Protocollo su welfare e giovani: la sfida riformista dei sindacati

Di Agostino Megale Venerdì 29 Febbraio 2008 14:43 Stampa

A fine luglio si è conclusa la fase di concertazione tra governo e parti sociali che ha portato alla firma del protocollo su «Previdenza, Lavoro e Competitività». Si tratta di un buon accordo, rivolto agli anziani ma anche ai giovani.

La chiusura dell’accordo coincide, esattamente quattordici anni dopo, con la sigla del protocollo del luglio 1993, che in verità vide realizzarsi l’intesa il 3 di luglio e, dopo tre settimane di consultazione tra i lavoratori, venne sottoscritto da sindacati, imprese e governo esattamente il 23 luglio.

L’accordo del 1993 va considerato come una sorta di «accordo costituzionale » delle relazioni industriali in Italia. Esso ha consentito l’ingresso in Europa nel pieno rispetto dei parametri concordati dall’Unione europea. Un accordo valido ancora oggi, pur avendo bisogno di aggiustamenti e manutenzioni che in parte vengono affrontati anche nell’accordo di cui discutiamo ora, incentivando la contrattazione di secondo livello sulla produttività e rendendo pensionabile – fatto importantissimo – tutto il salario di produttività. La coincidenza legata alla data, oltre a «portar bene», porta a immaginare che se quello del 1993 fu il più significativo accordo delle relazioni industriali negli ultimi vent’anni, questo è il più importante accordo redistributivo. Per questo è ora necessario realizzare una grande, larga e diffusa consultazione con lavoratrici e lavoratori di tutti i settori e con il mondo dei pensionati, con l’obiettivo di un «sì» forte e chiaro all’intesa. I giusti problemi sottolineati nella lettera con cui il segretario della CGIL a nome della maggioranza del direttivo ha sottoscritto l’intesa non alterano il giudizio positivo che verrà portato tra i lavoratori. Per la prima volta nella storia della CGIL del dopoguerra, la FIOM, organizzazione di categoria dei metalmeccanici, si è schierata apertamente e formalmente contro l’accordo e dunque contro la CGIL. È un fatto nuovo di cui occorre valutare le implicazioni, poiché rompe la logica centenaria dell’interesse generale rappresentato dalla Confederazione e rende inutile l’aver concluso unitariamente un congresso non più di un anno fa. Anche per questo, lo svolgimento e l’esito positivo della consultazione non potranno che valorizzare e rafforzare l’unità di CGIL, CISL e UIL. Di fronte ad una crisi reale della politica nella sua capacità di rappresentanza generale, i sindacati confederali hanno saputo elaborare una posizione unitaria, superare le tante tensioni corporative presenti in un negoziato complesso, rafforzare un ruolo ed una visione generale. Porsi l’obiettivo di far votare oltre quattro milioni di lavoratori e pensionati, conquistando il consenso dal Nord al Sud, tra i vecchi e i nuovi lavori, tra i pensionati e i giovani, sarà importante non solo per il giudizio sull’accordo ma anche per rafforzare l’azione del sindacato, rilanciando fortemente l’autonomia e la costruzione di un progetto a breve termine di rivitalizzazione dell’unità sindacale.

Un accordo per tutte le generazioni Il protocollo crea le condizioni per cui lavoratori, pensionati e giovani «prendono comunque qualcosa», seppur su fronti diversi. È un accordo che non realizza uno scambio, ma: a) definisce una sorta di redistribuzione di risorse reperite anche grazie alle politiche di risanamento e di lotta all’evasione realizzate dal governo di centrosinistra, intervenendo su una platea di sette milioni di pensionati, i quali da questo accordo vedranno migliorare, chi più chi meno, la loro condizione materiale; b) è un nuovo accordo che finalmente si occupa anche dei giovani su cui, dal 2008, bisognerà essere capaci di costruire quel grande patto sociale tra generazioni da definire nell’arco della legislatura e che parli al futuro dei giovani; c) prosegue, dopo la finanziaria, nel lavoro di superamento, graduale ma costante, delle forme di precarietà presenti nella legge 30 e di allargamento delle tutele, in modo particolare per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali e la contribuzione figurativa, dando risposte concrete a chi non è tutelato.

