Il federalismo fiscale Un diverso modo di governare unitariamente il paese

Di Vasco Errani Venerdì 29 Febbraio 2008 21:12 Stampa
Le regioni hanno fortemente condiviso l’impegno che il governo ha assunto nel documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) 2007-2011, di dare piena attuazione al federalismo fiscale applicando l’articolo 119 della Carta costituzionale. Questo documento, tra l’altro, impegna il governo a sostituire l’imposizione dei tetti alla spesa degli enti territoriali con un vincolo sul saldo. I vincoli sulla spesa, infatti, non risultano coerenti con il processo di decentramento in corso. Il vincolo sul saldo, a differenza di quello sulla spesa, lascia al governo locale la possibilità di decidere come rispettarlo, intervenendo o con tagli alle spese (decidendo anche quali), o aumentando le entrate o con un mix dei due. Il vincolo sui saldi, inoltre, è utile anche in un contesto dinamico, in quanto permette di evitare di trasferire eventuali futuri disavanzi sul bilancio centrale.

È evidente che, affinché un vincolo sui saldi offra queste libertà ulteriori agli enti territoriali, è necessario che questi abbiano un qualche grado di autonomia nel modificare il livello del prelievo locale. La legge finanziaria per l’anno 2007 ha recepito le indicazioni del DPEF introducendo per gli enti locali, quale fattore di contenimento su cui intervenire, il saldo finanziario tra entrate finali e spese finali, allo scopo di far convergere il più possibile le regole del patto di stabilità interno con quelle previste dal Patto di stabilità e crescita sottoscritto in sede europea e prevedendo, per le regioni, l’avvio di una sperimentazione, le cui regole saranno definite dal ministero dell’economia congiuntamente con la conferenza Stato-regioni, finalizzata alla sostituzione della regola sulla spesa con quella sui saldi finanziari.

È comune la valutazione che il rinnovamento istituzionale del nostro paese e il risanamento della finanza pubblica non possono non avere, quale elemento centrale, il superamento dell’asimmetria fra autonomia nelle decisioni di spesa e responsabilità nel prelievo delle risorse. Bloccare il graduale processo riformatore avviato fin dalla seconda metà degli anni Novanta con il trasferimento di nuovi compiti e funzioni alle regioni e agli enti locali, assegnando agli enti territoriali fonti autonome di entrate tributarie e introducendo nuovi tributi erariali il cui introito veniva loro assegnato, è stata una delle colpevoli responsabilità del governo di centrodestra.

Il nuovo assetto istituzionale disegnato dalla legge costituzionale 3 del 18 ottobre 2001 è stato, da subito, il terreno sul quale le regioni e gli enti locali hanno chiamato il passato governo ad un confronto per concertare una applicazione, certo graduale, del nuovo assetto statuale del nostro paese.

Il governo ha risposto con il blocco della limitata autonomia finanziaria di regioni ed enti locali su IRAP e addizionale all’IRPEF, inserendo una apposita norma nella legge 289 del 27 dicembre 2002 (legge finanziaria 2003) e, con la medesima legge, ha istituito l’Alta commissione di studio per indicare al governo i principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ai sensi degli articoli 117, comma 3, 118 e 119 della Costituzione.

L’Alta commissione, nell’elaborare la proposta di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, con particolare riferimento ai principi costituzionali dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni e della loro compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al loro territorio, doveva operare sulla base delle indicazioni che dovevano essere formulate in sede di Conferenza unificata fra Stato, regioni ed enti locali in merito ai meccanismi strutturali del federalismo fiscale.

Le regioni, nell’aprile del 2003, hanno concordato all’unanimità un documento (documento di Ravello sul federalismo fiscale delle regioni e delle province autonome) sugli elementi strutturali del federalismo fiscale funzionali ai principi costituzionali e in particolare a quelli di uguaglianza, solidarietà e progressività della imposizione fiscale (articoli 2, 3, 4, comma 2, e 53 della Costituzione).

