Togliatti e Stalin. Il comunismo sovietico e la storia del Novecento

Di Giuseppe Vacca Venerdì 29 Febbraio 2008 16:48 Stampa

Se Stalin è stato il principale artefice della «costituzione materiale»1 del comunismo sovietico dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Cinquanta del secolo passato, Togliatti ha avuto lo stesso ruolo nella vicenda del comunismo italiano almeno fino al 1968. Il rapporto che si stabilì fra loro è dunque essenziale per comprendere appieno tanto la storia del PCI, quanto la personalità di colui che ne è stato l’autore principale.

Ma per farlo validamente non ci si può limitare al decennio 1944-53, né alla valutazione di momenti decisivi del rapporto gerarchico esistente fra i due; sono necessarie, invece, una riconsiderazione del comunismo staliniano che non si proponga di ridurlo a «storia criminale», e una ricognizione della storia d’Italia che costituì il principale terreno d’azione di Togliatti dalla caduta del fascismo alla morte. In altri termini, il banco di prova della valutazione storica dell’opera politica di Togliatti non può che essere quello dell’Italia repubblicana, dalle origini alla maturità. A questi criteri si ispirano, pur nella varietà delle impostazioni, i contributi raccolti nel volume «Togliatti nel suo tempo», che contiene, rielaborati, quasi tutte le relazioni e gli interventi pronunciati nel convegno organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci e dall’Università di Roma Tre nel dicembre 2004. Nell’economia di questo scritto, dedicato soprattutto al profilo internazionale della figura di Togliatti, non potremo dar conto della ricchezza dei contributi attinenti al rapporto fra il PCI e la storia d’Italia, né di tutti quelli che forniscono utili sondaggi sul retroterra politico e culturale di Togliatti. Faremo tuttavia qualche eccezione che ci pare indispensabile. Innanzitutto, da questi contributi risulta rafforzata l’esigenza di approfondire l’indagine sulla cultura politica di Togliatti per ragioni che a me paiono ovvie, ma che non hanno avuto finora un adeguato rilievo: la prima è che il retroterra culturale di un leader della statura di Togliatti determina l’impianto e le modalità di esecuzione della sua politica. Dato al «legame di ferro» con l’URSS il ruolo centrale che gli spetta, è attraverso il filtro della visione della storia d’Italia e della storia mondiale della prima metà del Novecento che quel legame venne tradotto in un disegno politico nazionale, perseguito con una capacità strategica e tattica che nessuno ha mai disconosciuto. Sotto questo profilo mi limito a citare i saggi di Roberto Gualtieri e di Renato Moro perché arricchiscono in modo significativo la nostra conoscenza del contributo di Togliatti alla fondazione della Repubblica e allo sblocco della «questione cattolica». Per quanto riguarda il primo tema, mi riferisco in particolare all’azione volta a ottenere una Costituzione che il PCI potesse considerare il suo «programma fondamentale », facendone la leva per l’educazione del sovversivismo delle classi subalterne che aveva improntato di sé tutta la storia del socialismo italiano. Si può graduare come si vuole l’enfasi sul «mito dell’URSS» come altra risorsa fondamentale per quell’azione di disciplinamento, utile a dare un’apparente soddisfazione al millenarismo di quelle masse proiettandolo in un futuro indeterminato. Ciò non toglie che i materiali con cui venne operata la conciliazione fra movimento operaio e democrazia, attraverso lo strumento costituzionale, non avevano a che fare né con il comunismo staliniano, né con il rapporto gerarchico fra Togliatti e Stalin. D’altro canto, un documento significativo della rilevanza della «questione cattolica» e della lungimiranza con cui Togliatti la impostò è fornito dall’ampio sondaggio della percezione della sua figura nel mondo cattolico operato da Renato Moro. Quello che più colpisce nel suo contributo è la divaricazione profonda esistente fra la demonizzazione per cui propendeva la maggio- ranza della Chiesa ufficiale e dei fedeli nell’età pacelliana, e la valutazione realistica, la capacità di De Gasperi di comprendere e di prendere le misure dell’avversario (per non dire della sintonia dei dossettiani), che, pur in uno scontro frontale, ispiravano i comportamenti della leadership democristiana verso il PCI. Vengono alla mente due considerazioni essenziali: la prima – ovvia ma non ancora sufficientemente approfondita – è la conferma di quanto le élite politiche di governo e d’opposizione fossero più moderne e avanzate rispetto al paese profondo; la seconda è che se, come è noto, la conciliazione delle masse cattoliche con la democrazia non fu meno travagliata di quella delle masse socialcomuniste, l’impostazione togliattiana della «questione cattolica» – dalla costituzionalizzazione dei Patti lateranensi alla richiesta incessante di collaborazione rivolta alle masse cattoliche – costituì un elemento fondamentale per consentire a De Gasperi di salvaguardare la laicità della DC; a sua volta egli, mantenendo ferma l’opzione antifascista e la lealtà del suo partito al patto costituzionale anche di fronte alle pressioni vaticane e degli Stati Uniti, favorì l’evoluzione del PCI come forza basilare della democrazia repubblicana. Ciò vuol dire non solo che la storia dei due maggiori partiti della prima Repubblica non si comprende se non in rapporto alla storia d’Italia, ma anche che il criterio più perspicuo per valutarla è quello proposto da Roberto Gualtieri nel suo contributo dedicato a «Palmiro Togliatti e la costruzione della Repubblica»,2 che, raccordandosi a una proposta interpretativa di Pietro Scoppola,3 dimostra come, da un punto di vista storico, la DC e il PCI siano stati «complementari».

