La riforma del sistema penale: tra urgenza degli interventi e necessità di un approccio di sistema

Di Roberto Garofoli Martedì 09 Febbraio 2010 20:05 Stampa
Il sistema penale soffre di mali strutturali. Con quale metodo si deve procedere ad una ricognizione delle cause delle disfunzioni e alla prospettazione di possibili vie di uscita? La politica del contingente ha finito per costituire una delle principali cause dei problemi che affliggono la giustizia penale. È improcrastinabile un approccio di sistema, che rifugga da slogan riformistici.

Il metodo: tra la necessità di un approccio riformista sistematico e graduale e l’urgenza delle riforme

Come ormai da tutti riconosciuto, il sistema penale (a dire il vero non più di quello civile) soffre di mali strutturali.

Con quale metodo è utile (e necessario) procedere ad una ricognizione delle cause di tali drammatiche disfunzioni e, soprattutto, alla prospettazione di possibili vie di uscita?

Ecco: l’individuazione del metodo riformi sta, prima ancora dell’elaborazione delle possibili soluzioni. È un dato di fatto che il sistema penale venga riformato ogni anno, ma secondo un’agenda imposta prevalentemente dalla cronaca giudiziaria, che ne mantiene inalterata l’inefficienza.

Ebbene, questa politica del contingente, pure dettata talvolta dalla necessità di soddisfare esigenze obiettive, ha finito per costituire una delle cause principali dei mali che affliggono la giustizia penale.

Sono necessari, allora, un approccio di sistema e la volontà di porre mano a riforme che incidano in forma strutturale sulla non felice realtà della giustizia penale. Si tratta di riforme che richiedono, da un lato, chiarezza di idee e di scopi, dall’altro, il “tempo” per individuare prima gli obiettivi da perseguire, tradurli poi in norme e monitorare, quindi, gli effetti prodotti.

Certo è facile prevedere il rilievo che quasi spontaneamente può essere mosso a quest’ultimo riguardo: la drammaticità della situazione in cui, soprattutto in determinate aree, versa la giustizia penale in Italia non consente di rinviare gli interventi di riforma, né, tanto meno, di dilatarne nel tempo la relativa operatività. Di tempo non se ne ha più, si potrebbe insomma agevolmente obiettare.

Un rilievo che non deve tuttavia indurre, nella sua scontata condivisibilità, a rinunciare ad un approccio riformista di sistema, l’unico in grado di non suscitare pure illusioni e, ancor più criticamente, effetti concreti insignificanti.

È auspicabile, quindi, coniugare la necessità di interventi urgenti con l’esigenza di porre mano ad un “Piano per la giustizia penale” che, con obiettivi e criteri di riferimento (sostanziali, processuali e organizzativi), indirizzi, pur con necessari margini di flessibilità, la politica criminale per un arco di tempo ragionevolmente lungo. Si impone, cioè, un approccio riformista sistematico e graduale.

Ciò che appare davvero improcrastinabile è un impegno da parte delle forze politiche ad elaborare un piano strategico di interventi che, rifuggendo da slogan riformistici, prenda innanzitutto atto della drammaticità della situazione, individuando le cause sociali, ordinamentali, organizzative, sostanziali e processuali delle disfunzioni, al contempo avendo chiare le ragioni che spiegano certe “sacche di efficienza” così, ad esempio, da poter estendere i modelli positivi di organizzazione e funzionamento di alcuni uffici giudiziari.

Di seguito, si forniscono alcune osservazioni svolte senza alcuna pretesa di completezza ma con l’esclusivo intento di evidenziare quanto sia necessario – nel porre mano ad un progetto di riforma del sistema di giustizia penale – un approccio di sistema che non trascuri tra l’altro, da un lato, i condizionamenti che su quel sistema spiegano, in modo variegato, criticità processuali e fenomeni sociali; dall’altro, le interrelazioni che lo legano ad ambiti apparentemente distanti, quali quelli dell’amministrazione e del processo amministrativo.

Sovraffollamento carcerario

Il sovraffollamento carcerario e l’ipertrofia del diritto penale appaiono tra i mali principali del sistema penale.

Quali sono i rimedi proposti? Tradizionalmente, sul piano sostanziale, quelli delle sanzioni alternative alla detenzione (quanto al sovraffollamento carcerario) e del diritto penale minimo (di fronte all’ingolfamento del processo penale). Ebbene, come è stato osservato,1 l’uno e l’altro rischiano di suscitare pure illusioni riformistiche se non vengono considerati e inseriti in una strategia di interventi di più ampio respiro, non solo in senso strettamente penale.