Nel giugno del 2003 le regioni e tutte le rappresentanze nazionali degli enti locali hanno elaborato e approvato il documento sui meccanismi del federalismo fiscale e lo hanno inviato al governo affinché fosse posto all’ordine del giorno della Conferenza unificata, quale condizione per l’avvio dei lavori dell’Alta commissione. La legislatura è terminata e il governo non ha posto all’ordine del giorno della Conferenza unificata il documento. L’Alta commissione ha ripetutamente visto procrastinato il termine per l’ultimazione dei suoi lavori, fino ad arrivare al 30 settembre 2006 (oltre il termine della legislatura). Il governo non ha mai risposto al parlamento per l’inadempienza alla legge.

Questa premessa è necessaria non solo per assegnare le responsabilità politiche dell’accaduto, ma per evidenziare, soprattutto, l’esigenza di recuperare il tempo perduto e per dare soluzione ad un problema «maturo» la cui soluzione è assolutamente urgente. Non possiamo permetterci ritardi ulteriori. Il risanamento e il corretto governo della finanza pubblica necessitano di un assetto di equilibrio fra i diversi livelli istituzionali, con il pieno riconoscimento dell’autonomia e della responsabilità finanziaria per l’esercizio delle funzioni di cui sono titolari.

Gli enti territoriali erogano circa il 34% dell’intera spesa della Pubblica amministrazione (dato riferito all’anno 2005).1 Al netto della spesa previdenziale e della spesa per interessi la percentuale si avvicina al 50% della spesa pub- blica. La fonte di finanziamento di questa spesa, oggi, è essenzialmente costituita da trasferimenti statali, la cui entità è oggetto di negoziazione annuale fra centro e istituzioni decentrate. Il superamento di questa drammatica asimmetria costituisce il problema sul quale il federalismo fiscale è chiamato a dare soluzione.

È indubbio che in occasione del recente confronto con il governo nella fase di predisposizione della legge finanziaria per l’anno 2007, molte difficoltà registrate dalle regioni e dagli enti locali sono riconducibili e sono conseguenza delle azioni controriformatrici del precedente governo di centrodestra che hanno accentuato questo disallineamento.

Occorre, fin da subito, riprendere il cammino riformatore e il governo dovrà assumere specifiche iniziative legislative per la determinazione dei principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (articolo 117, comma 3, della Costituzione), per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (articolo 117, comma 2, lettera m della Costituzione), per la determinazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane (articolo 117, comma 2, lettera p della Costituzione), per il conferimento delle funzioni amministrative, secondo criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (articolo 118 della Costituzione). Come calare nella realtà del nostro paese il nuovo assetto istituzionale e amministrativo nelle sue correlazioni sia verticali che orizzontali?

