I nuovi orizzonti della politica europea dell'energia

Di Giacomo Luciani Domenica 02 Marzo 2008 19:24 Stampa

Il 10 gennaio 2007 la Commissione europea ha pubblicato un insieme di documenti che costituiscono la proposta di nuova strategia energetica dell’Unione. Si tratta di un corpus vasto e complesso che tocca molti punti di estrema importanza, e che non si vuole riassumere in questo articolo. La Commissione pone le preoccupazioni ambientali al centro della strategia, proponendo un obiettivo minimo di riduzione delle emissioni di gas serra del 20% al 2020 rispetto al 1990. Da questo obiettivo fa discendere una serie di iniziative nel campo delle energie rinnovabili, del risparmio energetico, dell’utilizzo dell’energia nucleare.

 

In questo contributo si intende concentrare l’attenzione sulla questione dell’integrazione del mercato europeo dell’energia e della promozione di una sua maggiore competitività, tenendo presenti le preoccupazioni per la sicurezza degli approvvigionamenti, in particolare di gas.1

L’energia ha svolto un ruolo importante all’origine del processo di integrazione europea. Delle due originarie comunità europee, una (la Comunità del carbone e dell’acciaio) nacque per gestire la disponibilità e poi il graduale declino della fonte indigena per eccellenza, il carbone, mentre l’altra (l’EURATOM), venne concepita per gestire in comune la fonte di energia del futuro, l’energia nucleare. Ciononostante, la politica energetica è un settore nel quale gli Stati membri non hanno finora mai attribuito all’Unione un vero potere di iniziativa, e ancora meno di codecisione. In occasione delle varie revisioni dei trattati è stato ripetutamente proposto di includere l’energia tra i settori di responsabilità condivisa tra Unione e Stati membri, ma la proposta non è stata mai accettata. Il progetto di costituzione europea elencava l’energia tra i settori di responsabilità condivisa, ma, come sappiamo, non ha avuto fortuna.

In materia di energia, la Commissione ha operato sempre sulla base di mandati parziali, derivati dai mandati che la Commissione ha in materia di tutela della concorrenza e unificazione del mercato europeo, di tutela dell’ambiente, e di sicurezza degli approvvigionamenti, oltre agli originari mandati per carbone e nucleare. Ciò ha influenzato la strategia di politica dell’energia della Commissione da due punti di vista: da un lato, orientandola principalmente verso la creazione di un mercato europeo dell’energia integrato e concorrenziale; dall’altro, obbligandola a fare i conti con la riluttanza dei paesi membri a concederle un mandato più completo.

Alla radice di questo comportamento ci sono le profonde divergenze di interessi e di politiche a livello nazionale, e il diverso atteggiamento verso iniziative concorrenti a livello OCSE, promosse in particolare dagli Stati Uniti. Esiste infatti l’Agenzia internazionale dell’energia, che è una fonte concorrente di coordinamento delle politiche dell’energia non solo europee, ma anche degli USA, del Giappone e degli altri paesi OCSE.

L’Agenzia è però priva di un reale potere coercitivo, e quindi in definitiva molto più accomodante delle diversità che esistono anche fra paesi membri dell’Unione.

Queste diversità sono profonde e conducono a serie divergenze negli interessi nazionali: si hanno paesi come la Gran Bretagna o l’Olanda, che sono importanti produttori ed esportatori di idrocarburi, mentre altri non ne producono affatto; paesi con rilevanti riserve di carbone e altri che non ne hanno; paesi come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, che avendo acquisito un potenziale nucleare militare hanno mantenuto un programma nucleare civile che altri hanno (incautamente) abbandonato o ridimensionato; paesi che per loro collocazione geografica sono molto dipendenti da un particolare fornitore esterno all’UE, e altri che invece godono di una buona diversificazione delle fonti; e infine paesi che hanno sviluppato delle imprese forti nello sfruttamento degli idrocarburi e altri che hanno imprese forti soprattutto nell’elettricità e nella distribuzione del gas.