Quanto al problema carcerario, la necessità di un approccio sistemico si desume agevolmente da talune osservazioni relative ai dati della popolazione carceraria e alla sua composizione, in specie alla condizione processuale dei detenuti e alla loro provenienza geografica.

In generale, il tasso di carcerazione in Italia pare in linea con la media europea: 100 detenuti per 100.000 abitanti. Si tratta di un dato statistico di cui si dovrebbe tener conto in sede di programmazione dell’edilizia carceraria.

Senonché, vi è un’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio: per questa quota di popolazione carceraria il problema del sovraffollamento non può essere certo affrontato invocando una riforma delle misure alternative alla detenzione, essendo l’origine del problema stesso nel processo.

Ecco allora che riforme di tipo sostanziale e modifiche di tipo processuale vanno incluse in una strategia complessiva.

Su un altro fronte, occorre tener conto dei dati relativi alla provenienza geografica dei detenuti. Nelle statistiche relative alla popolazione carceraria degli ultimi vent’anni, emerge, invero, che la costante crescita del numero dei detenuti è dovuta unicamente all’aumento di stranieri, essendo rimasta sostanzialmente immutata la quota degli italiani. Alcuni dati appaiono illuminanti.

Alla data del 31 dicembre 1992, su una popolazione carceraria complessiva di 47.316 detenuti, 40.079 erano italiani, 7.237 stranieri. Invece, alla data del 30 giugno 2006, quindi prima dell’indulto, su 61.264 detenuti presenti, 41.043 erano italiani e 20.221 stranieri. Il 30 aprile 2008 risultavano presenti negli istituti di pena italiani 52.992 detenuti, di cui 32.995 di nazionalità italiana e 19.997 stranieri.

La quota della popolazione carceraria italiana resta immutata, mentre cresce in modo esponenziale la quota degli stranieri. Un ultimo dato pare non privo di rilievo: il 70% dei detenuti stranieri proviene da soli otto paesi.2

Il “problema penale” si interseca vistosamente, dunque, con quello della gestione e del controllo del fenomeno migratorio. Un’ulteriore dimostrazione della necessità di un approccio di sistema, questa volta con un respiro ancor più esteso: il “Piano per la giustizia penale” non può non essere integrato, anche e prima delle riforme sanzionatorie, dalle strategie relative al fenomeno migratorio. Strategie che vanno affidate per lo più a una intelligente politica degli accordi internazionali, oltre che di prevenzione sociale della delinquenza, in specie extracomunitaria, piuttosto che a un uso soltanto simbolico del diritto penale, destinato ad essere fonte e causa di ulteriori ineffettività del sistema processuale.

I rapporti tra diritto penale e risposte sanzionatorie di tipo amministrativo. Il diritto penale minimo

Passando al tema dell’ingolfamento processuale, il rimedio di tipo sostanziale spesso ragionevolmente proposto è quello della depenalizzazione: è il tema del “diritto penale minimo”.

Il riferimento è alla depenalizzazione in astratto, non già a quella cosiddetta in concreto, destinata cioè a passare non per la cancellazione di fattispecie astratte di reato ma per l’introduzione e l’estensione di meccanismi di non punibilità o non perseguibilità di fatti, astrattamente rispondenti al tipo, al contrario ritenuti in concreto “esigui” (“particolare tenuità dell’offesa”).

Si tratta di un criterio di riforma certo condivisibile. La depenalizzazione appare, invero, utile a evitare, da un lato, che la tutela di taluni beni sia affidata al solo presidio di tipo penale, apparentemente più temuto, ma in concreto ineffettivo, oltre che destinato a infrangersi sugli scogli della prescrizione; dall’altro lato, che la enorme mole di fattispecie bagatellari finisca per ingolfare il sistema processuale, così intralciando l’applicazione del diritto penale “serio”.

Per non dire dell’incidenza che tutto ciò produce sull’effettività del sacrosanto principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Ciò posto in astratto, si impongono però alcune riflessioni.

In primo luogo, la politica della depenalizzazione incontra i limiti derivanti, tra l’altro, dalle sempre più insistenti istanze europee per la criminalizzazione di talune condotte, oltre che dalla inaccettabilità di politiche volte a ricondurre nell’area dell’illecito amministrativo punitivo la tutela di beni collettivi di spiccato rilievo sociale e costituzionale (l’ambiente, ad esempio).

