Le privatizzazioni in Italia: qualche utile lezione

Di Stefano Micossi Venerdì 29 Febbraio 2008 20:39 Stampa

Il processo di privatizzazione delle imprese di proprietà pubblica, avviato in Italia nei primi anni Novanta, è diventato un caso di studio e un riferimento a livello internazionale, per la dimensione delle vendite, nel mondo inferiori solo a quelle del Giappone e del Regno Unito, ma anche per l’efficace sequenza delle vendite e le procedure trasparenti L’avvio delle privatizzazioni fu imposto dal grave deterioramento dei conti delle aziende a partecipazione statale, soprattutto l’IRI e l’EFIM, in una fase in cui anche i conti dello Stato erano in condizioni non più sostenibili, dopo oltre un decennio di elevati disavanzi che avevano fatto lievitare il debito pubblico oltre il 120% del PIL.

Il processo di privatizzazione delle imprese di proprietà pubblica, avviato in Italia nei primi anni Novanta, è diventato un caso di studio e un riferimento a livello internazionale, per la dimensione delle vendite, nel mondo inferiori solo a quelle del Giappone e del Regno Unito, ma anche per l’efficace sequenza delle vendite e le procedure trasparenti.1

Le cause e gli obiettivi iniziali L’avvio delle privatizzazioni fu imposto dal grave deterioramento dei conti delle aziende a partecipazione statale, soprattutto l’IRI e l’EFIM, in una fase in cui anche i conti dello Stato erano in condizioni non più sostenibili, dopo oltre un decennio di elevati disavanzi che avevano fatto lievitare il debito pubblico oltre il 120% del PIL. Le privatizzazioni furono accelerate dalla crisi di cambio del settembre 1992, che portò all’uscita della lira dallo SME e rese chiara la crisi di credibilità delle politiche finanziarie dell’Italia, e dall’esplodere degli scandali di tangentopoli, che portarono alla luce fenomeni estesi di dilapidazione di risorse pubbliche e di corruzione nelle aziende di proprietà dello Stato. Gli obiettivi del programma di privatizzazione furono indicati dal governo nel «Libro verde sulle partecipazioni dello Stato», presentato al parlamento nel novembre del 1992:2 l’aumento dell’efficienza aziendale; la creazione di una decina di gruppi industriali capaci di competere internazionalmente (politica industriale); lo sviluppo della proprietà azionaria diffusa, assicurando al contempo il controllo delle imprese privatizzate da parte di nuclei stabili di azionisti; la riduzione del debito pubblico.

L’attuazione: le premesse legislative Il processo trovò solide basi in una serie coordinata di interventi legislativi. Così, apposite leggi disposero la trasformazione in società per azioni delle banche (legge 218/90) e delle altre imprese pubbliche (legge 359/92); istituirono il Fondo per l’ammortamento del debito pubblico (legge 432/93), nel quale avrebbero dovuto obbligatoriamente confluire i proventi delle privatizzazioni, ad esclusione di ogni utilizzo per il ripiano dei disavanzi correnti; abolirono il ministero delle partecipazioni statali, trasferendo al tesoro la proprietà delle partecipazioni pubbliche; identificarono nell’offerta pubblica di azioni la tecnica preferita di vendita e introdussero negli statuti delle società cedute la golden share e le liste di minoranza per la nomina degli amministratori (legge 474/94, estesa anche a società possedute da enti pubblici); istituirono autorità di regolazione per i mercati dei servizi di pubblica utilità ceduti a privati (legge 281/95 per l’energia e legge 249/97 per le comunicazioni). Nel giugno 1993 fu costituito presso il ministero del tesoro (oggi dell’economia e delle finanze, o MEF) un Comitato per le privatizzazioni, tuttora operante, il quale fu incaricato di fare proposte sui tempi delle operazioni, i metodi di collocamento e la scelta dei consulenti e dei sottoscrittori.3

La cessione delle banche e delle aziende di servizio pubblico Il processo di privatizzazione – che aveva visto negli anni Ottanta solo le cessioni di Alfa Romeo a FIAT e di Lanerossi al gruppo Marzotto – iniziò con la vendita dell’IMI, dell’INA e delle tre banche di interesse nazionale di proprietà dell’IRI, quest’ultima importante perché allargò le basi finanziarie esterne al circuito pubblico per i successivi collocamenti azionari e creò meccanismi di disciplina più severi nell’erogazione del credito. L’uscita dello Stato dal settore bancario fu completata più tardi con la cessione della BNL (1998) e del Mediocredito Centrale (1999). Questi collocamenti seguirono la riforma della legislazione bancaria, con l’emanazione del Testo unico in materia bancaria e creditizia del 1993 la quale, eliminando la separazione tra credito a breve e credito a medio e lungo termine, aprì la strada all’affermazione anche nel nostro paese della banca universale.