Come sopra ricordato, l’intesa agisce con particolare efficacia sul mondo degli anziani, e parliamo di circa sette milioni di pensionati coinvolti, di cui più di tre milioni riceveranno per la prima volta, oltreché l’una tantum di oltre 300 euro a ottobre 2007, un aumento medio men- sile tra i 30 e i 40 euro. Parliamo, poi, di altri quattro milioni di pensionati che vedranno la rivalutazione al 100% della loro pensione in base all’inflazione reale. Anche il problema dello scalone è stato risolto con equilibrio. Se si affronta effettivamente la dimensione quantitativa dei lavoratori coinvolti sul tema, emerge che la sovraesposizione mediatica e politica del tema stesso è stata eccessiva. La questione avrebbe dovuto avere nel negoziato una valenza pari alle altre tematiche di rilievo, senza diventare condizionante. Era comunque d’obbligo dare una soluzione alle ingiustizie prodotte dalla riforma Maroni, avendo a mente i lavori faticosi e usuranti, ma dando per scontato che per tutti gli altri lavori, a fronte dell’allungamento della speranza di vita delle persone, andava gradualmente allungata l’età pensionabile. Il risultato va in questa direzione. Comunque, è evidente che non si potrà sfuggire a lungo a tale questione, soprattutto per quanto riguarda le donne. Bisognerà definire, al momento opportuno, sulla base di un raffronto con il resto dei paesi europei, pacchetti di diritti e tutele che permettano alle donne italiane che lavorano di essere pari alle loro colleghe europee. Osservando i grandi numeri dell’accordo, i 2,5 miliardi di euro dell’extragettito vengono spesi tra l’aumento delle pensioni basse, con 1300 milioni, l’attivazione degli ammortizzatori sociali, con 700 milioni, e le politiche per la produttività e la competitività, con circa 300 milioni. Un altro miliardo utile per lo scalone viene prelevato dal settore previdenziale grazie all’unificazione degli enti, alle azioni sulle pensioni privilegiate e alla manutenzione di una serie di risorse sparse. In ogni caso, 3,5 miliardi vengono spesi a favore del mondo del lavoro, dei giovani e dei pensionati. In effetti, è in questi dati il senso della valutazione di questo accordo come il più redistributivo degli ultimi vent’anni: 3,5 miliardi di euro all’anno vanno al lavoro e ciò si traduce in 35 miliardi nell’arco di dieci anni. Cifre così non sono mai state movimentate.

Ad un certo punto della trattativa si è anche valutato che questa azione sulle pensioni potesse essere dannosa e sfavorevole per le nuove generazioni e si sono espresse critiche sul sindacato, che tutela gli anziani mentre non sarebbe capace di tutelare i giovani. Questa contrapposizione padre-figlio è un grave errore. Ma il problema c’è. Per questo serve un patto vero tra generazioni. È necessario, per superare i rischi corporativi, valorizzare i risultati raggiunti con l’accordo e investire sul futuro dei giovani guardando al welfare, al fisco e ai contratti.

Quando parliamo di rischi corporativi insiti nel sistema previdenziale, parliamo esattamente di questo. Nello scalone, che riguarda ottantamila lavoratori dipendenti e centoventimila persone nel suo insieme, il rischio di una deriva corporativa era fortissimo. Si trattava di evitare che centoventimila persone potessero sottrarre risorse ingenti da destinare alle nuove generazioni. Questo rischio è stato parzialmente evitato. Sicuramente gli italiani capiscono bene che chi fa un lavoro faticoso può andare in pensione prima, mentre chi ne fa uno meno faticoso può andarci più tardi. D’altro canto, il miliardo necessario ogni anno per far fronte al superamento dello scalone proverrà da risorse interne alla riorganizzazione del sistema previdenziale, oltre che da un’azione contro i privilegi. Va evitato che l’aumento dei contributi ai collaboratori a progetto serva a coprire i privilegi corporativi dei garantiti. L’aumento dei contributi ai collaboratori oggi è indispensabile anche e soprattutto per la loro pensione di domani.