L’individuazione delle funzioni fondamentali e la contestuale attuazione dell’articolo 118 della Costituzione deve rappresentare l’occasione per allocare al livello delle istituzioni più vicine ai cittadini e al territorio il complesso delle funzioni amministrative. L’attuazione dell’articolo 118 della Costituzione esige che anche i principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza trovino effettiva attuazione; è necessario attuare tali principi nei diversi contesti terri- toriali, tenendo conto non solo delle dimensioni demografiche degli enti, ma anche delle loro peculiari caratteristiche (economiche, sociali, geografiche, organizzative ecc.). In questo contesto deve essere avviato un percorso deciso, anche con riferimento a misure recenti di riordino amministrativo, che porti alla semplificazione dell’amministrazione indiretta statale e regionale nell’esercizio di funzioni di competenza degli enti locali. Infine, vanno individuati strumenti, anche di natura procedurale, che ne regolino, con chiarezza, tempi e fasi di realizzazione, con previsione di idonee misure in caso di inadempienza, che possono assumere anche carattere sostitutivo nei confronti del mancato intervento attuativo regionale. Al trasferimento delle funzioni deve collegarsi la riorganizzazione delle strutture centrali e il conseguente trasferimento delle risorse strumentali e finanziarie, evitando il fenomeno, già conosciuto in passato, della duplicazione delle strutture. Con l’attuazione del disegno complessivo sulle competenze amministrative e legislative previsto dagli articoli 117 e 118 della Costituzione occorrerà individuare dei meccanismi di federalismo fiscale che possano sostenere l’autonomia di entrata e di spesa di ogni livello di governo rispetto alle funzioni ad esso attribuite. È evidente che ogni provvedimento di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione presuppone una chiara ricognizione della finanza di ciascun livello di governo (ammontare delle risorse finanziarie complessive a livello di Stato, regioni, province, comuni e città metropolitane), in rapporto alle funzioni esercitate. Il federalismo fiscale è, quindi, la modalità attraverso cui agli enti territoriali viene garantita l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa per l’esercizio delle funzioni pubbliche loro attribuite. L’articolo 119 della Costituzione prevede quattro fonti di entrata: a) tributi ed entrate propri; b) compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio; c) un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante (queste tre fonti di entrata devono consentire agli enti territoriali di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite); d) lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuo- vere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni. L’articolo 119 della Costituzione, nel prevedere le fonti di finanziamento degli enti territoriali, non fa alcuna menzione delle addizionali e delle sovrimposte, accomunandole alle compartecipazioni. Ma se l’autonomia tributaria a livello territoriale è definita, nel caso delle addizionali e delle sovrimposte, entro margini di discrezionalità di modifica delle aliquote disposte a livello centrale, nullo è, invece, il grado di autonomia nel caso delle compartecipazioni, di fatto assimilabili a forme di trasferimento. La legge statale di attuazione dell’articolo 119 dovrebbe, pertanto, colmare tale lacuna prevedendo un riferimento esplicito a tali modalità di finanziamento degli enti territoriali.

La norma costituzionale prefigura, quindi, un federalismo fiscale di alto profilo, autonomistico ma nel contempo solidale, garantendo la perequazione delle diverse capacità fiscali dei territori e prevedendo fondi speciali per le areeenti in situazioni di particolare disagio socioeconomico. Come calare nella realtà del nostro paese il nuovo assetto della finanza pubblica? Come, gradualmente, assorbire e governare le differenze territoriali? Differenze nella distribuzione dell’attuale spesa, non tanto nell’entità quantitativa, ma qualitativa, e differenze nella distribuzione del prelievo fiscale.

In sintesi: qual è, politicamente, la differenza tollerabile e, perché no, virtuosa, che permette la crescita complessiva del livello economico e sociale del paese nel contesto di un federalismo fiscale solidale e non competitivo, ma che, nel contempo, solleciti e premi il comportamento più attento all’efficacia e all’efficienza nell’uso delle risorse pubbliche e nelle azioni di contrasto all’evasione fiscale? A queste domande si possono dare molte risposte teoriche con supporti scientifici assolutamente rigorosi e corretti, ma il rischio è di rimanere fermi al confronto teorico mentre, nel frattempo, la situazione finanziaria pubblica diventa insostenibile. È invece doveroso, preliminarmente, partire da una franca discussione e confronto per definire il concetto di fabbisogno che costituisce il cuore del problema.

Definiti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, occorre definire il fabbisogno finanziario, individuando costi standardizzati per ciascuna di tali funzioni pubbliche, senza escludere la possibilità della differenziazione dei costi standardizzati per macroaree del paese. Le entrate proprie, ad aliquota standard, le compartecipazioni al gettito di tributi erariali e, se non sufficienti, il fondo perequativo debbono garantire la copertura integrale del fabbisogno determinato. Per l’esercizio di funzioni aggiuntive, per inefficienze non ancora recuperate ecc., gli enti territoriali dovranno ricorrere ad un aumento della pressione fiscale attraverso l’applicazione di addizionali su tributi erariali o ad aumento di aliquote sui tributi propri. Non può essere ipotizzata la copertura di queste maggiori spese attraverso il fondo perequativo, né attraverso le risorse aggiuntive previste dal quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione perché, se così fosse, sarebbe la riproposizione della finanza derivata sotto altro nome. Il disegno riformatore è molto ambizioso e difficile ma necessario e indifferibile. Non possiamo continuare ad operare in una situazione in cui è troppa la distanza fra autonomia e responsabilità, senza correre il rischio di una rottura del rapporto democratico fra istituzioni e cittadini. Dobbiamo rafforzare gli strumenti di partecipazione democratica e di controllo sociale a disposizione dei cittadini e delle comunità.