Tali divergenze si manifestano in bilanci energetici molto diversamente strutturati. La dipendenza di ciascun paese da specifiche fonti è assai diversa: il fatto è stranoto per quanto riguarda l’energia nucleare (che genera quasi l’80% dell’elettricità francese, il 55% di quella belga, il 52% di quella svedese, il 40% di quella svizzera; percentuali elevate anche in Lituania e Slovacchia; altrove molto meno), ma si riscontra anche per il gas, che in Olanda, Regno Unito e Ungheria fornisce più del 40% di tutta l’energia primaria, e in Italia circa il 35%, mentre in altri paesi ha un ruolo molto marginale.

Di fronte a queste diversità strutturali, la Commissione ha posto l’accento principalmente sulla coesione e sulla necessità di maggiore integrazione. Il quesito fondamentale è: se i singoli paesi membri hanno sistemi energetici tanto diversi e polarizzati, e interessi nazionali così spesso divergenti, come sarà possibile tenere assieme l’Unione economica e monetaria? Ciascun sistema nazionale reagirà in maniera molto diversa agli shock provenienti dal resto del mondo, e si creeranno situazioni incompatibili con le regole europee in materia di libertà degli scambi, o di concorrenza, o di proibizione degli aiuti di Stato e così via.

Soltanto attraverso un processo di maggiore compenetrazione e omogeneizzazione dei sistemi energetici nazionali è possibile arrivare ad una reale integrazione anche in questo settore di fondamentale importanza.

La priorità nella strategia europea dell’energia è stata quindi attribuita all’unificazione del mercato e alla lotta alle molteplici forme di limitazione della concorrenza. Fin dall’inizio, l’attenzione si è appuntata in particolare sull’energia da rete – elettricità e gas – per le caratteristiche di monopolio naturale territoriale che hanno tradizionalmente giustificato l’esistenza di monopoli nazionali o locali. La normativa, introdotta nel 1996-98 è rivista nel 2003, riflette un’impostazione liberista, che discende dalla deregulation reaganiana negli USA e da quella, ancora più spinta, adottata dalla Gran Bretagna sotto la leadership di Margaret Thatcher.

La deregulation nell’energia da rete si è sviluppata in parallelo con quella delle telecomunicazioni, ma non ha goduto di un comparabile processo di innovazione tecnologica, ed ha avuto quindi risultati molto meno spettacolari.

Le direttive su elettricità e gas sono state accolte con modalità molto diverse dalle legislazioni nazionali dei singoli paesi membri: mentre paesi come l’Italia e la Spagna hanno adottato regole alquanto liberali (pur rifiutandosi di smembrare o indebolire le ex imprese monopoliste pubbliche, come la Thatcher aveva fatto in Gran Bretagna), altri paesi hanno ritardato o comunque minimizzato il processo di liberalizzazione. I casi di Francia e Germania sono particolarmente rilevanti, perché questi due paesi occupano una posizione geograficamente centrale, e la loro limitatissima partecipazione al processo di liberalizzazione significa in buona sostanza che i produttori degli altri paesi membri hanno poche o nessuna possibilità di penetrare i mercati del resto dell’Unione.

In conseguenza, di concorrenza nel settore dell’energia, diversamente da quello delle telecomunicazioni, se n’è vista ben poca. Anche se l’apertura dei mercati va lentamente migliorando, e il trend è indubbiamente positivo, il consumatore non ha goduto dello spettacolare abbassamento di costi di cui ha beneficiato nella telefonia.

Anche in Gran Bretagna, il successo della politica di liberalizzazione è oggi molto meno evidente di quanto non fosse all’inizio. Appena eliminato il monopolio di British Gas, i prezzi, grazie alla molteplicità di produttori presenti nel Mare del Nord e all’abbondanza dell’offerta, scesero a livelli molto bassi, e vi sono restati fin quando la produzione del Mare del Nord non ha iniziato a declinare. A loro volta, i bassi prezzi del gas hanno favorito la creazione di nuove centrali elettriche a gas, e la riduzione dei prezzi dell’elettricità. Tuttavia, in seguito il governo è intervenuto per limitare l’eccessiva dipendenza del settore elettrico dal gas; e con il declino della produzione del Mare del Nord il prezzo del gas in Gran Bretagna ha superato quello europeo nell’estate del 2006.