Altro tema su cui è opportuno soffermarsi è quello del «partito nuovo». Che esso sintetizzasse le innovazioni strategiche, politiche e culturali del PCI postbellico è un’autorappresentazione su cui Togliatti non si stancò mai di insistere. Tuttavia, in alcuni dei contributi più rilevanti di questo volume – da Gualtieri a Gozzini e a Pons – si conferma che quell’autorappresentazione corrisponde al giudizio che se ne può dare in sede storica. Ma la ragione per cui mi pare utile ritornarci è che, a mio avviso, la principale novità del «partito nuovo» non fu tanto la creazione di un partito di massa, quanto l’assunzione anche di altre caratteristiche che quella categoria sociologica, da sola, non spiega. Sotto questo profilo il contributo più interessante del volume mi sembra quello di Paolo Pombeni: «Sul retroterra politico di Palmiro Togliatti. Note in margine alla formazione di un leader». Nato come intervento nella discussione, Pombeni lo ha poi sviluppato in un elaborato equivalente a una relazione e credo che gliene dobbiamo essere grati. Rievocando lo sfondo delle principali culture politiche europee fra le due guerre e proiettando su di esso l’opera politica del Togliatti «costituente» (1944-47), Pombeni conclude in modo persuasivo che «la riflessione togliattiana si iscriveva in una prospettiva europea e non certo sovietica». Naturalmente questo giudizio si basa non solo sulla vasta conoscenza comparatistica e sulla lucidità del senso storico dell’autore (lo storico «normalmente non si interessa di misurare l’accettabilità o addirittura la proponibilità come modello dei suoi oggetti di studio, bensì di capire ciò che regola e spiega le relazioni, nel nostro caso le relazioni politiche degli uomini fra loro e nei vari contesti in cui operano»),4 ma anche sulla consapevolezza di dover dedicare particolare attenzione, nel caso di Togliatti, allo spessore del suo pensiero e alla sua grande curiosità intellettuale, nutrita di uno scambio molto ricco con la cultura liberale, socialdemocratica, marxista e cattolica europea degli anni Venti e Trenta. Per limitarmi al tema del «partito nuovo», il suggerimento di Pombeni è che non se ne possano cogliere le caratteristiche peculiari se non si tiene conto della lezione che Togliatti aveva appreso non solo dallo studio del fascismo, ma anche dalla temperie culturale dei Fronti popolari e dall’esperienza roosveltiana (la mobilitazione dell’opinione pubblica per portare gli Stati Uniti a intervenire nella guerra antihitleriana) sul ruolo degli intellettuali nella politica di massa. Infatti, il disegno di ricostruzione della nazione italiana che Togliatti propose nel 1944-45 aveva un’ambizione perseguibile solo con un mutamento profondo della vita intellettuale del paese. Com’è noto, egli fece della pubblicazione degli scritti di Gramsci e dell’organizzazione della cultura promossa o sostenuta dal PCI lo strumento principale del suo disegno. Ma questo voleva dire orientare tutta l’azione del partito non solo alla mobilitazione e all’organizzazione delle masse, ma anche alla promozione di un mutamento capillare dei rapporti fra dirigenti e diretti, intellettuali e popolo. Un’opera che sarebbe stata inconcepibile per un partito di mera «rappresentanza sociale», e richiedeva invece lo stabilimento di un rapporto complessivo e originale con la nazione: un progetto per l’Italia capace di cambiarne il profilo culturale come premessa di un mutamento degli equilibri e dei rapporti fra le classi e i gruppi sociali. Si può osservare che quel disegno riuscì solo in parte, principalmente a causa di un’impostazione basata sulla figura degli «intellettuali tradizionali». Essa penalizzò la cultura del programma del PCI e la sua capacità di misurarsi con il capitalismo democratico giunto a maturazione anche in Italia alla fine degli anni Cinquanta.5 Ma si può concludere con Pombeni che, per le ragioni accennate, il «partito nuovo» non rientrava né nel modello leninista, né in quello dei partiti socialdemocratici della «rappresentanza di classe», costituiva piuttosto «una via comunista all’interclassismo come premessa inevitabile per l’esercizio dell’‘egemonia’ in termini gramsciani sulla società»; operava, per così dire, «il suicidio del Partito Comunista Italiano, se si intende ‘comunista’ nel senso proprio, cioè in quello di partito incluso fra la Terza Internazionale e il modello sovietico». Ciò, mi sia consentito aggiungere, era del tutto coerente con la concezione della «democrazia progressiva»: un’idea maturata parallelamente in Togliatti e in Gramsci negli anni Trenta che, se certo non concepiva lo Stato democratico nei termini in cui abbiamo imparato a conoscerlo e a farlo nostro dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia si lasciava alle spalle la nozione strumentale dello Stato-classe della tradizione leninista e iniziava quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» che mutò il codice genetico del PCI.6

Di tale mutamento Togliatti non fu un agente passivo, ma il principale artefice. Spiegare il mutamento è il compito precipuo della ricerca storica. Si può anche pensare che il ruolo di deuteragonista conquistato d a l PCI nella prima Repubblica sia stata una disgrazia per il paese, ma quando Aga-Rossi e Zaslavsky scrivono che «la società italiana ha pagato un caro prezzo per la distruzione a opera del PCI e dello stalinismo internazionale, della sinistra democratica antistalinista»,7 è difficile indovinare a quale storiografia sull’Italia repubblicana essi possano appoggiare il loro giudizio.