La cessione di società di servizio entrò nel vivo con la vendita di Aeroporti di Roma, Telecom Italia (di proprietà dell’IRI, il cui controllo fu ceduto al mercato nel 1997), tranches successive del capitale di ENI (a partire dal 1995) ed ENEL (dal 1999), e Autostrade (1999). Furono anche cedute con successo le società industriali dell’IRI e le attività petrolchimiche dell’ENI; l’IRI venne posto in liquidazione nel giugno del 2000, dopo aver trasferito la proprietà dell’Alitalia e della RAI al ministero del tesoro. Collocamenti significativi sul mercato furono effettuati anche da enti pubblici locali, perlopiù mantenendo il controllo e un grado elevato di interferenza delle amministrazioni pubbliche nelle gestioni. Gli effetti di concorrenza Nel complesso, i processi concorrenziali nel mercato bancario presero vigore solo lentamente per il freno posto dalla Banca d’Italia fino ai primi anni del Duemila ai processi di aggregazione e all’acquisto di quote di controllo da parte di investitori stranieri. La concorrenza sul mercato dei servizi è aumentata nella telefonia, molto meno negli altri comparti, a causa della lenta evoluzione del quadro regolamentare pro-concorrenziale. I mercati dell’elettricità e del gas e dei trasporti ferroviari sono ancora largamente organizzati su base nazionale, ad esclusione dei concorrenti esteri, quelli degli altri trasporti pubblici e della distribuzione di energia e dell’acqua addirittura su base locale. La resistenza ad ulteriori liberalizzazioni è stata aumentata dal desiderio del tesoro e degli enti locali di conservare profittevoli fonti di dividendi, in una fase di crescenti restrizioni nei bilanci pubblici. Il tesoro è rimasto come azionista di maggioranza relativa nell’ENI e nell’ENEL; invece di incoraggiare l’abbassamento delle tariffe e gli investimenti in tecnologia, gli indirizzi del tesoro hanno privilegiato il pagamento di elevati dividendi. Nel caso delle autostrade e degli aeroporti, l’inadeguatezza del quadro regolamentare e la commistione di regimi pubblicistici e privatistici di gestione non hanno aiutato a stabilire un quadro trasparente di formazione dei prezzi, mentre sono mancati i meccanismi tesi a verificare gli impegni di investimento e la qualità dei servizi per conto degli utenti.

L’arresto delle privatizzazioni e il ritorno al pubblico Con l’inizio del nuovo decennio, il processo di privatizzazione ha subito un vistoso rallentamento, che dura tuttora: ciò è stato il riflesso non tanto delle peggiorate condizioni dei mercati di Borsa dopo la fine della «bolla» sui titoli informatici, come sostengono Megginson e Scannapieco, quanto dell’attitudine contraria alle privatizzazioni della maggioranza di centrodestra, finora mantenuta anche in questa legislatura. L’unica vera cessione di aziende ha riguardato l’Ente tabacchi, venduto nel 2003 all’inglese BAT; nuovi ingenti collocamenti di azioni dell’ENI e dell’ENEL e la liquidazione delle quote residue nel capitale di Telecom Italia hanno soddisfatto le esigenze di cassa del tesoro, ma non hanno contribuito a migliorare la concorrenza né la qualità dei servizi per gli utenti. La Cassa depositi e prestiti è stata usata come strumento per opache operazioni tese a far cassa per il tesoro, mantenendo il controllo in mano pubblica e spostando debiti fuori del perimetro di consolidamento delle amministrazioni pubbliche. Anche se quelle pratiche ora sono state abbandonate, resta forte la tentazione di utilizzarne le risorse per operazioni di stabilizzazione del controllo di reti e aziende pubbliche disastrate. Con il nuovo decennio è anche esploso il numero delle società a controllo regionale, provinciale e municipale per l’esercizio di attività di servizio e forniture agli enti controllanti, grazie anche a nuove norme, introdotte con la legge finanziaria del 2002, che hanno favorito l’aggiramento delle regole europee sull’assegnazione dei servizi in concessione e sulle forniture pubbliche.

