Per una autonomia responsabile: cambiare la governance

Di Giliberto Capano Venerdì 29 Febbraio 2008 15:00 Stampa

La politica universitaria italiana mostra ormai chiaramente il suo limite essenziale: la strutturale mancanza di attori responsabili e capaci di agire nell’interesse pubblico. Si pensi, ad esempio, al proliferare irrazionale dei corsi di studio post riforma degli ordinamenti didattici; all’attuazione della stessa riforma, che è stata applicata in modo totalmente autoreferenziale (spesso il contenuto dei corsi di studio altro non è che un rifacimento del vecchio ordinamento sotto altre spoglie); al modo attraverso il quale le università spendono i propri soldi (certo, i finanziamenti sono limitati, ma a fortori dovrebbero essere spesi razionalmente). Pensiamo, poi, ad un centro del sistema che – con il suo aggrovigliato intrecciarsi di relazioni tra ministro, ministero, Consiglio universitario nazionale, Conferenza dei rettori e Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario – non riesce a produrre linee strategiche coerenti e convincenti.

Insomma, niente di nuovo sotto il sole della politica universitaria italiana. Di fronte ai problemi seri e veri di un sistema che mostra tutto il suo ritardo e la sua inadeguatezza, in prospettiva comparata, soprattutto per quanto riguarda il suo ruolo nella società di primaria istituzione di istruzione superiore, tutti i protagonisti reiterano comportamenti già visti e nulla di veramente nuovo (un diverso comportamento, una nuova idea, un nuovo progetto di sviluppo) sembra apparire all’orizzonte. L’impressione che se ne ricava è quella di un sistema che ha irrimediabilmente intrapreso la strada del declino storico. Un declino, si badi bene, che non riguarda tanto la qualità della produzione scientifica delle università italiane e quella dei suoi docenti – che, tenuto conto delle scarse risorse investite, restano di buon livello – quanto piuttosto il ruolo di istituzione portante per la trasmissione di conoscenze, di istituzione formativa per eccellenza. Un declino che riguarda i modi in cui la politica universitaria è progettata, attuata e gestita a tutti i livelli istituzionali. Il perché di questa situazione va ricondotto al legame tra gli attori protagonisti – con le loro idee e i loro interessi – e gli assetti istituzionali vigenti. Sembra, insomma, che il meccanismo perverso che ha originato l’attuale situazione e che contribuisce al suo progressivo aggravarsi sia dato dall’intreccio fra gli assetti di governo delle università e del sistema nazionale e le logiche di azione degli attori protagonisti della politica universitaria. Nell’attuale momento storico, la questione della governance è quindi quella centrale e ineludibile. Capire come si sostanzia il suddetto intreccio è importante per comprendere la gravità della situazione e, quantomeno, per svelare l’ipocrisia istituzionalizzata che caratterizza la politica universitaria italiana.

Gli attori della politica universitaria: irresponsabili, incompetenti e autoreferenziali Il primo attore che merita la nostra attenzione è quello più generale: la società italiana. Ogni istituzione cerca di rispondere alle sfide che il contesto sistemico in cui opera le lancia; e ogni istituzione ha tanto valore quanto più rappresenta qualcosa di importante, dal punto di vista materiale e immateriale, per il sistema che la circonda. Ebbene, la società italiana, di fatto, non considera particolarmente significativa l’università. E come potrebbe essere altrimenti? Il nostro paese si caratterizza per una bassa mobilità sociale, e quella poca che c’è non è dovuta al percorso educativo quanto, piutto- sto, all’origine sociale e al contesto relazionale della famiglia; i cittadini non considerano la spesa familiare per l’università un investimento sul futuro (e hanno, seppur parzialmente, ragione); al tempo stesso l’università è considerata un diritto da garantire a tutti (tanto non fa alcuna differenza pratica); studiare in una università piuttosto che in un’altra non è ritenuto significativo, conta, per quello che conta, il pezzo di carta; le università non formano le élite politiche come accade in altri paesi (in Italia le élite si formano attraverso percorsi diversi, di partito o di rappresentanza categoriale o di appartenenza sociale). Insomma l’università non è percepita dalla società come un elemento di particolare rilevanza sistemica. Persiste il vuoto mito della laurea ma, al di là di questo simulacro, nella società italiana l’università ha un ruolo sostanzialmente marginale.

In questo contesto sistemico, in cui manca una forte pressione sociale per il buon funzionamento del sistema universitario, operano altri attori che, di fatto, sono lasciati liberi di agire in modo irresponsabile, a volte incompetente, spesso autoreferenziale.