I temi che abbiamo toccato riguardano solo alcuni aspetti della funzione nazionale del PCI togliattiano; ma, se non ci si mette nelle condizioni di comprendere il rapporto fra un grande partito e la storia nazionale, non si può capire neppure come Togliatti abbia potuto esercitare un ruolo rilevante nel comunismo internazionale. Questo, che costituisce l’oggetto delle riflessioni che seguiranno, richiede una messa a punto preliminare: innanzitutto una periodizzazione perspicua del rapporto fra Togliatti e Stalin; in secondo luogo la capacità di assumere «il vincolo gerarchico fra Stalin e Togliatti» come «un punto di partenza, non un punto di arrivo della riflessione storica»;8 in terzo luogo la capacità di adoperare la nozione di «stalinismo », nata dal linguaggio politico-giornalistico e perciò sovraccarica di risonanze emotive, come un’effettiva categoria storiografica; infine, la possibilità di dimostrare la pregnanza della relazione fra Togliatti e Stalin come chiave interpretativa di un’opera politica duratura, contraddittoria e complessa, che non si può racchiudere nella formula dell’obbedienza gerarchica a un capo.

Di Togliatti come leader influente del comunismo internazionale si può parlare solo a partire dal secondo dopoguerra, quando la sua condizione non era più quella di «un funzionario qualsiasi» del Comintern, «capo di un piccolo partito comunista sconfitto, in esilio, di scarso peso internazionale»,9 ma era divenuto il padre fondatore del più grande partito comunista d’Occidente. La storiografia post 1989 consente di vedere quanto sia stata decisiva, a tal fine, la fiducia riposta in lui da Stalin. Ma allora come si può definire il loro rapporto visto che Togliatti operava nella sfera di influenza americana, nella quale la sua politica, pur sintonizzata con la politica estera di Stalin, doveva tuttavia rispondere innanzitutto agli italia- ni? Si deve andare oltre il «vincolo gerarchico» e inquadrare la figura di Togliatti nella dialettica dello stalinismo, precisare i tempi e i modi del suo approdo alla fedeltà a Stalin, ricordare i momenti salienti di una relazione asimmetrica nella quale Togliatti, pur decidendo di obbedire, non accettò di distruggere il profilo di una politica e di un pensiero che, facendo proprio l’obiettivo supremo del consolidamento dell’URSS, tuttavia riteneva lo si potesse perseguire anche in modi diversi da quelli pensati da Stalin. È una vicenda ormai ampiamente ricostruita, che suggerisce di considerare il rapporto con Stalin più che un vincolo subito, una scelta meditata e profonda che plasmò la politica di Togliatti fino alla morte del «tiranno» sovietico (l’espressione è del Togliatti, 1956) configurando una variante significativa dello stalinismo. Il suo valore generale, potenzialmente alternativo alla strategia del comunismo sovietico, non venne mai esplicitato del tutto, se non negli ultimi anni della vita di Togliatti. Ma solo in questa prospettiva si possono comprendere il suo pensiero politico e la sua figura. Per restare nei confini di questo scritto, mi limiterò ad accennare a due contributi contenuti in «Togliatti nel suo tempo»: il saggio di Anna Di Biagio «Togliatti e la lotta per la pace (1927-1935)», e quello di Silvio Pons, «Togliatti e Stalin».