I successi Nel complesso, dunque, il programma di privatizzazione ita- liano degli anni Novanta può essere giudicato un successo dal punto di vista delle somme raccolte, che hanno fornito oltre 120 miliardi di euro di introiti, ovvero quasi l’11% del PIL medio del periodo di riferimento (Tabella 1). Successo pieno ha coronato anche la privatizzazione delle attività industriali, che hanno condotto nella quasi totalità dei casi all’aumento dell’efficienza e in molti casi significativi all’integrazione delle attività in validi gruppi internazionali. Si conferma, al riguardo, la minor efficienza delle gestioni pubbliche, sempre caratterizzate da costi unitari più elevati (soprattutto del personale) e da minor efficacia nelle scelte strategiche.4 I collocamenti di azioni in borsa hanno anche contribuito considerevolmente all’allargamento del nostro mercato di borsa: una dozzina delle società nel MIB30 e circa il 50% della capitalizzazione di borsa è rappresentato da società privatizzate. Infine, nonostante la percezione diffusa in senso contrario, l’evidenza empirica indica anche che le commissioni pagate per gli advisor e i collocamenti sono nel complesso risultate più basse o in linea con quelle di mercato.

 

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Gli aspetti meno felici Il quadro appare più problematico per quanto riguarda altri aspetti. In primo luogo, se la scelta di incominciare dalle partecipazioni finanziarie, in un quadro di crescente libertà di movimento dei capitali, è apparsa felice, in quanto ha migliorato spessore e liquidità dei mercati finanziari, minor successo hanno invece avuto le scelte adottate riguardo agli assetti proprietari, dove gli obiettivi non erano del tutto coerenti. Il tentativo di diffondere il modello della public company per le aziende di servizio – incominciando da Telecom Italia – ma riservando il controllo a «nuclei duri» di azionisti «amici» non è riuscito – anche per la scarsa disponibilità dei gruppi industriali privati a partecipare con risorse significative. Il modello che si è affermato è stato poi quello dell’acquisizione del controllo con debiti, con il sostegno delle banche; resta forte il sospetto che questo sostegno trovasse talora sponde politiche. Nel sistema bancario, mentre da un lato si spingevano le neonate fondazioni bancarie a uscire dal capitale delle banche per favorire assetti proprietari più diffusi, dall’altro la politica di freno della Banca d’Italia all’ingresso di capitali stranieri nel capitale delle banche italiane non consentiva di allargare la massa dei capitali disponibili. Così, per un decennio, il primo obiettivo ha tendenzialmente ceduto il passo al secondo, lasciando alle fondazioni un ruolo centrale nel controllo delle grandi banche italiane, contribuendo a perpetuare logiche estranee al mercato e a ridurre la concorrenza.5

Ciò ha rappresentato un fattore non secondario nel rallentare i processi di aggregazione e nel mantenere assetti di mercato poco concorrenziali e aziende bancarie poco competitive, come hanno finalmente stabilito oltre ogni dubbio le recenti indagini delle autorità antitrust europee e nazionali.6 Hanno concorso nello stesso senso anche gli assetti proprietari delle banche popolari, rese non contendibili dal limite del voto capitario. Un deciso cambio di marcia si è verificato solo intorno alla metà del decennio in corso, con l’arrivo del governatore Draghi e l’acquisizione del controllo di due banche italiane da parte di BNPParibas e ABN-Amro. Il processo di aggregazione è ora ripreso vigorosa- mente; ci si può attendere che le pressioni concorrenziali divengano più intense anche nel prezzo e nella qualità dei servizi al dettaglio, finora poco soddisfacenti.

Avendo i gruppi di controllo scarsi capitali propri, hanno ripreso anche a fiorire le reti di partecipazioni incrociate e i patti di sindacato, contribuendo ad accrescere l’opacità e a diminuire il grado di contendibilità del controllo del nostro mercato dei capitali.