Focalizzando l’attenzione sulle misure inerenti le collaborazioni coordinate e continuative, si può evidenziare che, per quanto riguarda i collaboratori a progetto, con il centrosinistra al governo la contribuzione previdenziale è passata dal 18% al 26% nel giro di un anno, ma per arrivare al pari costo con il lavoro dipendente occorrono ancora 6 punti percentuali. È evidente che giunti a quel punto si sarà creata una situazione per la quale il ricorso alle collaborazioni a progetto non sarà più strumento di dumping sociale. Tali collaborazioni dovrebbero avere un costo non pari, ma di un euro in più del lavoro dipendente, e dovrebbero essere richieste solo quando effettivamente servono. Alla fine di questo processo, le collaborazioni che resteranno in Italia, grazie ai provvedimenti di cui si parla nell’intesa, e che successivamente dovranno essere rafforzati, saranno pienamente tutelate.

Nel dibattito sulle pensioni, invece, quello che non si può davvero fare è parlare degli anziani come di un peso per la società. Gli anziani sono una risorsa. La vita si allunga e bisogna essere capaci di dare valore alla vita e alle competenze delle persone anziane non solo a parole, ma nei fatti. Bisogna tenere bene a mente, innanzitutto, il mondo della non autosufficienza, visto che sempre più anziani vivono più a lungo e ciò implica che qualcuno si debba occupare di loro. Contemporaneamente, però, bisogna far emergere l’idea di un invecchiamento attivo. Siamo tenuti ad immaginare formule con cui ottimizzare l’esperienza, le risorse e il sapere professionale degli anziani.

La parte del protocollo relativa alle nuove generazioni, inoltre, appare valida in particolare per quanto riguarda la totalizzazione dei contributi, il riscatto contributivo della laurea e anche la misura del prestito a fronte di un’interruzione del rapporto di lavoro, oltre che l’aumento dell’indennità di disoccupazione anche per i soggetti con i requisiti ridotti. Per la prima volta si arriva a determinare concretamente un tasso di sostituzione per i giovani lavoratori di oggi, che andranno in pensione a par- tire dal 2030, non inferiore al 60% dell’ultima retribuzione. È, questa, una novità assoluta anche in Europa. Tutte queste misure, inoltre, devono essere considerate assieme alle azioni già inserite nella legge finanziaria per favorire l’occupazione stabile e a tempo indeterminato.

Appaiono perciò senza fondamento le critiche mosse da autorevoli personalità intellettuali come Luciano Gallino e Francesco Giavazzi che, da sponde opposte, pur essendo padroni delle materie in discussione, hanno orientato le loro approfondite analisi solamente su alcuni degli aspetti dell’accordo.

In particolare, il primo – con una visione più radicale – sostiene di non riconoscere nel sindacato lo stesso soggetto di dieci anni fa, sottolineando per questa via che «un tale protocollo non sarebbe stato siglato in passato». Eppure, ciò che trascura Gallino è il grado di avanzamento delle condizioni materiali di milioni di persone coinvolte in questo accordo. Infatti, a differenza del 23 luglio 1993, dove veniva presentata una politica di moderazione salariale allo scopo di entrare in Europa, qui, oggi, vi è un’operazione del tutto redistributiva: se nel 1992 si perdeva la scala mobile, oggi si aumentano le pensioni e si accordano tutele.

Il secondo, Giavazzi, pone l’accento sulla mancanza di equità dell’intervento sui redditi da pensione, contestando la platea di riferimento. Secondo Giavazzi il protocollo non punta al sostegno delle cosiddette fasce più deboli (intendendo per queste le famiglie di pensionati nel primo decile della distribuzione dei redditi). L’accordo, invece, sceglie di rivalutare i contributi di chi, come l’operaia tessile, pur avendo lavorato trent’anni, non arriva ai 600 euro al mese, quindi porta con sé tutt’altro spirito: i provvedimenti sono orientati al sostegno dei lavoratori pensionati con reddito basso, che, nonostante una vita di sacrifici e di contributi versati, si trovano sotto la soglia di povertà relativa, rivalutando il valore dei contributi che hanno versato. La difesa delle fasce deboli della popolazione richiede altre misure economiche, di natura strutturale, come quelle avviate con la manovra fiscale nella finanziaria 2007 e quelle in cantiere per la prossima.