Quest’ultimo imposta in modo compiuto e persuasivo, (e non mi pare che altri l’avesse fatto finora) il tema del rapporto Togliatti-Stalin. Il punto saliente del suo scritto è la messa a fuoco problematica dello stalinismo di Togliatti al posto della usuale considerazione della sua fedeltà a Stalin come un vincolo accettato o subito per stato di necessità. Per comprendere il senso di tale sottile distinzione bisogna risalire agli anni della prima affermazione di Stalin come leader del partito bolscevico e di Togliatti come apprezzato dirigente del Comintern, ma non ancora leader del Partito Comunista d’Italia. Per dirla in breve, l’anno cruciale è il 1926, nel quale Togliatti soggiornò lungamente a Mosca per la prima volta come rappresentante del partito italiano nell’esecutivo del Comintern. Com’è noto, il 1926 è l’anno dell’ascesa di Stalin alla guida del partito bolscevico e del duro scontro tra Togliatti e Gramsci sulla visione del «socialismo in un paese solo». Quello su cui va attirata l’attenzione è che l’ascesa di Stalin poggiava su una piattaforma politica che Togliatti ritenne la più persuasiva. Essa partiva dalla liquidazione – se mi è consentito questo linguaggio – del fantasma della «rivoluzione mondiale» non perché l’instabilità congenita del capitalismo fosse ritenuta definitivamente superata, ma perché si riteneva che per i partiti comunisti europei, per un’intera fase storica, la partita fosse oramai chiusa. È utile ricordare che, contrariamente a quanto di solito si pensi, fu questo il vero nodo dello scontro fra Gramsci e il partito russo, o quanto meno che Togliatti così lo interpretò. Ad ogni modo, fu in base a quella visione che Togliatti si persuase che la scelta di Stalin di subordinare ogni altra prospettiva alla costruzione della statualità dell’URSS fosse la sola valida, che il consolidamento del potere sovietico era tutto quanto i partiti comunisti avevano in mano per pensare di riaprirsi prima o poi un futuro e che Stalin fosse il leader sovietico più lungimirante. Naturalmente quella scelta presupponeva che anche nella versione staliniana il «socialismo in un paese solo» fosse non solo compatibile, ma anche interessato a favorire «vie al potere» ed esperimenti nazionali diversi da quelli dell’ottobre russo, purché non mettessero a rischio la sicurezza dell’URSS e anzi la rafforzassero. Come comunista italiano Togliatti ragionava nella prospettiva del socialismo in Europa e secondo il paradigma che ne definiva le particolarità rispetto alla rivoluzione d’ottobre: la differenza morfologica fra Oriente e Occidente. Era stato Lenin a sottolinearla per primo, nel 1921, e anche Stalin ne era del tutto consapevole;10 non si vede quindi perché Togliatti dovesse considerare antinomiche la prospettiva del consolidamento dell’URSS e quello del socialismo in Europa. Restava il nodo dell’antagonismo costitutivo fra bolscevismo e socialdemocrazia. Togliatti, come Gramsci, pensava che la politica di «fronte unico», impostata da Lenin nel 1921, non fosse sufficiente a spianare la via all’egemonia dei partiti comunisti europei a fronte della forza e del radicamento delle socialdemocrazie. Per questo la strategia elaborata da Gramsci fra il 1924 e il 1926, sebbene originasse da una situazione particolare e unica dell’Italia – la presenza al potere del fascismo – era considerata esemplare anche per gli altri partiti comunisti europei in quanto traduceva l’alleanza fra operai e contadini in una prospettiva storicopolitica nazionale scandita in Italia dalla questione vaticana e dalla questione meridionale; perché legava ad essa la parola d’ordine dell’Assemblea repubblicana risolvendo in chiave «costituentistica» (come aveva fatto Lenin al momento della rivoluzione di febbraio) il problema dello Stato; perché partendo da tale impostazione introduceva un capitolo nuovo nella teoria leniniana dell’egemonia: la «quistione politica degli intellettuali», impostata per la prima volta nel saggio sulla questione meridionale; perché poneva la «lotta a morte» con la socialdemocrazia sul terreno di un confronto per l’egemonia e non su quello di uno scontro militare. Insomma, il gruppo dirigente gramsciano riteneva di aver individuato sul terreno nazionale italiano, tra il 1924 e il 1926, la via per superare il limite sociologico e minoritario della politica di «fronte unico», il cui risvolto era necessariamente l’assunzione dell’esperimento russo come unico modello della «via al potere» e della «costruzione del socialismo». E a riprova della sua originalità e autonomia da Mosca Togliatti sottolineerà nel 1956 come nel 1924 la decisione «di uscire dall’assemblea aventiniana delle opposizioni e ritornare nel parlamento» fosse stata presa «in netto contrasto» con l’Internazionale comunista, mentre nel 1959 ricorderà come dal 1924 la stessa politica di «fronte unico» fosse stata già affossata dal Comintern con la decisione, dopo l’ottobre tedesco, di definire la parola d’ordine «governo operaio e contadino» nient’altro che un «sinonimo della dittatura del proletariato».11 Ma com’è noto, fino alla metà del 1929 la strategia del Partito Comunista d’Italia fu tollerata anche dall’élite staliniana, insediata saldamente al potere da almeno due anni. D’altro canto, sotto quale aspetto essa avrebbe potuto costituire una minaccia per il potere sovietico? Togliatti era quindi convinto che la ricerca di «nuove vie» non entrava in contrasto con il gli interessi dell’URSS che rappresentava per tutti i partiti comunisti la risorsa politica principale.12 Fino al 1929 l’élite staliniana era attraversata da un confronto aspro ma aperto sul modo di conciliare il consolidamento dell’URSS con le prospettive del comunismo internazionale. Sotto questo profilo lo scontro molto aspro che si verificò all’VIII Plenum dell’Internazionale fra la delegazione italiana e quella sovietica nel maggio del 1927, che Anna Di Biagio ha avuto il merito di ricostruire e riproporre nel convegno su «Togliatti nel suo tempo», ha un valore periodizzante.13 I temi della questione sono apparentemente semplici. Dopo il Trattato di Locarno, la virulenta campagna antisovietica condotta dalla SPD per gli aiuti militari forniti da Mosca alla Reichswehr e la rottura delle relazioni diplomatiche dell’Inghilterra con l’URSS, nell’élite staliniana maturò la convinzione che si stesse preparando una nuova aggressione all’Unione Sovietica da parte di un fronte compatto di potenze europee capeggiato dalla Gran Bretagna. Il tema dell’VIII Plenum fu la lotta contro «il pericolo di guerra» e vi si confrontarono due posizioni diverse: la prima, sostenuta dalla delegazione sovietica e da Bucharin, proponeva la parola d’ordine della «difesa dell’URSS», la seconda, in cui si impegnarono a fondo Togliatti e la delegazione italiana, sosteneva la parola d’ordine della «difesa della pace». Quello che fino alla pubblicazione dell’illuminante ricerca di Anna Di Biagio non si sapeva è non solo che Togliatti tenne ferma la sua posizione fino all’ultimo, votando da solo contro la risoluzione finale del Plenum, ma anche che a determinare il suo isolamento fu Bucharin con l’argomento che, essendo il Comintern impegnato in una guerra rivoluzionaria in Cina, la parola d’ordine della «difesa della pace» non si poteva proporre.