Il ruolo degli attori che governano il sistema dal centro rappresenta un curioso mix di questi attributi. I governi, irresponsabilmente, non hanno mai avuto il coraggio di investire nel sistema universitario risorse sufficienti per renderlo, da questo punto di vista, competitivo con gli altri paesi occidentali. Soprattutto, nell’era dell’autonomia, i governi non sono stati capaci di cambiare il proprio modo di governare a distanza le università, lasciandole, di fatto, nelle mani delle corporazioni accademiche (e questo sia quando il sistema era centralizzato sia ora con la politica delle autonomie), salvo che nei momenti in cui, visti alcuni evidenti effetti negativi, i governi sono intervenuti con nuove norme, regole e regolette per cercare di raddrizzare il sistema (questo è successo, ad esempio, nel 1995, quando venne emanato un decreto che «costringeva» le università ad emanare i loro statuti autonomi; oppure nel 2005, quando una norma ha portato ad una le idoneità concorsuali, per ovviare, fuori tempo massimo, all’esplosione delle promozioni immeritate; questo è successo anche qualche mese fa con l’emanazione dei nuovi requisiti minimi per l’attivazione dei corsi di studio, con il quale si cerca di imporre alle università la riduzione della pletorica massa di corsi di studio che negli ultimi anni erano stati istituiti).

I partiti politici, d’altro canto, con una omogenea incompetenza curiosamente bipartisan, non hanno mai avuto vere e articolate strategie di policy sulle questioni universitarie: solo slogan, parole vuote. L’apparato centrale che si occupa di università (nelle diverse denominazioni che ha assunto storicamente) ha sempre mostrato stupefacenti lacune tecniche e organizzative nello svolgere il proprio ruolo: una particolare incompetenza addestrata che si è espressa al suo acme quando si è trattato di costruire il software necessario per la registrazione dei nuovi corsi di laurea (chiedete i particolari a chiunque abbia avuto a che fare con il problema e vi stupirete).

La Conferenza dei rettori, organismo di coordinamento delle università, non esprime una chiara e innovativa linea di condotta, persistendo con un comportamento meramente rivendicativo, poiché non riesce a superare la sua strutturale spaccatura interna (tra università che hanno buone condizioni finanziare e università che, invece, sono sull’orlo del fallimento; tra grandi università di ricerca e piccole, periferiche università di provincia che, di fatto, svolgono solo una funzione di servizio didattico sul territorio).

Il Consiglio universitario nazionale continua a svolgere il suo ruolo di mediazione degli interessi tra le corporazioni accademiche (e, ad esempio, può essere certamente considerato uno degli artefici dell’improvvida e deludente attuazione della riforma degli ordinamenti didattici, essendone, nella realtà, la vera guida).

Il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario è stato l’unico attore centrale a fare bene il suo mestiere. Si tratta di un organismo tecnico che elabora prodotti e pareri di buon livello che, solitamente, il ministro di turno cerca di disattendere o di forzare. Anche le università, prese singolarmente, hanno interpretato la loro autonomia con un elevato tasso di autoreferenzialità, un grande senso di irresponsabilità e, in alcuni casi, con una discreta dose di incompetenza. Molte hanno investito la gran parte delle risorse finanziarie destinate al reclutamento per promuovere i propri docenti, molte hanno contratto mutui poco sostenibili, tutte hanno acceso miriadi di corsi di laurea per accontentare le proprie facoltà e i propri docenti. Insomma, hanno agito quasi che fossero istituzioni totalmente avulse da un contesto sistemico: in nome della libertà della scienza hanno agito come attori totalmente indipendenti (dalla società, dal finanziamento pubblico, dalle proprie responsabilità rispetto alla collettività).