Naturalmente, la prima risposta a tutte queste e altre critiche è proprio la domanda: come si possono giudicare negativamente i frammenti di un quadro senza averne compreso il senso generale? In realtà, il disegno d’insieme è chiaro. Per questo, va proseguito il lavoro di concertazione tra governo e parti sociali, immaginando un patto fiscale contro l’evasione che impegni il governo ad investire una parte, almeno un terzo di queste risorse «recuperate» nel nuovo piano di legislatura a favore dei giovani e degli anziani non autosufficienti, piano da costruire nel 2008 e che ha come base proprio l’accordo del 23 luglio.

Concertazione rafforzata Si può dire, allora, che il protocollo è di sicuro un successo per il sindacato che aveva avanzato proposte unitarie e, a maggior ragione, per tutti i riformisti «senza aggettivi» al governo, anche grazie alla tenacia e al paziente lavoro del ministro Damiano. Dopo anni caratterizzati dallo scontro sociale con il centrodestra e dalle divisioni sindacali, oggi, finalmente, si può dire che si è prodotta una buona intesa.

Si può certamente dire che parte della vittoria è da attribuire alla concertazione anche se, soprattutto negli ultimi giorni, si doveva e poteva fare meglio. Ora, ad accordo fatto, vanno semplicemente difesi e valorizzati i contenuti, auspicando che il presidente del consiglio, di concerto con il ministro del lavoro e con le parti sociali, chiarisca nella sua autonomia le interpretazioni controverse, con particolare attenzione ai contratti a termine. In ogni caso, non è immaginabile spingere per un cambiamento dell’accordo, né da sinistra né da destra, poiché l’esito sarebbe semplicemente la mancata trasformazione dell’intesa in legge, il permanere dello scalone e, da ultimo, la crisi di governo, che avrebbe l’effetto di riconsegnare il paese al centrodestra, con uno scenario facile da immaginare.

Per questo, però, i risultati impongono una definizione più netta e chiara di che cosa si intende per concertazione. A tal fine bisogna introdurre regole e procedure, definire i soggetti, i tempi e le materie su cui concertare, nelle quali – ferma restando la sovranità del parlamento – sia chiaro, da un lato, che non si può concertare in eterno e, dall’altro, che vi sono problemi alla cui soluzione le parti chiamate a concertare devono dare il loro contributo: per questo si adopera qui la definizione di «concertazione rafforzata».

Autonomia e unità sindacale La consultazione tra i lavoratori è in corso e si sta svolgendo unitariamente. È indubbio che l’esito positivo supererà sia in termini di partecipazione che di consensi l’ultima consultazione, realizzata dodici anni fa. Si tratta di un’occasione unitaria da capitalizzare e da non disperdere. Non servono eccessi né interventi spropositati, ma di sicuro non si può stare immobili. Ci si può chiedere, a questo punto, che cosa impedisca attualmente ai sindacati confederali di CGIL, CISL e UIL di costruire un progetto unitario, alto e forte, capace di dare ai lavoratori italiani e ai pensionati un grande sindacato unitario. Costruire l’unità, farlo con i piedi saldamente piantati per terra, significa avere piena consapevolezza che l’unità dei sindacati confederali in Italia può solo essere un bene per i lavoratori perché li rende più forti nei momenti di negoziazione e di concertazione; rende più autorevole la posizione che unitariamente si esprime; permette di realizzare sinergie e, così come vanno ridotti i costi della politica, possono essere ridotti e riorganizzati i costi del sindacato.

Su quest’ultimo aspetto la campagna vergognosa pubblicata all’inizio di agosto su «L’Espresso» sulla «casta sindacale» è priva di qualsiasi fondamento ed è unicamente tesa a colpire forza e autorevolezza del sindacato. Questo però non esime il sindacato dal riflettere su se stesso, su come superare i rischi di corporativismo e su come ricostruire un «pensiero sindacale lungo», capace di far fronte alle sfide che il lavoro deve affrontare nella società attuale e globale.