L’episodio è periodizzante per la biografia di Togliatti sotto molteplici aspetti non del tutto considerati dalla Di Biagio e da Pons, che ne condivide l’interpretazione. In primo luogo – ma non è questo l’aspetto più importante – perché esso fa giustizia di una invenzione storiografica assai cara al PCI degli anni Settanta e Ottanta, quella del «bucharinismo» di Togliatti.14 Essendo Bucharin l’artefice della politica del «terzo periodo», che offrì la giustificazione teorica più compiuta della tesi del «socialfascismo», è del tutto evidente che egli non rappresentasse un’alternativa alla politica estera di Stalin a cui Togliatti potesse fare riferimento. La vicenda dell’VIII Plenum ce ne offre i documenti essenziali perché ha a che fare con il tema principale dell’intera storia del comunismo sovietico: la sua «dottrina della guerra», ovvero il problema della «guerra inevitabile».15 Di questa enorme questione, ampiamente esplorata in sede storiografica, mi limito a richiamare un solo aspetto. La Di Biagio, pur lumeggiando la profonda diversità delle due prospettive, ritiene che Togliatti non avesse comunque in mente una «dottrina della guerra» diversa da quella bolscevica e per questo poté essere poi prescelto come relatore su «La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell’Internazionale comunista» al VII Congresso dell’Internazionale nel 1935. Inoltre, essa ritiene che anche in quella sede l’idea della «evitabilità della guerra» non sarebbe affiorata. La posizione di Pons sull’argomento è più articolata perché documenta un’apertura di Stalin, in quel momento, alla possibilità di prevenire la guerra in coerenza con l’adesione all’antifascismo alla politica di «sicurezza collettiva». Ho argomentato in altra sede come il rapporto di Togliatti al VII Congresso, letto insieme alla sua replica e alle conclusioni di Dimitrov, autorizzi una interpretazione diversa;16 e d’altro canto lo stesso fatto di accettare la parola d’ordine della lotta per la pace, nel contesto europeo del 1935, comportava – come Pons sottolinea – la disponibilità di Stalin a mettere in discussione la teoria della inevitabilità della guerra. Ma, per comprendere lo stalinismo di Togliatti, vale a dire la sua convinzione profonda che la strategia di Stalin costituiva la sola possibilità che in un futuro contesto internazionale più favorevole si riaprissero le prospettive per i partiti comunisti europei di sperimentare nuove «vie al potere», è necessario andare più a fondo nell’esplorazione del suo pensiero politico. A tal fine ci pare di poter suggerire due piste di ricerca che attengono al rapporto di Togliatti con Gramsci. Una ricognizione accurata degli scritti di Gramsci del periodo 1914-20 rivela quanto la teoria dell’imperialismo – sia nella versione leniniana, sia in quelle socialdemocratiche e liberali – rimanesse estranea alla formazione del suo pensiero. Già in quegli anni Gramsci riteneva che all’origine della Grande guerra, più che l’ineluttabile fato del nesso fra il capitalismo e la guerra (come non ricordare il celebre monito di Jean Jeaurès «il capitalismo contiene nel suo seno la guerra come la nube la pioggia» tanto caro a Lenin e alla dottrina bolscevica della guerra?), ci fosse l’inadeguatezza delle classi dirigenti europee ad affrontare il contrasto fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica. Inoltre, il socialismo rivoluzionario e il comunismo del giovane Gramsci erano decisamente orientati verso l’idea che evitare la guerra costituisse la missione storica del proletariato.17 Andrebbe sviluppata una ricerca per verificare se e in che misura le concezioni accennate abbiamo avuto un peso nella formazione del comunismo «ordinovista» e di Togliatti. In ogni caso mi pare opportuno non ignorare questo retroterra quando si affronta la sortita di Togliatti all’VIII Plenum sia perché, al di là delle affinità e delle convergenze con alcuni filoni del socialismo europeo,18 resta aperto il problema della genealogia della parola d’ordine della «difesa della pace» che sembra venir fuori all’improvviso nel suo itinerario politico, sia per illuminarne il retroterra e lo spessore, a prescindere dalle considerazioni da lui svolte, se non altro per convergenza tattica con la «dottrina della guerra» del bolscevismo, sul modo migliore per i comunisti di prepararsi all’eventualità di un nuovo 1914.