Gli assetti concorrenziali nei servizi di pubblica utilità Un secondo risultato poco soddisfacente delle privatizzazioni riguarda le condizioni di mercato nella prestazione dei principali servizi pubblici privatizzati. Al riguardo, il dato saliente che riassume quanto accaduto è l’aumento di prezzi e dei profitti delle aziende collocate sul mercato, al quale non ha però corrisposto un miglioramento significativo né nelle tecnologie, né nella qualità dei servizi prestati.7 Si possono, a questo riguardo, distinguere due diversi casi. Da un lato, vi sono le numerose aziende di servizio nelle quali l’ente pubblico ha mantenuto un pacchetto azionario di controllo, cedendo il resto al mercato: prime tra tutte l’ENI e l’ ENEL (diverso è il caso di Finmeccanica, attiva nel settore della difesa, e di aziende che non producono utili, come la RAI e l’Alitalia), ma anche numerose aziende municipalizzate collocate in borsa.8 In questi casi è emerso chiaro il conflitto tra l’interesse dell’azionista a massimizzare il valore dell’azione e i dividendi pagati dall’azienda, e quello degli utenti dei servizi ad ottenere tariffe più convenienti e servizi migliori. Tra il 2000 e il 2005 l’ENI e l’ENEL hanno distribuito dividendi per oltre 30 miliardi di euro, dei quali 11,6 miliardi al tesoro. Nel caso dell’ENEL, tale risultato è stato ottenuto portando il payout in rapporto all’utile vicino al 100%.9

Analisi recenti dell’Ufficio studi di Mediobanca indicano che le società comunali attive nei cosiddetti settori di rendita (in primis l’energia) garantiscono ai comuni proprietari un flusso significativo e costante di entrate sotto forma di dividendi (circa 180 milioni di euro l’anno), al prezzo di tariffe elevate. Le gestioni sono spesso poco efficienti,10 ma attribuiscono notevole leva politica alle amministrazioni che le controllano. Siamo qui di fronte ad una forma evidente di fiscalità mascherata a favore di soggetti non chiaramente identificati: tali entrate derivano da tariffe fissate in mercati non concorrenziali, simili dunque a una tassa, ma sfuggono allo scrutinio delle assemblee elettive e possono essere distribuite in maniera non trasparente. Gli alti profitti consentono di mantenere alte le quotazioni dei titoli, attribuendo una ricca moneta di scambio agli enti proprietari (e ai politici che le controllano). Dall’altro lato vi sono le aziende di servizio il cui controllo è stato ceduto interamente ai privati e che gestiscono infrastrutture in concessione; tipicamente si tratta di infrastrutture di trasporto, come le autostrade e gli aeroporti. In molti casi, si è rilevato che le condizioni delle concessioni erano insufficientemente specificate o non sono state fatte pienamente rispettare, mentre si concedevano generosi aumenti tariffari. Emerge qui con evidenza l’inadeguatezza del quadro regolamentare,11 alla quale si cerca solo oggi di rimediare con l’istituzione di un’autorità indipendente per i servizi di trasporto e le infrastrutture.

Le attività ancora in mano pubblica sono tante L’ultimo aspetto problematico riguarda non quello che è stato fatto, ma quello che non è stato fatto. L’Italia resta un paese con una presenza pubblica nell’economia assolutamente anomala nel mondo occidentale, nonostante i consistenti smobilizzi effettuati. Le aziende possedute o controllate dallo Stato occupano circa 500.000 addetti (Tabella 2). Alcune di esse accumulano ingenti perdite da decenni; ma il danno maggiore è rappresentato dalla perdita di occasioni tecnologiche e di mercato che ne risultano, a causa delle inefficienze gestionali e delle taglie imposte dalla politica alle politiche aziendali. Vi sono poi le aziende possedute da autorità di governo locale, probabilmente diverse migliaia di società. Circa 1.300 sono società municipalizzate per la prestazione di servizi; mentre quelle per la distribuzione di energia guadagnano, molte altre, perlopiù nei trasporti e nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti, perdono denaro.12 Anche in questo caso, il danno maggiore è nelle occasioni perdute: nei mancati benefici effetti in termini di tecnologia e innovazione delle cattive gestioni pubbliche. Il costo di questa malintesa socialità non è facile da stimare, ma è certamente enorme, dato che in questi comparti si concentrano grande crescita prospettica della domanda e rilevanti possibilità di sviluppo e sfruttamento di nuove tecnologie, oltre che significative economie di scala – che naturalmente non possono essere sfruttate per mantenere in mani locali poco limpide il controllo delle aziende. Accanto alle aziende locali di servizio, vi sono poi altre migliaia di aziende create dalle stesse amministrazioni, o da loro amministratori, per gestire servizi di manutenzione o forniture all’ente che le ha generate. Queste società operano sul confine tra pubblico e privato; godendo di rapporti privilegiati con le amministrazioni di origine, sfuggono alle regole di concorrenza e a quelle di assegnazione di appalti e forniture. Sono anche spesso centri di potere clientelare e fonti di corruzione. Questa area grigia di affari, e malaffare, potrebbe essere facilmente bonificata attraverso l’applicazione rigorosa delle regole europee di trasparenza e assegnazione mediante gara per tutti i contratti di fornitura pubblica.