Il che non esclude tuttavia che interventi consistenti di depenalizzazione siano ancora possibili, oltre che auspicabili.

Qui però si coglie il vero problema strutturale del cosiddetto diritto penale minimo, dato dalla necessità di attendere all’individuazione del meccanismo destinato a sostituire il presidio penale.

Essendo inaccettabile rinunciare alla tutela dei beni oggi presidiati sul piano penale e dovendosi quindi affiancare alla depenalizzazione il rafforzamento del sistema sanzionatorio di tipo amministrativo, occorre chiedersi a chi si intende affidare l’applicazione delle nuove sanzioni amministrative.

Ecco, ancora una volta, la necessità di un approccio di sistema, attento, questa volta, ai rapporti tra diritto penale e risposte sanzionatorie di tipo amministrativo. Occorre assicurare la serietà dell’opzione punitiva di tipo amministrativo mediante l’istituzione di idonee autorità competenti.

Quale il modello? Quello delle autorità indipendenti? Certamente è necessario pensare a sistemi punitivi plurimi, affidati sul piano organizzativo ad un organico di funzionari preparati e indipendenti dalle amministrazioni attive (tanto più se a base elettiva), sul versante funzionale connotati da sanzioni e disciplina parapenali.

Occorre porsi ancora un ulteriore problema di cui tener conto nel passaggio dal presidio penale a quello amministrativo. Problema non poco complesso, legato alla distribuzione tra i diversi livelli di governo della potestà legislativa nella materia sanzionatoria.

Se, come è noto, per costante giurisprudenza costituzionale (antecedente e successiva alla riforma del Titolo V) le Regioni non possono interferire nella materia penale (se non per prevedere, secondo alcuni, diritti o doveri scriminanti), le stesse, invece, ben sono dotate (nelle rispettive materie) della potestà di delineare illeciti amministrativi. Ecco, allora, che l’attuazione del programma ispirato al principio del diritto penale minimo e il passaggio dal presidio penale a quello amministrativo deve fare i conti con l’indicato riparto di attribuzioni legislative. Detto altrimenti, è necessario pensare a forme di raccordo e a luoghi istituzionali in cui lo stesso deve attuarsi.

I rapporti tra giurisdizione penale e giurisdizione amministrativa

Alcune osservazioni, in chiusura, per quel che riguarda i rapporti con il processo amministrativo, ancora una volta con l’intento di evidenziare quanto possa essere utile un approccio di sistema che, attento alle interrelazioni tra ambiti apparentemente diversi, sperimenti la possibilità di modularle e valorizzarle, in una prospettiva di recupero complessivo di efficienza, oltre che di rafforzamento delle garanzie.

È noto che della struttura di un consistente numero di fattispecie penali è parte l’atto amministrativo.

Si pensi, per citarne solo alcune, a talune delicate fattispecie penali poste a presidio del territorio e della sua corretta programmazione, a certe fattispecie poste a tutela della pubblica amministrazione, a fattispecie nel settore dell’immigrazione.

In questi casi, la verifica circa la sussistenza dell’illecito penale passa anche per il riscontro dell’illegittimità del provvedimento amministrativo, oggi rimessa, ai fini penali, al giudice penale, ferma la valutazione che, ad altri fini, della legittimità o meno dello stesso atto è chiamato a pronunciare il giudice amministrativo allorché adito su ricorso di parte.

Sono sempre più frequenti, peraltro, soprattutto in alcuni settori (si pensi al governo del territorio, alla lottizzazione, ad esempio), casi imbarazzanti in cui le suddette valutazioni non coincidono affatto.

Il tema è non poco delicato.

C’è tuttavia da chiedersi se non si possa e debba pensare a forme di raccordo tra i due processi, in specie ad una valutazione pregiudiziale dell’illegittimità provvedimentale da parte del giudice amministrativo, all’uopo adito dall’organo dell’accusa penale, se mai nell’ambito di un rito che abbia una corsia preferenziale.


[1] F. Palazzo, Per un piano di salvataggio della giustizia penale, contro slogan ed illusioni, in “Cassazione penale”, 2/2008, p. 455.

[2] Romania, Marocco, Albania, Tunisia, Algeria, Nigeria, paesi dell’ex Jugoslavia, Senegal. Dato, questo, rilevato al 30 aprile 2008.