Quelle che si scontrano a livello europeo sono due diverse impostazioni e filosofie: una che propone prezzi più stabili anche se forse mediamente più elevati, e si fonda sul controllo monopolistico o oligopolistico di mercati territorialmente delimitati; l’altra che propone prezzi mediamente più bassi ma anche volatili, attraverso la concorrenza e il libero mercato.

In teoria, attraverso l’utilizzo di contratti derivati anche il regime di concorrenza può garantire la stabilità dei prezzi e isolare il consumatore dalle oscillazioni dei mercati spot, in pratica però questo non accade. Se sia a causa del fatto che il consumatore preferisce effettivamente i prezzi bassi anche a prezzo di instabilità e prezzi temporaneamente molto elevati, o a causa del fatto che le imprese non offrono al consumatore questa alternativa, o che il consumatore non è sufficientemente maturo e lungimirante e non la richiede, è difficile dirlo. Certo è che, ogniqualvolta i prezzi salgono improvvisamente a causa di un picco di domanda o di una strozzatura nell’offerta, sorge il problema della sicurezza energetica.

Ora, la sicurezza – nel senso di disponibilità fisica sufficiente a soddisfare la domanda – è sempre garantita dal mercato. È il prezzo che si incarica di attirare maggiore offerta o razionare la domanda, e garantisce l’equilibrio del mercato in condizioni di concorrenza. Eppure il consumatore non sembra sentirsi sicuro, né i responsabili politici accettano la situazione come normale.

È discutibile quale strategia sia in grado di garantire maggiore «sicurezza» energetica, e probabilmente la risposta dipende anche dalle specifiche circostanze di ciascun paese. La strategia dei monopoli territoriali si fonda su contratti di importazione o piani di produzione a lungo termine, che sono resi possibili dal controllo che il produttore/importatore ha del mercato. Se il mercato viene aperto e diventa contestabile da parte di concorrenti, gli impegni a lungo termine diventano più difficili.

D’altra parte, di norma in nessun mercato concorrenziale con domanda ciclica i produttori mantengono una capacità produttiva tale da soddisfare la domanda nei momenti di picco. Per fare ciò, la loro capacità produttiva dovrebbe rimanere parzialmente inutilizzata per la maggior parte del tempo. La gravità del problema dipende dall’ampiezza delle oscillazioni della domanda e dalla difficoltà di accumulare scorte: nel caso dell’energia, la domanda ha oscillazioni ampie, e l’accumulo di scorte è impossibile per l’elettricità e molto costoso per il gas.

In ogni caso, dal punto di vista del processo di integrazione europea, è evidente che la soluzione può essere solo avere più, e non meno, concorrenza. Per assicurare la coerenza fra l’esigenza di promuovere un mercato europeo dell’energia integrato e concorrenziale, e quella di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, l’Unione europea ha teso ad «esportare» il suo modello concorrenziale e ad allargare il mercato dell’energia anche oltre i suoi confini.

L’Unione ha iniziato a preoccuparsi della logistica dell’approvvigionamento di energia già nel 1990. Al momento del crollo dell’Unione Sovietica apparve immediatamente evidente che il sistema logistico per il trasporto del gas creato sotto il regime sovietico sarebbe stato vulnerabile ai conflitti fra le repubbliche nate dal collasso di quel regime. Facendo seguito ad una proposta dell’allora primo ministro olandese, Ruud Lubbers, l’UE si fece promotrice della Carta europea dell’energia, che nell’originaria intenzione doveva servire appunto a mediare potenziali conflitti di transito.

Questa iniziale ispirazione venne notevolmente allargata e in un certo senso travisata a seguito dell’ingresso nei negoziati di molti paesi non europei (USA, Canada, Giappone) che vollero aggiungere clausole sulla libertà di investimento e sul trattamento nazionale degli investitori esteri. La Carta europea divenne Carta dell’energia tout court, e venne seguita dal Trattato della Carta dell’energia, che USA e Canada alla fine non firmarono, e la Russia firmò, ma non ha poi mai ratificato.