A ben vedere, gli elementi di divisione ideologica erano già venuti meno dopo il 1989. In seguito, si manifestò una forte assunzione di responsabilità da parte di CGIL, CISL e UIL, che, nella crisi più profonda del sistema politico e dei partiti italiani, con l’allora governo Ciampi, diedero vita al patto sociale del 1993. Quel patto consentì all’Italia di entrare in Europa, restando – per usare una metafora calcistica – in serie A. Riprendere la bandiera e le ragioni dell’unità sindacale significa valorizzare la capacità del sindacalismo confederale di dare priorità agli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici in un contesto in cui resti sempre evidente l’interesse generale del paese, evitando i rischi di una deriva corporativa fondata sul puro e semplice rivendicazionismo. Oggi, dopo l’accordo e la consultazione, questo rischio si evita con una linea netta e chiara. L’unanimismo congressuale è già stato superato dal voto contrario all’accordo espresso dal comitato centrale della FIOM. Ora è giusto che si apra una battaglia politica fondata sulle idee per consolidare la maggioranza larga e solida che ha sostenuto l’intesa. Da domani va costruito un progetto sindacale fondato sull’unità con CISL e UIL e sull’autonomia. Dopo gli anni della divisione sindacale, tra il 2001 e il 2003, va oggi apprezzata la ripresa di un cammino unitario del sindacalismo confede- rale che dopo la consultazione può immaginare il rilancio di un patto generazionale a favore dei giovani. Grande attenzione va posta affinché il sindacalismo confederale rilanci, come sempre nei momenti più delicati della storia d’Italia, la capacità di porre al centro l’interesse generale del paese, in un rapporto di solida ed efficace rappresentanza di tutto il mondo del lavoro. Alla base di tutti i ragionamenti fin qui svolti, resta l’idea di valorizzare l’autonomia del sindacato, senza alcuna neutralità o indifferenza, rispetto ai processi politici, senza distogliere l’attenzione da un sistema in cui il ruolo dei partiti sia garanzia di democrazia e – insieme a quello assunto dal movimento sindacale – di difesa dei valori di libertà, da un lato, e di lotta al terrorismo e alla mafia, dall’altro. Per questo, occorre rimettere al centro del dibattito politico e sindacale la questione dell’unità per prefigurare un progetto politico capace di coinvolgere milioni di lavoratori e lavoratrici e, soprattutto, di quei giovani uomini e giovani donne che esigono tutele e diritti, ma anche riconoscimento professionale, autorealizzazione e dunque nuova dignità del lavoro.

Giovani e flessibilità tutelata Si ricorda che l’accordo in questione è il primo che parla ai giovani. Con il patto non si delineano le soluzioni di tutte le precarietà, ma di sicuro si apre il terreno riformatore per costruire quel patto di legislatura al cui centro devono essere poste le nuove generazioni, con l’obiettivo non solo di superare la precarietà rimasta nella legge 30, ma di innestare un meccanismo positivo in cui la flessibilità viene accompagnata da diritti e tutele. Per quindici mesi, a partire dalla finanziaria 2007, l’azione svolta dal governo sui temi del lavoro, se confrontata con i punti del programma dell’Unione, registra il maggiore grado di avanzamento nell’attuazione.

Anche il sindacato dovrà svolgere un ruolo importante e fondamentale nei prossimi mesi. Sarebbe auspicabile una grande manifestazione nazionale sindacale unitaria per mettere al centro le condizioni dei giovani nei lavori flessibili e precari. Dei tre milioni di lavoratori temporanei, circa un milione sono rappresentati dalle collaborazioni, cui vanno aggiunte oltre trecentomila partite IVA. Una parte dei collaboratori sono stati stabilizzati sulla base dell’avviso comune per il settore dei call center. Con analoghi criteri bisognerà proseguire questa azione anche in altri settori. I collaboratori che resteranno a progetto – oltre a diritti e tutele ancora da ottenere nel percorso di legislatura – dovranno essere finalmente inseriti nei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Nel 1926 nel contratto di lavoro operaio sono stati inseriti gli impiegati. Negli anni Settanta, i quadri tecnici. È arrivato il momento di introdurre una sezione per i collaboratori. Il sindacato e le imprese devono stabilire i minimi contrattuali e organizzare fondi di previdenza, perché è impensabile che lo Stato prenda su di sé tutti gli oneri. Se non si fosse in grado di fare questo, non solo si riscontrerebbe un’effettiva crisi corporativa del sindacato italiano, ma a quel punto sarebbe ancora più difficile opporsi a una legge (in quel caso giusta e necessaria) che fissi il salario minimo per i collaboratori.