È forse il caso di annotare, a questo punto, la valutazione della Di Biagio sul valore periodizzante dell’VIII Plenum anche per quanto riguarda la storia del Comintern. Se, per combattere il «pericolo di guerra», si sceglieva la parola d’ordine della «difesa dell’URSS», è evidente che sia la possibilità di mobilitare il proletariato europeo contro la guerra, sia quella di combinare tale mobilitazione con il sostegno all’azione diplomatica dell’Unione Sovietica erano precluse e il Comintern, al di là della propaganda commissionatagli da Mosca, diveniva un organismo superfluo e un ingombro. Questa è anche la tesi di Pons che, in maniera più radicale, data l’irrilevanza del Comintern dall’avvento di Stalin al potere. Il «Diario» di Dimitrov documenta quanto questa idea corrispondesse a un convincimento radicato in Stalin almeno dal 1923. Si può aggiungere che nella prospettiva del 1929, che affidava le sorti dell’URSS alla possibilità di contare solo sulle sue forze e di sfruttare le «contraddizioni interimperialistiche» sviluppando relazioni bilaterali con uno o con l’altro Stato europeo secondo le convenienze reciproche, anche i partiti comunisti come tali erano confinati nell’irrilevanza e considerati un possibile intralcio a causa dell’azione che potevano svolgere nei rispettivi paesi. Quale che fosse il grado di fedeltà all’URSS, essi erano pur sempre sospettabili di sviluppare una politica nazionale in contrasto con quella dei rispettivi governi, ai quali Stalin guardava solo attra- verso il prisma di relazioni bilaterali utili alla politica estera sovietica. Pertanto è da condividere la tesi di Pons secondo la quale, quando con il X Plenum dell’Internazionale (luglio 1929) Togliatti fu costretto a subire la liquidazione della strategia di Lione, la riformulazione della sua fedeltà a Stalin divenne non solo totale, ma anche sempre più convinta del fatto che le sorti del PCI fossero affidate alla forza dell’URSS e alla possibilità che Stalin, in una situazione mondiale profondamente mutata, potesse ravvisare la convenienza a riaprire una prospettiva ai partiti comunisti europei. Il X Plenum costituì dunque un passaggio decisivo nella definizione dello stalinismo di Togliatti perché gli imponeva di «sospendere» il suo pensiero, come infatti egli fece fra il 1930 e il 1934, anche sul tema cruciale dell’analisi del fascismo. Ma «sospendere» il proprio pensiero non vuol dire smettere di pensare e, quando con l’adesione dell’URSS ai Fronti popolari, pur nei limiti di una fedeltà indiscussa a Stalin, Togliatti fu autorizzato nuovamente a pensare, non ci sembra utile ridurre l’originalità e lo spessore del suo pensiero. Il tema, com’è noto, riguarda l’applicazione della nuova strategia internazionale dell’URSS, basata sull’opzione antifascista, e la teoria della «democrazia di tipo nuovo», elaborata da Dimitrov e da Togliatti nel corso del 1936. È del tutto persuasivo che Stalin fosse attento agli indirizzi del Fronte popolare in Spagna, che Togliatti era impegnato a moderare secondo le sue direttive, piuttosto che all’elaborazione teorica che Dimitrov e Togliatti (i quali non erano a capo né di un governo né di uno Stato) potessero ricavare dall’esperienza dei governi di fronte popolare. È certo che quella elaborazione si muoveva nell’ambito di una teoria della transizione, enunciata da Dimitrov nella sua relazione al VII Congresso, che manteneva l’obiettivo della dittatura del proletariato e il valore dell’esperimento russo come modello. Non vi è dubbio che la direttiva di Stalin di escludere la dittatura del proletariato dalle prospettive dei partiti comunisti spagnolo o cinese rispondesse allo scopo di deradicalizzare il comunismo internazionale in ragione della sicurezza dell’URSS e non certo a quello di definire nuove vie al potere. Tuttavia non è un caso che lo stesso Dimitrov demandasse a Togliatti il compito di elaborare teoricamente la «democrazia di tipo nuovo». Né che il termine di «democrazia popolare», impiegato da Dimitrov, non venisse ripreso da Togliatti. Lo scritto «Sulle particolarità della rivoluzione spagnola» mirava a delineare una forma di Stato, a cui le politiche di fronte popolare potevano dar vita, radicalmente diverso dalla dittatura del proletariato, piuttosto che una strategia di transizione secondo il modello della rivoluzione d’ottobre: uno Stato pluriclasse, nel quale potevano essere operate profonde riforme di struttura e il proletariato poteva conquistare un ruolo stabile di classe dirigente sulla base di governi di coalizione antifascista. Dopo l’esperienza delle democrazie popolari nel 1947-48 non mi pare perspicuo adoperare – come fa anche Pons – lo stesso lessico per la concezione togliattiana della «democrazie di tipo nuovo» del 1936. Si può condividere l’osservazione che i timidi enunciati di Dimitrov e Togliatti nel 1935 e le ambivalenze della «democrazia di tipo nuovo» del 1936 costituiscano una base troppo esigua per affermare che l’antifascismo costituisse una «possibilità reale» di dare «un nuovo fondamento» al movimento comunista. D’altro canto, non è un caso che, vivo Stalin, Togliatti non provò mai ad elaborare teoricamente quella ipotesi. Ma non si può negargli la consapevolezza della sua novità e portata strategica. Non si può ignorare che a lui, come a Stalin e a Dimitrov, era ben presente l’inconciliabilità della politica di sicurezza collettiva e della generalizzazione della strategia antifascista con la teoria della guerra inevitabile. E soprattutto non è utile minimizzare la portata della visione togliattiana della democrazia di tipo nuovo a causa della congiunturalità della sua enunciazione, dell’indiscussa continuità del prevalere dell’interesse sovietico nel variare delle soluzioni tattiche approvate da Stalin per l’uno o per l’altro scacchiere della politica internazionale, dell’indubbio dimensionamento puramente tattico che egli impose alla «svolta» del VII Congresso. Il tema in discussione non è questo, bensì quello dello spessore del pensiero politico di un leader come Togliatti, di quello che effettivamente pensava quando si riteneva autorizzato a farlo e quale fosse il retroterra teorico e strategico delle sue proposte politiche. Evitando il rischio di trattare Togliatti come un teorico della politica, anziché come un leader immerso nelle condizionalità dell’azione quotidiana, lo spessore del suo pensiero politico è comunque un tema che non si può trascurare. Io credo che, come per la sua concezione della lotta per la pace, anche per quella della democrazia di tipo nuovo sarebbe utile approfondire la ricerca sulle fonti del suo pensiero. Anche in questo caso andrebbe esplorato innanzitutto il suo debito con la riflessione gramsciana. In questa sede non posso che accennarvi.