L’UE successivamente tentò la strada della cooperazione tecnica, lanciando il programma INOGATE, il quale, oltre a completare numerosi studi sulla situazione dei vecchi gasdotti e sulla fattibilità di nuovi progetti, condusse alla firma del cosiddetto Umbrella Agreement, anch’esso principalmente teso a garantire il transito, e mai firmato dalla Russia.

L’UE ha «esportato» la sua politica energetica anche attraverso altri strumenti. In primis lo stesso allargamento dell’Unione verso Est ha fatto sì che il numero dei paesi di transito – se si considera l’Unione nel suo complesso – si sia significativamente ridotto; e se si considera che la Turchia è paese candidato e impegnato ad adottare in pieno l’acquis communautaire, l’Unione ha la prospettiva di confinare direttamente con Iran e l’Iraq, e di avere frontiere molto vicine al Caspio. Da ultimo, attraverso la politica mediterranea prima, e ora attraverso la politica di vicinato (European Neighbourhood Policy) l’UE spinge perché anche i paesi confinanti adottino le regole del mercato europeo dell’energia. Un recente successo in tal senso è la creazione della Comunità dell’energia, alla quale hanno aderito i 27 paesi membri, la Croazia, la Bosnia e Herzegovina, la Serbia, il Montenegro, la FYROM, l’Albania e L’UNMIK, mentre negoziati sono in corso per l’adesione di Turchia, Norvegia, Ucraina e Moldova.

Questa politica di «proselitismo» in materia di mercato dell’energia serve a scoraggiare comportamenti anticompetitivi da parte dei paesi vicini e ad assicurare l’applicazione di regole di reciprocità; ma la Commissione ritiene che sia anche la giusta risposta alle esigenze di sicurezza degli approvvigionamenti. La logica dell’UE è che, qualora si creasse un’effettiva integrazione in un mercato dell’energia tanto vasto, la sicurezza degli approvvigionamenti sarebbe garantita dal fatto che tutti i potenziali produttori desidererebbero avere accesso ad un tale mercato. La stessa dimensione del mercato consentirebbe di fare a meno di contratti di lungo periodo e di clausole di take or pay – che impediscono la concorrenza – e di lanciare progetti su di una base di rischio.

Il maggior ostacolo al successo di questa strategia è la mancanza di sufficienti collegamenti interni fra paesi membri dell’UE medesima, ancora più che di nuovi progetti di importazione. Manca, in altre parole, la possibilità di modificare i flussi in caso di emergenza, e la possibilità teorica di organizzare swap non basta ad accendere la concorrenza.

Per ottenere concorrenza e integrazione non bastano le regole, occorre anche una certa ridondanza nella capacità di trasporto di elettricità e gas attraverso le frontiere, altrimenti l’interscambio incontra un ostacolo fisico. Il problema dell’integrazione dei mercati dell’elettricità e del gas sta nel fatto che mentre le altre merci utilizzano generalmente strutture di trasporto comuni, elettricità e gas hanno bisogno di strutture di trasporto dedicate. L’UE è impegnata nel facilitare l’aumento degli scambi al suo interno attraverso la realizzazione dei TransEuropean Networks (TEN) che riguardano anche l’energia, ma mentre per la realizzazione di strade e ferrovie o porti sono disponibili finanziamenti pubblici, per gasdotti ed elettrodotti si suppone che gli investimenti debbano essere effettuati dalle imprese interessate. Ma l’elevato costo e la bassa redditività di queste strutture (che sono peraltro regolate e soggette all’obbligo di accesso dei terzi) scoraggia la loro realizzazione in anticipo rispetto alla domanda: il mercato consente la realizzazione delle interconnessioni, ma solo una volta che la potenziale domanda per il loro utilizzo sia ben chiara, cioè molto in ritardo rispetto alle esigenze di una politica di stimolo alla concorrenza.

Il potenziamento delle interconnessioni energetiche nel cuore stesso dell’Europa è dunque una delle sfide fondamentali che la strategia europea deve affrontare nei prossimi anni, certamente trovandosi a fronteggiare l’ostilità delle imprese che controllano le connessioni esistenti, che poi sono le stesse che controllano i mercati.

