syndicate.org”, febbraio 2008; D. Rodrik, The Death of The Globalization Consensus, in “project-syndicate.org”, luglio 2008.

[10] Inflation’s back, in “The Economist”, 22 maggio 2008.