Gli attori di base della politica universitaria, professori e studenti (ma anche famiglie), non sono da meno. I professori sono ubiqui: alcuni sono al governo e all’opposizione, nei partiti e in parlamento; altri governano le università, fanno i consulenti dei ministri (dell’università ma non solo), formano il CUN e la CRUI, fanno parte di sindacati di categoria (più o meno rappresentativi, sia autonomi che appartenenti alle tre confederazioni maggiori), scrivono sui giornali come editorialisti. Ovviamente, anche se coinvolti in questo tourbillon di ruoli, per la gran parte i professori universitari fanno anche il loro mestiere: insegnano e fanno ricerca. Spesso, però, in situazioni logistiche che lasciano molto a desiderare, senza capire granché di quello che sta succedendo nella politica universitaria italiana (e non potrebbe essere altrimenti: il buon professore universitario è quello che studia, fa ricerca e insegna). La riforma degli ordinamenti didattici li ha trovati culturalmente impreparati e nessuno si è degnato di spiegare loro i fini e gli obiettivi di tale intervento strategico; continuano a ritenersi tenutari unici del sapere e a pensare di avere un ruolo sociale assolutamente rilevante. Molti continuano a pensare che il loro ruolo sia quello di trasmettere conoscenze di alto livello e di preparare gli studenti all’attività di ricerca. Non vogliono accettare che, nell’università di massa, l’università ha anche il ruolo di aumentare il capitale sociale (e quindi di acculturare il cittadino medio) e di integrarsi, anche, con le esigenze del sistema economico. Gli studenti (e con loro le rispettive famiglie) continuano a fare scelte poco ponderate per quanto concerne i corsi a cui iscriversi (seguendo mode ovvero suggerimenti amicali o, ancora, tradizioni familiari). Nessuno dà loro un orientamento vero, e loro agiscono in uno stato di beata incoscienza.

In questo coacervo di attori totalmente autoreferenziali, irresponsabili e a volte incompetenti non ci si deve stupire se la riforma degli ordinamenti didattici ha prodotto una situazione di caotica proliferazione dei corsi di studio, se le proposte di riforma della didattica, della docenza, della valutazione sono basate su soluzioni ideologiche ovvero del tutto incoerenti con gli obiettivi che si deve perseguire, se tutti continuano ad accusare gli altri per i problemi del sistema e nessuno ha il coraggio di guardare al proprio comportamento.

Gli assetti istituzionali come causa prima del declino D’altra parte attori con simili inclinazioni trovano un terreno fertile nell’assetto istituzionale di governo del sistema e delle singole istituzioni. Le istituzioni universitarie sono governate in base ad un principio democratico-corporativo. Tutti gli organi monocratici sono elettivi, tutti gli organi collegiali devono rappresentare le diverse componenti dell’università (professori, studenti e docen- ti). L’assetto istituzionale delle università è strutturalmente basato sul conflitto di interessi. Si pensi, ad esempio, al preside di facoltà che partecipa al senato accademico, massimo organismo di governo sulla didattica o sulla ricerca: questi da una parte dovrebbe tutelare gli interessi della sua facoltà, dall’altra contribuire a decisioni per l’interesse generale: uno strutturale conflitto di interesse. Si pensi poi a coloro che sono eletti direttamente a rappresentare il proprio «corpo» negli organi collegiali (professori, personale tecnico-amministrativo, studenti): essi dovrebbero da una parte tutelare i loro rappresentati e dall’altra contribuire a prendere decisioni per l’interesse generale: uno strutturale conflitto di interessi. Insomma, le università si autogovernano attraverso meccanismi istituzionali che costitutivamente non possono che produrre scelte distributive (dare qualcosa a tutti) e riprodurre lo status quo, ignorando ogni dimensione tecnica del problema. In questo contesto istituzionale gli interessi dei singoli attori sono semplicemente fotografati. Questo sistema riproduce i medesimi rapporti di forza, i medesimi interessi, il medesimo modo di vedere le cose. Può un’istituzione governata in questo modo prendere decisioni responsabili? Può un’università governata in questo modo decidere di distribuire le proprie risorse in modo strategico? Ovviamente no. Questi assetti, ereditati dal passato, sono totalmente incongruenti con la recente attribuzione di autonomia alle università: con l’autonomia le università debbono decidere su questioni importanti (mentre prima lo faceva il ministero), decisioni che spesso implicano la riallocazione di risorse finanziare oppure scelte strategiche sui settori didattico-scientifici da privilegiare nel medio periodo. Lo strutturale conflitto di interessi che sta alla base del governo delle università impedisce per definizione la possibilità di scelte responsabili.