La Russia è oggi il principale nemico della politica europea di creazione di un mercato integrato e concorrenziale dell’energia, e punta a mantenere una bilateralizzazione degli scambi e rapporti privilegiati con i suoi principali clienti, cioè in primis la Germania e poi anche l’Italia. Non ci si può nascondere che la decisione tedesca di concludere un accordo bilaterale con la Russia per la posa di un gasdotto off shore nel Baltico che collegherà la Russia direttamente al mercato tedesco, preferendo questa soluzione alla meno costosa alternativa di un gasdotto a terra che avrebbe attraversato i paesi baltici (Lettonia, Estonia, Lituania) e la Polonia, costituisce una dimostrazione di sfiducia nel potenziale della strategia europea. Il gasdotto del Baltico accentua l’isolamento dei paesi baltici e la loro totale dipendenza dalla Russia, e consente a quest’ultima di attuare con facilità una politica di divide et impera.

Anche il recente accordo tra ENI e Gazprom, che ha esteso al 2035 la durata dei contratti di fornitura che legano le due compagnie, ha il risultato pratico di ingessare il mercato italiano e di rendere più difficile la sua evoluzione nella direzione di una maggiore concorrenzialità.

L’accordo è stato salutato positivamente come contributo alla sicurezza degli approvvigionamenti, ma è appunto una sicurezza che si basa sulla continuazione del dominio dell’ENI sul mercato italiano e sulla sua alleanza strategica con Gazprom.

Gazprom è così ostile alla politica europea perché ha potenzialmente da perdere da una maggiore concorrenzialità. L’Europa è infatti circondata da numerose fonti di gas, e molte di queste sono potenzialmente a minor costo del gas russo. Quest’ultimo gode di un sicuro vantaggio competitivo fin quando viaggia sui vecchi gasdotti realizzati dall’URSS, e ormai completamente ammortizzati; ma se dovesse pagare la realizzazione di nuovi gasdotti, come in particolare quello Baltico, arriverebbe in Europa ad un costo superiore rispetto a quello di altri potenziali fornitori più prossimi.

Gazprom quindi insiste nel voler consolidare le sue alleanze strategiche con gli operatori ex monopolisti e nell’integrarsi a valle acquisendo i gasdotti nei paesi di transito e una presenza diretta nel mercato dei paesi europei, per sbarrare la strada ad ogni ipotesi di mercato concorrenziale. Vuole mantenere la rendita consentita dal divario esistente tra il costo del gas e quello delle altre fonti di energia con le quali il gas entra in competizione, e vuole appropriarsi di una fetta progressivamente crescente di questa rendita. Si è detto che la Russia fa un uso politico del suo gas: così è apparso soprattutto all’inizio del 2006, quando sono stati tagliati i rifornimenti all’Ucraina, e in seguito quanto sono stati alzati i prezzi alla Georgia. Ma più recentemente sono stati alzati anche i prezzi alla Bielorussia, il più vicino alleato di Mosca. La motivazione fondamentale di Gazprom e di Putin può essere piuttosto ravvisata in ragioni economiche: porre un termine alle vendite scontate, massimizzare il ritorno delle esportazioni di gas ovunque dirette. È una logica trasparente e perfettamente prevedibile.

Questo non significa che debba essere accettata. La linea di resistenza è chiara e semplice: bisogna imporre una totale separazione fra proprietà delle strutture di trasporto, importazione e distribuzione del gas.

Gli importatori (o esportatori) non debbono controllare i gasdotti né le strutture di stoccaggio, e debbono vendere il gas ai grandi utilizzatori o ai distributori preferibilmente attraverso mercati organizzati in corrispondenza dei maggiori hub. Questo è quanto è accaduto negli Stati Uniti: a seguito della deregulation, il mercato, che in precedenza era dominato da contratti di fornitura a lungo termine tra produttori e distributori, si è trasformato rapidamente in un mercato dominato da contratti spot o futuri sui principali hub – in particolare Henry Hub, che è diventato il riferimento di prezzo per l’intero mercato americano. L’Europa può e deve evolvere nella medesima direzione.