Il federalismo fiscale sarà anche lo stimolo più efficace per la corretta gestione delle risorse pubbliche, per il controllo della dinamica della spesa e potrà favorire, così, una tendenziale e progressiva diminuzione della pressione fiscale. Solo a conclusione di questo percorso e consolidato il processo di riforma istituzionale e del federalismo fiscale, sarà possibile affrontare il «federalismo differenziato» previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Esso prevede che: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata».

Per il finanziamento delle spese aggiuntive correlate al federalismo differenziato, il riferimento è ai principi stabiliti dall’articolo 119. Quindi, il relativo finanziamento non può essere garantito con trasferimenti specifici, ma attraverso le modalità previste dall’articolo 119: tributi ed entrate propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio, fondo perequativo.

Incidere, però, sulla perequazione significa, di fatto, indebolire fortemente la solidarietà infraregionale, condizionando il processo di redistribuzione, necessario per avvicinare le differenti capacità fiscali dei territori, alla volontà di singole regioni di attuare il federalismo differenziato. Rimangono, quindi, i tributi propri e le compartecipazioni al gettito di tributi erariali.

Ipotizzare il sistema di finanziamento delle regioni ad autonomia rafforzata con tributi propri significa, implicitamente, riconoscere che solo le regioni con maggiore capacità fiscale e maggiore base imponibile possono richiedere, ed eventualmente realizzare, il federalismo differenziato previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. In termini politici è una opzione da valutare attentamente; verrebbe introdotto un federalismo competitivo su un tessuto istituzionale e su una realtà economica e sociale ancora troppo caratterizzati, territorialmente, da debolezze e differenze strutturali tali da mettere in discussione l’unitarietà e la coesione del paese.

Prevedere il finanziamento del federalismo differenziato attraverso l’introduzione di aliquote differenziate di compartecipazione al gettito di tributi erariali è, forse, la soluzione meno problematica. Il fabbisogno, sulla base del quale viene definita l’aliquota differenziata, non potrebbe che essere il costo che lo Stato centra- le sostiene per l’esercizio delle funzioni oggetto del trasferimento alla regione.

La soluzione adottata in occasione dell’attuazione del federalismo amministrativo (decreti Bassanini) ha fatto registrare notevoli difficoltà riconducibili al dato che, spostando in periferia i costi sostenuti centralmente, si eguagliano realtà diverse il cui allineamento è a carico degli enti decentrati. La complessità della realizzazione del federalismo differenziato, i cui profili sono stati qui solo sommariamente delineati, è affrontabile solo a conclusione del processo attuativo di riforma degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, dopo un periodo di consolidamento del quadro istituzionale e della finanza pubblica. Un percorso concordato e condiviso da tutti i soggetti protagonisti, negoziato e programmato anche nella sua gradualità temporale, potrà garantire il raggiungimento degli obiettivi e la realizzazione dei principi contenuti nella Carta costituzionale. A tal fine si impone una profonda riforma del sistema dei raccordi istituzionali tra lo Stato, le regioni e gli enti locali. Deve essere avviato da parte del parlamento il percorso di attuazione dell’articiolo 11 della legge costituzionale 3 del 2001, con l’istituzione della Commissione bicamerale per le questioni regionali integrata con rappresentanti degli enti territoriali e, allo stesso tempo, deve essere contestualmente avviata dal governo una riforma del sistema delle Conferenze, attraverso la revisione del decreto legislativo 281 del 1997.

[1] R. Faini et al., I conti a rischio: la vulnerabilità della finanza pubblica italiana, Il Mulino, Bologna 2006.