Il fallimento della politica dell’autonomia, sostanziata dalla crisi finanziaria, dalla pessima allocazione delle risorse, dal proliferare dei corsi di studio, ha nel meccanismo di governo degli atenei un fattore estremamente facilitante. L’altra faccia, però, di questa dinamica, è costituita dagli assetti di governo nazionali: un ministero tecnicamente inadeguato che ha rinunciato al proprio ruolo istituzionale a favore del CUN ovvero dei consiglieri di turno dei ministri; la presenza di una formula di finanziamento pubblico che tende ancora a favorire la spesa storica rispetto alla performance delle istituzioni; la presenza di due diversi attori in rappresentanza del mondo accademico (la CRUI e il CUN); l’assenza di un monitoraggio legittimato della ricerca e della didattica. Questi fattori hanno reso monca la politica delle autonomie: se il centro del sistema una chiara strategia e non ha gli strumenti per perseguirla, oltre che la volontà, ovviamente, il sistema non viene né governato né indirizzato. Il circolo diventa vizioso e lo strutturale sottofinanziamento del sistema ne aumenta la velocità. In questo contesto istituzionale, strutturalmente deresponsabilizzato e deresponsabilizzante, le diverse logiche degli attori possono liberamente esprimersi e persistere nel corso del tempo. Tutti pensano di portare a casa qualche vantaggio (si pensa qui, provocatoriamente, agli studenti che ritengono di avere un vantaggio se possono fare l’università sotto casa, ovvero se possono iscriversi ad un dato corso di studio nella città che preferiscono, o ai professori che possono continuare ad insegnare quello che insegnavano e nello stesso modo in cui lo insegnavano anche dopo la riforma degli ordinamenti didattici). Ma alla fine il sistema entra in crisi, le decisioni tendono a riprodurre idee vecchie e interessi esistenti, lentamente il sistema prende la strada del declino e, solitamente, a vedere gli effetti del declino sono le generazioni future.

L’unica alternativa praticabile: cambiare radicalmente la governance e credere davvero nell’autonomia Ovviamente molti sono in disaccordo con questa analisi. Anzi, vi è chi sostiene che il problema del governo delle università sia costituito da una specie di deficit democratico, rappresentato dal fatto che il diritto di voto è attribuito solo ai docenti (con una piccola rappresentanza degli studenti e del personale tecnico-amministrativo). Secondo costoro, il sistema funzionerebbe molto meglio se fosse completamente democratico se, cioè, tutte le componenti dell’ateneo potessero partecipare, ad esempio, alle elezioni del rettore e se la composizione degli organi collegiali non fosse troppo accademico-centrica. Ma, se fossimo realisti e seri, dovremmo sapere che simili soluzioni non farebbero altro che aggravare i problemi dell’università, innescando ulteriori degenerazioni dell’attuale pessimo funzionamento. Un esempio: se tutto il personale tecnico-amministrativo partecipasse alle elezioni del rettore, avremmo il curioso caso di una organizzazione pubblica in cui il datore di lavoro è eletto dai propri dipendenti. Come potrebbe detto datore di lavoro svolgere bene il suo mestiere, ad esempio nella contrattazione integrativa, essendo, di fatto, costantemente sotto il ricatto della controparte negoziale? D’altra parte ben sappiamo, o dovremmo sapere, che nell’ultimo decennio altri paesi dell’Europa continentale, che prima del nostro avevano intrapreso la strada della politica universitaria autonomistica, hanno radicalmente cambiato il sistema di governo degli atenei, proprio perché si erano resi conto che l’autonomia abbisogna di una grande responsabilità istituzionale e che il meccanismo democratico-corporativo tende a produrre, per contro, decisioni irresponsabili. Ci si riferisce a di paesi come la Svezia, la Danimarca, l’Austria, l’Olanda. Qui, con grande realismo e lungimiranza, si è deciso di seguire, per quanto possibile, l’esempio dei paesi anglosassoni, dove il principio di autogoverno delle università è stato declinato in altro modo (paesi, non dimentichiamolo, dove le università sono nate libere dallo Stato e non, come sul continente, come un prodotto dello Stato).