Alla luce di queste considerazioni, le misure proposte dalla Commissione nell’ambito della proposta di nuova strategia energetica europea non sembrano interamente soddisfacenti. La Commissione ha proposto la separazione proprietaria tra strutture di trasmissione e l’attività di produzione e commercializzazione di elettricità e gas: questo significa che le reti non potranno più appartenere ai produttori e distributori di elettricità e gas. In Italia, questa separazione esiste già nel settore elettrico, dove ENEL ha ceduto Terna attraverso un’OPV in borsa; mentre ENI mantiene una partecipazione di ampia maggioranza in SNAM Rete Gas e ha più volte affermato di non avere alcuna intenzione di rinunciarvi.

La Commissione è cosciente del fatto che la proposta di separazione proprietaria tra produzione/distribuzione e trasmissione ha scarse possibilità di essere accettata, a causa dell’ostilità di Germania e Francia. Appena annunciate le nuove proposte di Bruxelles, esponenti industriali o governativi di questi due paesi hanno chiaramente espresso la loro ostilità. Per questo la Commissione indica che l’alternativa della separazione del management sarebbe anche accettabile, anche se costringerebbe ad uno sforzo di regolazione molto più minuzioso e rigido. Questa è la soluzione che è esistita in Italia per l’e-lettricità per alcuni anni, durante i quali la proprietà della rete è rimasta in capo ad ENEL, ma la sua gestione era affidata al Gestore della rete (GRTN, ora GSE-Gestore del sistema elettrico).

Ma supponiamo pure che alla fine si giunga ad una separazione fra produzione/distribuzione e trasmissione: la Commissione sembra ritenere che, eliminato il conflitto di interesse che è implicito nell’avere queste due attività controllate da uno stesso proprietario (il potenziamento delle reti è necessario per favorire la concorrenza, ma il produttore/ distributore dominante non vuole maggiore concorrenza), il problema sarebbe risolto. Ma non è detto che sia così: il proprietario delle reti sarà comunque guidato dalla massimizzazione del profitto, e non vorrà aumentare troppo la capacità, con il rischio che rimanga inutilizzata.

Prevarrà comunque la filosofia del «giusto in tempo», che significa capacità insufficiente nei momenti di picco della domanda. A meno che la decisione sui nuovi investimenti non venga affidata ad un’autorità esterna, la cui motivazione principale sia quella di stimolare la concorrenza, con il vincolo di evitare una lievitazione eccessiva dei costi (il costo della capacità inutilizzata dovrebbe ricadere comunque sul consumatore finale).

Inoltre, rimane il problema dell’integrazione fra produttore/ importatore e distributore. Nel caso del gas, i produttori/importatori sono comunque pochi, perché i paesi fornitori non hanno interesse a consentire una concorrenza fra diversi produttori del loro gas. Lo scarso interesse della Russia verso ipotesi di frammentazione di Gazprom per consentire una concorrenza fra diversi produttori di gas russo è evidentissimo. Lo stesso dicasi dell’Algeria: solo la Norvegia ha accettato di abolire, almeno sul piano formale, il monopolio di esportazione che aveva stabilito in passato. 2

In queste condizioni, se si consente ai pochi produttori/importatori (nel caso del gas, sempre meno produttori e sempre più importatori) di essere direttamente presenti nella distribuzione, si creano comunque condizioni molto sfavorevoli per eventuali nuovi concorrenti.3 È solo con il passo successivo della obbligatoria separazione tra distributori e produttori/importatori – cioè con l’obbligo per questi ultimi di vendere il gas all’ingresso nella rete, ovvero in corrispondenza di alcuni hub appropriatamente definiti – che si creeranno condizioni veramente favorevoli ad un mercato concorrenziale e trasparente.4

Le due opposte filosofie presenti in Europa – quella che mira a garantire stabilità e sicurezza degli approvvigionamenti attraverso accordi bilaterali «privilegiati» fra singoli paesi europei e specifici fornitori esterni, e quella che al contrario si fonda sull’effettiva realizzazione di un mercato integrato e competitivo – si scontreranno nei prossimi mesi in sede di definizione della nuova strategia europea. È facile prevedere che alla fine emergerà un compromesso che non sarà sufficiente a creare un mercato effettivamente integrato e competitivo, ma sarà comunque un passo avanti in quella direzione.