Alla luce della lettura diacronica dei «Quaderni del carcere » ci pare evidente che il nocciolo dello scontro fra Gramsci e Togliatti dell’ottobre 1926 sia sotteso dalla ricerca sull’egemonia che già nello scritto sulla «quistione meridionale», allora inedito e ignoto a Togliatti, muoveva oltre i confini della teoria leniniana dell’«egemonia del proletariato», verso quella teoria generale della politica come egemonia che Gramsci elaborò poi nei «Quaderni».19 Il nocciolo di quella riflessione era noto a Togliatti attraverso le lettere dal carcere. È certo che quando Togliatti, attraverso Sraffa, sollecitava Gramsci a fargli conoscere gli sviluppi del suo pensiero sugli intellettuali, quello che gli interessava era il punto a cui era arrivata la sua riflessione sulla politica e sullo Stato.20 In una lettera a Tatiana del 7 settembre del 1931 Gramsci lo sintetizzava in termini quanto mai perspicui: «Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali: questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come Società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione o l’economia di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole ecc.)».21 Non sarebbe giusto sottovalutare quanto queste formulazioni sintetiche dicessero alla mente di Togliatti sugli itinerari di una ricerca intrapresa anche da lui insieme a Gramsci nel 1924, per superare le colonne d’Ercole del modello sovietico. Non si può ignorare che la ricerca autorizzata dalla «seconda rivoluzione» staliniana del 1934 (i fronti popolari, la sicurezza collettiva) evocava nodi teorici e strategici da sciogliere per andare oltre i confini dell’esperienza sovietica che Stalin medesimo considerava troppo condizionata dall’arretratezza russa.22 Con ciò non voglio dire che nella mentalità e negli interessi di Stalin potesse rientrare l’idea di farsi carico di tali problemi. Ma in quelli di Togliatti credo di sì: non perché ne sopravvaluti la dimensione di pensatore politico; ma perché la sua ricerca appare del tutto consapevole del fatto che, se e quando si fossero riaperte in Europa le condizioni per giocare la partita del potere, sarebbe stato necessario risolvere problemi teorici e strategici di quella portata. Non mi pare dubbio che con la svolta della guerra antifascista e l’emergere della potenza sovietica in Europa, dopo Stalingrado, l’ipotesi su cui Togliatti aveva scommesso tutta la posta del suo stalinismo parve avverarsi: per la prima volta nella storia l’URSS si presentava come una risorsa straordinaria per l’affermazione dei partiti comunisti e della loro funzione dirigente in gran parte dei paesi dell’Europa continentale. Del carattere virtuoso della «doppia lealtà» togliattiana fra il 1943 e il 1946 si è già detto e l’approfondita ricerca di Pons sul comunismo sovietico documenta le possibilità che «l’antifascismo di guerra» potesse costituire un’opzione strategica stabile e non una parentesi nella politica di Stalin.23 Potremmo aggiungere che, non a caso, il paradigma delle «occasioni mancate», del tutto estraneo alla mentalità storicistica di Togliatti, fu da lui evocato nel febbraio del 1964 per indicare quello che considerava un errore catastrofico di Stalin: l’aver soffocato nel 1947 la nuova ricerca avviata dai partiti comunisti al potere nelle democrazie popolari. 24 Ma nel mondo del dopoguerra, un PCI divenuto grande e influente sul terreno internazionale grazie alla forza e al prestigio conquistati sul terreno nazionale, avrebbe potuto recidere il «legame di ferro» con l’URSS e divenire un elemento destabilizzante del suo potere nei paesi di democrazia popolare? Non il legame gerarchico con Stalin, ma la condivisione dei destini del movimento comunista internazionale sulla base del paradigma staliniano assunto con convinzione negli anni Venti e mantenuto con ininterrotta fedeltà dal 1930 in avanti rendevano inconcepibile per Togliatti un tale azzardo. Ci pare dunque persuasiva la valutazione finale di Pons che l’unico atto di disobbedienza di Togliatti a Stalin fu il rifiuto di accettare la sua insistente richiesta di assumere la guida del Cominform nel 1951. Pons mette in evidenza come fra le motivazioni addotte da Togliatti avesse un grande valore la considerazione che, nell’interesse stesso dell’URSS, era più importante lo sviluppo della lotta per la pace che egli poteva condurre con efficacia come capo del PCI che non la maestria con cui avrebbe potuto eventualmente rianimare un organismo asfittico e posticcio come il Cominform, a cui non aveva mai creduto. Questa motivazione evoca tutti gli elementi che avevano scandito la specificità dello stalinismo togliattiano, a datare da quell’VIII Plenum del 1927 in cui aveva esplicitato per la prima volta la sua interpretazione della politica estera di Stalin. Si può dunque concludere con Pons che la potenza dello Stato sovietico, assunta anche da Togliatti come paradigma del comunismo internazionale negli anni Trenta, costituisse non solo un vincolo gerarchico, ma anche l’assorbimento di una cultura politica, destinata a marcare i confini della sua azione politica almeno fino al 1956.