Cosa hanno fatto questi paesi? Semplicemente quello che dovremo fare anche noi. Essi hanno drasticamente spezzato la catena dell’autogoverno fondato sul principio della rappresentanza corporativa, proprio della tradizione universitaria dell’Europa continentale, per scegliere la strada della nomina a cascata propria della tradizione anglosassone. Essi hanno introdotto un diverso meccanismo per formare gli organi collegiali e, al tempo stesso, hanno rafforzato il ruolo e le responsabilità degli organi monocratici (che nel nostro sistema sono continuativamente in balia dei propri elettori). In sostanza, con declinazioni diverse, questi paesi hanno stabilito che gli organi di governo degli atenei (con l’esclusione del senato accademico) debbono essere formati attraverso un meccanismo di nomina e non mediante il meccanismo elettorale. I consigli di amministrazione sono nominati dagli stakeholder (forze sociali, istituzioni pubbliche, in alcuni casi anche, in parte, dal senato accademico). Il consiglio di amministrazione nomina il rettore, il quale ha poteri pieni, decisamente superiori a quelli che sono ora a sua disposizione in Italia. Il rettore nomina i dirigenti, i presidi e i direttori di dipartimento. Non si vuole in questa sede entrare troppo nei dettagli,1 quello che conta è che, in un sistema strutturato in questo modo, si verticalizzano i processi decisionali e si individuano dei centri di responsabilità in modo netto e trasparente. Certo, questa soluzione istituzionale può creare dei problemi (ad esempio il rischio che il consiglio di amministrazione, composto perlopiù da esterni, possa essere un organismo politicizzato e partigiano), ma si tratta di problemi che possono essere risolti con il buon senso e con un attento design istituzionale. Ovviamente il principio di organizzazione istituzionale qui proposto richiederebbe alcune puntualizzazioni soprattutto in relazione al ruolo e alle caratteristiche del centro del sistema universitario, la cui funzione strategica necessiterebbe di un sistema di valutazione e monitoraggio stabile e professionalizzato (qualcosa di, duole dirlo, diverso dalla costituenda ANVUR, un’agenzia per la valutazione che il legislatore ha immaginato come un moloch onnisciente e onnipotente),2 capace di svolgere le proprie funzioni in modo celere, efficace e altamente legittimato; un attore che rappresenti in modo inequivocabile gli interessi delle istituzioni universitarie; un apparato ministeriale altamente professionalizzato capace di supportare continuativamente l’attività di indirizzo e programmazione del ministro; una precisa volontà politica, bipartisan, di perseguire logiche di tipo meritocratico.

Ma, prima di tutto, bisogna avere il coraggio di aggredire il feticcio «democraticista» sul quale si fonda il sistema di governo degli atenei. Se si andasse nella direzione qui proposta, si consentirebbe alle università di poter essere veramente responsabili e, al tempo stesso, si potrebbero superare altre impasse che storicamente caratterizzano il sistema universitario in relazione, soprattutto, alla didattica e al personale docente. Rimodellando, infatti, sulla base delle linee appena tracciate gli assetti istituzionali della governance del sistema universitario italiano si metterebbero in grado tutti gli attori di giocare in modo chiaro e trasparente la propria partita. Al tempo stesso, verrebbero minate le basi storiche e funzionali che limitano l’autonomia sostantiva e procedurale delle università su due elementi essenziali: la gestione del personale e gli ordinamenti didattici. Un ateneo autonomo e responsabile dovrebbe avere la possibilità di usare nel modo più libero possibile uno strumento essenziale per il proprio funzionamento come la gestione del personale. Da questa prospettiva, il secolare dibattito sui concorsi universitari si scioglie come neve al sole e dimostra tutta la sua nefasta inutilità. Se una università è autonoma e responsabile deve potersi scegliere i docenti che vuole e deve poterli premiare, promuovendoli, se lo ritiene opportuno (raramente si riflette sul fatto che per promuovere un proprio valido docente al rango superiore un ateneo debba bandire un concorso nazionale ovvero aspettare che il proprio docente riesca a conquistarsi un’idoneità nella lotteria concorsuale). Se il centro del sistema è capace di fare il suo mestiere, i singoli atenei faranno politiche del personale conformi alle proprie possibilità e ai propri obiettivi istituzionali. In ultimo, gli atenei hanno il diritto di essere i datori di lavoro dei propri docenti: il meccanismo del concorso pubblico, che sia locale o nazionale, e lo status giuspubblicistico dei docenti fa sì che il datore di lavoro dei docenti universitari sia una specie di ambigua ed evanescente entità; il che, di fatto, rafforza il convincimento che il docente universitario sia una specie di libero professionista pubblico, invece che un formatore dal quale dipende il capitale umano, e quindi il futuro, della nostra società.

Lo stesso dicasi per la didattica. Perché mai un ateneo autonomo e responsabile deve essere costretto a sottostare a regolazioni minute del contenuto curriculare dei propri corsi di studio, come viene imposto dalle attuali regole sulle classi di laurea? Se il centro del sistema fosse capace di costruire un processo di accreditamento e di operare un’attenta valutazione ex post dell’efficienza e dell’efficacia formativa non ci sarebbe bisogno di limitare l’autonomia dell’università con lacci e laccioli, requisiti e standard minimi.