Se la Commissione avrà successo con le altre componenti del pacchetto che propone, in particolare il maggior ricorso alle fonti rinnovabili e un ricorso percentualmente almeno stabile al nucleare, le importazioni di gas potrebbero in ogni caso non conoscere la dinamica esplosiva altrimenti prevista, e questo sarebbe di per sé un contributo a mercati più stabili e competitivi.

Inoltre, ci sono almeno altri due importanti elementi di novità nelle proposte della Commissione, che possono incidere favorevolmente sulla diversificazione degli approvvigionamenti, in particolare di gas, e sulla concorrenzialità dei mercati.

Il primo punto è che la Commissione propone di «sviluppare l’uso di strumenti finanziari, attraverso una cooperazione rafforzata con la BEI e la BERS e la creazione di un Fondo di investimento per il vicinato (Neighbourhood Investment Fund), per migliorare la sicurezza energetica dell’UE». Questo potrebbe voler dire che la Commissione è pronta a sottoscrivere almeno parte del capitale di rischio di nuovi progetti di infrastrutture di trasporto di significato strategico per il mercato europeo. Tanto la BERS che, su fondi allocati del bilancio dell’Unione, la BEI hanno già la possibilità di sottoscrivere capitale di rischio in aggiunta alla concessione di crediti agevolati, ma non hanno mai utilizzato questa possibilità per sostenere infrastrutture di importazione di gas (o petrolio, o elettricità).6

Il secondo punto è la proposta di nominare dei «coordinatori europei » per i progetti di maggiore valore strategico, incaricati di promuovere migliori condizioni di investimento per la realizzazione di progetti internazionali. Il documento della Commissione cita in particolare il progetto «Nabucco», che dovrebbe portare gas dall’Iran all’Austria, attraverso Turchia, Bulgaria, Romania e Ungheria. Si tratta di proposte importanti che si spera possano trovare l’appoggio degli Stati membri (ma è scontato che ci saranno anche delle resistenze).

Nel suo complesso, il pacchetto proposto dalla Commissione ha quindi molto chiaramente il carattere di ulteriore ma non ultimo passo verso la realizzazione di un mercato europeo integrato dell’energia, e verso una politica energetica europea. L’Europa dell’energia, come in altri campi, rimane un cantiere perennemente aperto.

 

[1] Tra i documenti approvati dalla Commissione, si rimanda in particolare a tre: An Energy Policy for Europe; Prospects for the internal gas and electricity market; Inquiry pursuant to Article 17 of Regulation (EC) No 1/2003 into the European gas and electricity sectors (Final Report).

[2] Formalmente il cosiddetto GFU è stato abolito nel 2001, ma, nei fatti, il governo norvegese mantiene il controllo delle esportazioni di petrolio e di gas.

[3] La Commissione è cosciente e denuncia il problema: «Another form of vertical foreclosure was found to exist by way of the integration of generation/imports and supply interests within the same group. This form of vertical integration reduces the incentives for incumbents to trade on wholesale markets and leads to sub-optimal levels of liquidity in these markets». Commissione europea, Inquiry pursuant to Article 17 of Regulation cit., p. 6.

[4] La Commissione prevede un maggior ricorso a «energy release programmes», cioè ad un obbligo parziale da parte degli operatori dominanti di cedere energia prodotta o importata sul mercato all’ingrosso. Di norma, gli «energy release programmes» sono temporanei: se dovessero essere continuamente ripetuti sarebbe preferibile, come si propone in questo contributo, una soluzione strutturale.

[6] Il documento della Commissione cita in particolare il finanziamento del corridoio energetico Trans-Caspio e i progetti sub-Sahara-Maghreb-UE, ma non chiarisce se l’appoggio finanziario debba consistere nella tradizionale concessione di crediti o nella ben più importante sottoscrizione di capitale di rischio.