Il sindacato non deve attendere un’azione dei giovani, ma deve farsi promotore di un’iniziativa generale al cui centro ci sia il tema della tutela del lavoro flessibile, che non è la negazione del lavoro flessibile, né la richiesta che tutto il lavoro flessibile diventi a tempo indeterminato, ma la rivendicazione di tutele e diritti fondamentali nei lavori flessibili. Poiché Confindustria li considera autonomi e il sindacato, invece, lavoratori economicamente dipendenti, i collaboratori sono rimasti sempre in mezzo al guado. Non esiste infatti una piattaforma contrattuale che parli dei collaboratori. Ora è tempo che il sindacato faccia il suo mestiere.

In Italia il lavoro continua a essere un elemento identitario e di cittadinanza, ma non bisogna trascurare che anche il lavoro nel nostro paese, così come il resto della società, è diviso in due. Non è un caso che il 51% dei lavoratori dipendenti si sia collocato nel centrosinistra alle ultime elezioni, mentre nel 2001 era esattamente l’opposto. E se ancora oggi guardiamo alla parte più moderna dell’Italia al Nord, vediamo che i lavoratori hanno votato in maggioranza per il centrodestra. In Italia registriamo una situazione di capitalismo diffuso che potremmo definire come «società compatta della piccola impresa del Nord». Qui la composizione del nucleo familiare, un tempo contraddistinta da classi sociali contrapposte, vede oggi figure come il piccolo imprenditore, il commerciante, il lavoratore operaio e magari il giovane precario all’interno dello stesso ambito. Tutto ciò produce una nuova stratificazione sociale, che genera esiti sorprendenti: si pensa di fare una battaglia di sinistra contro la precarietà e poi accade che a Brescia, Milano, Treviso quegli stessi soggetti che si pensa di rappresentare votano a destra. Ciò che attrae non è il vecchio slogan del lavoro sicuro e a tempo indeterminato. In quella parte di paese, più industrializzata – in cui la disoccupazione è al 3% – si domanda un lavoro meno alienante, che soddisfi di più, che faccia sentire più realizzati. Più che la parola d’ordine «contro la legge 30» sarebbero vincenti le parole d’ordine «libertà, merito, tutela e dignità nel lavoro».

La sinistra non sempre è riuscita a interpretare al meglio queste esigenze. E, per quanto riguarda il lavoro precario, Rifondazione comunista sbaglia a indire una manifestazione per il 20 ottobre contro l’accordo siglato a luglio. Deve decidere se vuole essere forza di governo o di opposizione. Non si può manifestare contro se stessi. Ma sbaglia anche chi si erge, con la contromanifestazione, a difesa della legge 30. Pur essendo le percentuali tra lavoro stabile e lavoro precario vicine e non peggiori di altri paesi europei, da noi la percezione della precarietà è più alta. Perché? Dal punto di vista della psicologia sociale, il milione di collaboratori qualitativamente «pesa di più». Almeno la metà delle famiglie ha avuto un figlio o un parente che ha avuto a che fare con i contratti di collaborazione o il lavoro al call center per non più di 10/11mila euro l’anno (pari a circa 700 euro netti al mese) ma senza diritti né tutele. Va valorizzato il risultato degli oltre ventimila lavoratori stabilizzati grazie alla circolare ministeriale sui call center.