Insomma, cambiare la governance e credere davvero nella politica autonomistica come strategia per lo sviluppo del sistema universitario italiano, questa dovrebbe essere la linea guida di chi voglia davvero riformare il nostro sistema universitario. In realtà, però, pare che questa strada non sia ancora chiaramente vista dai nostri governi e, duole dirlo, nemmeno dalla coalizione di centrosinistra. L’attuale governo sta investendo molto nella logica della valutazione. Varie volte il ministro Mussi ha esaltato il ruolo delle valutazione, grazie anche al ruolo che l’ANVUR avrà nel governo del sistema. Il fatto è che l’esperienza comparata ci insegna che non basta valutare (attività già di per sé complessa) per indirizzare in modo virtuoso l’azione delle università. È necessario che sulla base della valutazione vi siano decisioni coerenti. Decisioni del centro del sistema e decisioni delle singole università. Se non si cambiano gli assetti istituzionali del centro del sistema e, soprattutto, delle singole università, la valutazione in quanto tale non assicura affatto un reindirizzo virtuoso del sistema. Illudersi che ciò sia procrastinabile significa mostrare una certa ingenuità, oltre che una mancanza di conoscenza delle esperienze comparate, e forse una certa mancanza di coraggio nell’affrontare il toro per le corna. Certo, buone pratiche di valutazione possono, nel medio-lungo periodo, generare processi di apprendimento. Ma abbiamo davvero tutto questo tempo? Probabilmente no. Ed è quello che hanno capito anche in Germania, uno dei paesi in cui più forte è sempre stata la tradizione conservatrice delle politiche universitarie. Qui non solo già cinque Lander hanno radicalmente cambiato la governance delle università che insistono nei loro territori, ma la signora Merkel ha definitivamente attuato la scelta operata dal suo predecessore Schroeder: sono, cioè, state individuate le dieci università, le quaranta scuole di dottorato e i trenta gruppi di ricerca migliori del paese a cui, nei prossimi cinque anni, verranno attribuite consistenti risorse aggiuntive. Queste sono decisioni importanti prese dopo un’attenta valutazione. Per contro, quanto ha inciso nell’attribuzione delle risorse l’unica vera attività di valutazione operata, da che si ricordi, della ricerca universitaria italiana? Come è stata, cioè, utilizzata la valutazione del CIVR 2001-03? In modo assolutamente marginale, quasi ininfluente. Valutare, quindi, serve per decidere ma non sostituisce la decisione. A maggior ragione, pertanto, per aiutare le università a decidere bene, per sviluppare una buona dose di sana competizione tra i nostri atenei e per stimolare il governo a smetterla di regolare il sistema universitario cominciando a governarlo, è necessario aiutare le università a dotarsi di nuovi assetti di governo. Lo Stato italiano deve decidere se credere davvero nell’autonomia universitaria, intervenendo drasticamente negli assetti istituzionali del governo degli atenei e nelle caratteristiche costitutive della governance di sistema. Altrimenti, coerentemente, si torni indietro, si torni al sistema centralizzato, in cui le università erano emanazioni funzionali dello Stato. Basta stare in mezzo al guado!

 

[1] Per una proposta articolata si veda G. Capano, Un po’ di coraggio per cambiare l’università, «Il Mulino», 5/2004, pp. 888-98. Per un’analisi dettagliata delle disfunzioni della governance istituzionale italiana in prospettiva diacronica si veda G. Capano, Looking for serendipity: the problematical reform of government within Italy’s Universities, in «Higher Education», 2008, in corso di stampa e G. Capano, Il nodo irrisolto: il governo degli atenei, in R. Moscati e M. Vaira (a cura di), L’università di fronte al cambiamento: realizzazioni, problemi, prospettive, Il Mulino, Bologna 2008. Per un’analisi in chiave storica, giuridica e politologica del problema del governo degli atenei, anche in prospettiva comparata, si rimanda a G. Capano e G. Tognon (a cura di), La crisi del potere accademico in Italia. A chi affidare le nostre università?, Il Mulino, Bologna, in corso di stampa.

[2] La costituenda ANVUR si vede attribuita il compito di valutare «tutto» (didattica, ricerca istituzionale, prestazioni individuali). Non esiste nel mondo occidentale una struttura con così tante competenze. Senza contare, poi, che essa non è pensata come una struttura di professionisti della valutazione. Viste queste premesse è facile ipotizzare che essa conseguirà magri risultati operativi.