 

[1] S. Pons, Togliatti e Stalin, in R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani (a cura di), Togliatti nel suo tempo, Annali della Fondazione Istituto Gramsci, XV, Carocci editore, Roma 2007.

[2] Il contributo di Gualtieri è stato poi sviluppato nel volume L’Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica, Carocci, Roma 2006.

[3] Una illustrazione sintetica di tale interpretazione è stata riproposta da Scoppola nel volume-intervista curato da Giuseppe Tognon, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2005.

[4] P. Pombeni, Sul retroterra politico di Palmiro Togliatti. Note in margine alla formazione di un leader in Gualtieri, Spagnolo Taviani (a cura di) Togliatti nel suo tempo cit., p. 183.

[5]G. Vacca, Alcuni temi della politica culturale di Togliatti (1945-1956), introduzione a P. Togliatti, I corsivi di Roderigo, De Donato, Bari 1976; F. De Felice, La via italiana al socialismo, in «Politica», 1/1986.

[6] G. Vacca, La lezione del fascismo, introduzione a P. Togliatti, Sul fascismo, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. CXIV–CXLVIII; A. Rossi, G. Vacca, Gramsci fra Mussolini e Stalin, Fazi Editore, Roma 2007, cap. 3.

[7] E. Aga-Rossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Il Mulino, Bologna 2007, p. 299.

[8] Pons, op. cit., p. 196.

[9] Pombeni, op. cit., p. 184.

[10] G. Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), a cura di S. Pons, Einaudi, Torino 2002.

[11] P. Togliatti, L’intervista a «Nuovi argomenti», in Togliatti, Problemi del movimento operaio internazionale 1956-1961, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 114; Togliatti, Alcuni problemi della storia dell’Internazionale comunista, in Togliatti, Problemi del movimento operaio cit., p. 320.

[12] G. Vacca, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca, Einaudi, Torino 1999; Vacca, La lezione del fascismo cit., pp. XLII-LII; Rossi, Vacca, Gramsci fra Mussolini e Stalin cit., cap. 3.

[13] A. Di Biagio, Mosca, il Comintern e il pericolo di guerra (1926-1928), in S. Pons, A. Romano (a cura di), Russia in the Age of Wars 1914-1945, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 1998, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 83-102.

[14] Com’è noto, questa interpretazione, avanzata originariamente da Angelo Tasca, in sede storiografica fu sostenuta soprattutto da Ernesto Ragionieri (E. Ragionieri, Palmiro Togliatti. Per una biografia politica e intellettuale, Editori Riuniti, Roma 1976). Da Togliatti il giudizio si estendeva a Gramsci (L. Paggi, Le Strategie del potere in Gramsci: tra fascismo e socialismo in un paese solo 1923-1926, Editori Riuniti, Roma 1984), ma per Gramsci parlavano i «Quaderni», in particolare la critica corrodente del «Manuale» di Bucharin, testo emblematico del «marxismo sovietico » fino agli inizi degli anni Trenta, sviluppata nel Quaderno 11.

[15] G. Procacci, La «lotta per la pace» nel socialismo internazionale alla vigilia della seconda guerra mondiale, in Storia del marxismo, vol. III, Il marxismo nell’età della Terza Internazionale, tomo 2, Dalla crisi del ’29 al XX Congresso, Einaudi, Torino 1981; S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile, 1936-1941, Einaudi, Torino 1995.

[16] Vacca, La lezione del fascismo cit., pp. CXLVIII–CLXVI.

[17] L. Rapone, Antonio Gramsci nella grande guerra, in «Studi Storici», 1/2007.

[18] L. Rapone, La socialdemocrazia europea tra le due guerre. Dall’organizzazione della pace alla resistenza al fascismo (1923-1936), Carocci editore, Roma 1999.

[19] G. Vacca, Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1981; Vacca, Appuntamenti con Gramsci, Carocci editore, Roma 1999. Forse è opportuno ricordare che fu Togliatti per primo, nel 1957, ad affermare che con la sua concezione del partito come «intellettuale collettivo» Gramsci aveva aperto «un nuovo capitolo del leninismo ». P. Togliatti, Gramsci, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967.

[20] Rossi, Vacca, Gramsci fra Mussolini e Stalin cit., cap. 1.

[21] A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli, C. Daniele, Einaudi, Torino 1997, p. 791.

[22] Dimitrov, Diario cit.

[23] Si veda, in particolare, S. Pons, L’impossibile egemonia. L’URSS, il PCI e le origini della guerra fredda (1943-1948), Carocci editore, Roma 1999.

[24] P. Togliatti, Viaggio in Jugoslavia, in «Rinascita» 1 febbraio 1964: «Una interessante ricerca era già stata iniziata e condotta avanti, subito dopo la guerra, circa le novità politiche, economiche e sociali che formavano la sostanza di quei regimi. La ricerca venne troncata e tutto risolto con la scolastica formuletta che la democrazia popolare non era che un “sinonimo” della dittatura proletaria quale si era realizzata nell’Unione Sovietica. Venne in questo modo ridotto quasi a un problema di terminologia il più grande tema storico che i nostri tempi hanno posto al movimento operaio, il tema della ricerca di nuove vie di avanzata verso il socialismo, della elaborazione di nuove forme di potere democratico progressivo e, correlativamente, della elaborazione di una economia socialista in modi nuovi, consigliati e imposti da nuove condizioni oggettive e soggettive».