Per questo, al primo posto, anche nelle ricerche IRES-CGIL, viene posta la questione della sicurezza e delle tutele da dare ai lavori flessibili: nelle ultime indagini, condotte sia sui giovani e il lavoro che sulle condizioni dei lavoratori nel loro insieme, emerge una forte spinta ad avere un maggiore riconoscimento del merito individuale di chi lavora, naturalmente senza confonderlo con il successo. Tradizionalmente vi è un atteggiamento sindacale non attentissimo a tale tema, anche perché nella contrattazione si è sempre agito in termini collettivi, per cui non si riesce ad agire in tal senso. Nella sinistra riformista sono state fatte molte riflessioni, ma, con l’Unione al governo, anche buone leggi, che vanno conosciute e valorizzate. L’idea è che bisogna passare ad una fase in cui stabilizzazione del lavoro, flessibilità tutelata e riconoscimento del merito fac- ciano parte di un’azione sociale moderna in cui le nuove generazioni siano protagoniste. In effetti in Italia, a differenza della Francia e di altri paesi, non c’è bisogno di strumenti specifici per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, non occorre neanche rispolverare proposte di manutenzione dell’art. 18, visto che continuiamo ad avere un alto tasso di mobilità e turnover pari al 42%; si dimentica poi che questo è un paese a capitalismo diffuso, formato da piccole imprese che occupano il 90% dei lavoratori e in cui il tasso di mobilità professionale è molto elevato. Si può allora dire che la formula contrattuale dell’apprendistato, utilmente aggiornata (come indicato anche dal Protocollo) può essere il vero strumento per l’inserimento dei giovani e non sarebbe un male se, con la prossima finanziaria, si potesse immaginare una misura per cui dopo ventiquattro mesi di apprendistato o di collaborazione a progetto vi fosse un premio, un vero incentivo per le imprese che in un percorso formativo si impegnino alla stabilizzazione del lavoro. Le imprese utilizzano sovente strumenti di flessibilità per «provare più a lungo» le persone, per vedere se effettivamente è la manodopera di cui hanno bisogno, e ventiquattro mesi sono un tempo ragionevole: se dopo quel periodo intervenisse un incentivo per i tre anni futuri per l’impresa che assume a tempo indeterminato l’apprendista, il collaboratore a progetto o l’interinale, è quasi certo che avremmo una fase di grande stabilizzazione del lavoro.

Rinnovare il pensiero e i gruppi dirigenti Il futuro dell’Italia si gioca sulle prospettive dei giovani. Non è solo retorica. È un punto dell’azione politica e sociale che deve contraddistinguere l’azione del Partito Democratico e dei sindacati, oltre che del governo. È ormai tempo – come indicato da Veltroni nella lettera a «La Repubblica» – che la questione dei giovani diventi la bussola principale dell’azione del sindacato e del governo. Solo in un patto per il futuro dei giovani si potrà richiedere forte solidarietà tra le generazioni.

Naturalmente, se parliamo di questioni giovanili, dobbiamo parlare anche del rinnovamento della classe dirigente. Si è ultimamente indagato sul tema, rilevando il perché, secondo l’opinione corrente, ci sono pochi dirigenti giovani a guidare la CGIL. Problema, questo, che vale per i partiti e per le imprese. La risposta maggioritaria dei giovani lavoratori intervistati è stata: «Perché quelli attuali non lasciano il posto ai nuovi». Penso che sia una cosa vera a tutti i livelli, anche se non basta riempire il sindacato (o il partito) di giovani trentenni per avere un’organizzazione innovata. Occorre, sì, la «promozione» di una nuova gene- razione, ma sempre cercando di dotare questa nuova generazione di un pensiero e di una teoria forte. Anche la formazione del Partito democratico è una svolta fondamentale, ma serve un ritorno della politica all’etica dello spirito di servizio verso i cittadini, serve riconquistare passione per una battaglia in cui prevalgano le idee sulle collocazioni personali. È controproducente il fatto che non si studi più, che non si approfondiscano più le questioni. Un buon PD con una nuova generazione alla guida si deve costruire anche con la riedizione di scuole moderne di politica, di centri e di pensatoi: la sfida della modernizzazione è una sfida che richiede idee e cultura, perché sono queste che guidano il mondo. Le nuove generazioni possono essere in grado di costruire un «moderno principe», che però richiede competenze, capacità, qualità. Sarebbe auspicabile che si realizzassero una o più fondazioni per il partito nuovo e tante scuole di partito regionali (tante «Frattocchie in chiave moderna »). Un partito nuovo e moderno, dunque, capace di preservare il meglio dell’esperienza dei partiti popolari di massa della prima Repubblica, con solide radici nel popolo e con una grande capacità di analisi, di elaborazione, di progettazione. Due parole chiave? Ragione e passione. Si devono formulare tesi e prospettive di modernizzazione del sistema capitalistico con l’introduzione di regole e procedure per la sua effettiva democrazia. È il pensiero che può creare le condizioni del cambiamento e oggi serve una teoria che declini la modernizzazione, la globalizzazione e l’innovazione all’insegna dell’equità, della giustizia sociale, del primato della persona e della sua dignità. La battaglia di idee che bisogna compiere deve essere vera e ancora più robusta di quanto non sia oggi, perché il PD non è un’uscita dagli ambiti della sinistra, ma la costruzione della sinistra moderna del nostro paese.