Tabella 2. Principali imprese ancora di proprietà dello Stato nel dicembre

2005.

Conclusioni Il processo di privatizzazione nel nostro paese ha portato ingenti entrate; è stato nel complesso ben gestito sul piano tecnico, con procedure trasparenti e senza costi eccessivi o impropri. Tuttavia, le resistenze culturali e politiche ad una piena accettazione delle regole del mercato si sono fatte sentire, impedendo di cogliere pienamente, insieme ai benefici finanziari, anche quelli della maggior efficienza economica e tecnologica che ne potevano derivare. I costi del mantenimento di assetti non concorrenziali sono stati elevati, nel settore finanziario come in quello dei servizi di pubblica utilità. Ampi comparti dei servizi restano sotto un controllo politico e sindacale che ne mina le possibilità di sviluppo. Nulla impedisce di riprendere e completare il processo, salvo la scarsa disponibilità dei partiti che siedono in parlamento e nelle altre assemblee elettive, di maggioranza come di opposizione. Gli argomenti in favore della proprietà pubblica sono deboli, dato che lo Stato e gli altri enti pubblici possono utilizzare la regolazione per realizzare i loro fini pubblici di tutela; rinunciando alla proprietà, essi possono liberarsi dei vincoli impropri alle gestioni posti dai sindacati interni e dagli interessi politici deteriori.

[1] Cfr B. Bortolotti, Italy’s privatisation process and its implications for China, Nota di lavoro FEEMFondazione Eni Enrico Mattei, 118/2005; W. L. Megginson e D. Scannapieco, The financial and economic lessons of Italy’s privatisation programme, in «Journal of Applied Corporate Finance», 3/2006, pp. 56-65.

[2] Nel luglio del 1992 il governo dovette procedere alla liquidazione dell’EFIM, ormai incapace di onorare i suoi debiti; la legge di conversione del decreto di liquidazione (359/1992) impegnò il ministro del tesoro a presentare entro tre mesi un programma di riordino delle partecipazioni dello Stato. Il programma avrebbe anche dovuto prevedere «l’ammontare dei ricavi da destinare alla riduzione del debito pubblico». Cfr E. Barucci e F. Pierobon, Le privatizzazioni in Italia, Carocci, Roma 2007, p. 43.

[3] Comitato permanente di consulenza e garanzia per le privatizzazioni, composto dal direttore generale del tesoro e da quattro esperti indipendenti. Megginson (che ne è attualmente membro) e Scannapieco (che è dirigente del MEF competente per le privatizzazioni), affermano che, pur non essendo i suoi poteri legalmente vincolanti, il Comitato è stato sempre consultato e che il suo consiglio «has been rarely ignored». Cfr. Megginson e Scannapieco, op. cit., p. 58.

[4] Barucci e Pierobon, op. cit.; A. Goldstein, Privatisation in Italy 1993-2002: goals, institutions, outcomes and outstanding issues, CESifo Working Paper 912/2003.

[5] Cfr. Goldstein, op. cit.

[6] Commissione europea, Rapporto sul settore bancario al dettaglio, Direzione generale per la concorrenza, SEC 106/2007, 31 gennaio 2007; Autorità garante della concorrenza e del mercato, Indagine conoscitiva riguardante i prezzi alla clientela dei servizi bancari, IC32, febbraio 2007.

[7] Barucci e Pierobon, op. cit.

[8] Ufficio studi Mediobanca (a cura di), Le società controllate dai maggiori comuni italiani: bilanci, Fondazione Civicum, Milano 2007.

[9] Barucci e Pierobon, op. cit., p. 62.

[10] Cfr. Ufficio studi Mediobanca, op. cit.

[11] C. Scarpa, A. Boitani, P. M. Panteghini, L. Pellegrini e M. Ponti, Come far ripartire le liberalizzazioni nei servizi, in T. Boeri, R. Faini, A. Ichino, G. Pisauro e C. Scarpa (a cura di), Oltre il declino, Il Mulino, Bologna 2005.

[12] Ufficio studi Mediobanca, op. cit.