Mezzogiorno e Mediterraneo. Integrazione, sviluppo locale ed emersione

Di a cura di Daniela Ferrazza, Luca Meldolesi e Nicol Domenica 02 Marzo 2008 20:36 Stampa

Una parola d’introduzione L’idea portante delle pagine che seguono risale all’estate scorsa, quando divenne chiaro che la svolta impressa dal governo di centrosinistra alla politica estera italiana dopo la guerra del Libano aveva sorpreso positivamente l’opinione pubblica internazionale – come se si trattasse di una rara avis, di un segno di cambiamento insperato, che avrebbe potuto produrre conseguenze benefiche. Perché non assecondare questa evoluzione inattesa nell’area mediterranea, tramite una partecipazione corale di iniziative meridionali amiche, allo scopo d’irrobustire, ad un tempo, queste ultime e quelle prospettive appena socchiuse? Da questo interrogativo è scaturito il workshop su «Mezzogiorno e Mediterraneo: integrazione, sviluppo locale ed emersione» svoltosi presso la Fondazione Italianieuropei il 25 ottobre 2006, da cui è tratto il contributo che segue.

Esso ha avuto l’intenzione di promuovere un dialogo schietto tra alcuni protagonisti della scena meridionale e un gruppo di operatori realmente esistente nel Sud. Questo dossier raggiungerà il suo scopo se riuscirà a contribuire a mettere in moto un processo di maturazione della consapevolezza culturale e istituzionale delle risorse considerevoli di cui il paese dispone: rappresentano potenzialità vere, che potrebbero essere utilizzate in modo più attivo e coordinato a favore allo stesso tempo del Mezzogiorno e del Mediterraneo.

Quanto segue (che può dare un’idea della discussione che ne è all’origine, ma non può certo far giustizia della ricchezza del dibattito che l’ha contraddistinto) ha mantenuto l’originaria tripartizione in «politica estera delle regioni meridionali frontaliere», «politiche centrali di sviluppo locale e di emersione» e «politiche micro di sviluppo locale e di emersione: risultati e limiti di un cantiere aperto».

Da un lato, v’è stata l’intenzione di coinvolgere le regioni meridionali a diversi livelli, a partire da quelle frontaliere e dalla loro politica estera; dall’altro, il proposito di riesaminare, da un nuovo angolo di visuale, l’esperienza meridionale che fa capo al Comitato nazionale per l’emersione del lavoro non regolare: per riproporla riguardo ai diritti del lavoro (alla regolarità, al rispetto delle normative, alla salute e alla sicurezza ecc.), per renderla utile alla prospettiva intravista e per sostenere la sua fruibilità nel Mezzogiorno e nel Mediterraneo su una serie di temi tra loro collegati.

Partendo dalle modifiche possibili per migliorare numerose iniziative centrali afferenti a diversi dicasteri (e accrescere, di conseguenza, la loro efficacia/efficienza a favore del protagonismo territoriale), tale démarche giunge, infine, a proporre una serie di strumenti d’integrazione, di crescita e di emersione – come i centri di servizi itineranti per artigiani e PMI, i laboratori per piccoli imprenditori, gli interventi d’area, il microcredito ecc.

Il «taglio» del discorso è quello della politica economica operativa. Lo scopo è, innanzitutto, di far conoscere alcuni spunti di ragionamento, finestrelle aperte su panorami largamente intonsi. Il risultato è di mettere sotto gli occhi del lettore una problematica che può venir raggruppata attorno al concetto di «anelli mancanti», e dunque attorno ad una serie di stratagemmi e di collegamenti effettivamente reperibili e che possiedono la caratteristica attraente di migliorare gli esiti concreti delle politiche economiche in condizioni di ritardo relativo, di sviluppo e di legalità.1

La politica estera delle regioni meridionali frontaliere La politica mediterranea della Puglia Con la riforma del Titolo V della Costituzione, sono stati assegnati poteri di politica estera alle regioni, la cui natura è, però, tutta da definire.

Esiste, inoltre, una sorta di oscillazione tra spinte molto forti di ritorno al centralismo (anche all’interno dell’attuale governo) e atteggiamenti «localistici» in alcune Regioni, che non favoriscono una posizione omogenea nei confronti del potere centrale. Infine, bisogna considerare che queste novità si inseriscono in un quadro di recenti «cambi della guardia» nei governi regionali e che vi è oggi una svolta interessante nella politica estera nazionale.

La Puglia ha avviato il suo lavoro in questo campo in base a una intuizione del presidente Vendola sulla necessità di rivedere l’impostazione dei programmi europei gestiti dalla precedente amministrazione. I programmi Interreg, che ora vanno ad esaurimento, erano organizzati per settori, senza integrazione tra i diversi ambiti di intervento. Non consentivano di spendere più del 10% dei fondi all’estero e venivano considerati una modalità aggiuntiva di finanziamento, più che una attività strategica. Essi, inoltre, permettevano forme di pseudo-cooperazione allo sviluppo, tramite le quali gli imprenditori arrivavano all’improvviso in un territorio, divoravano qualcosa opportunisticamente per poi andarsene, secondo un metodo «mordi e fuggi» che impediva lo sviluppo di una vera internazionalizzazione basata sulle inclinazioni dell’emittente e del destinatario. Quei programmi, tuttavia, hanno permesso di costruire alcuni primi rapporti tra le regioni confinanti, che ora possono trasformarsi.

Si sta, infatti, avviando una nuova stagione, quella dei Programmi di prossimità, che rientrano nelle finalità dell’Obiettivo 3, e che formulano, per la prima volta, un nesso stretto tra la cooperazione allo sviluppo e l’internazionalizzazione, in un’ottica sistemica di superamento della logica settoriale (attraverso azioni integrate) e di coordinamento territoriale (attraverso l’individuazione di paesi target per ragioni strategiche). Questa logica innovativa è stata colta dalla Regione Puglia, tanto da costruire un programma strategico per l’internazionalizzazione (PRINT) con l’Albania, nel quadro dei programmi per la pre-adesione. La Puglia e l’Albania chiedono, così, un progetto-paese per l’Albania, di cui sia titolare la Puglia e i cui punti concreti sono: azioni integrate sull’agricoltura, dall’assistenza tecnica alla sperimentazione del biologico, allo sviluppo rurale, alla collaborazione nel sistema dell’approvvigionamento idrico (ambito in cui l’Albania conta molti punti di forza); valorizzazione dei beni culturali e del turismo, con progetti di turismo culturale e mini-crociere; internazionalizzazione del sistema produttivo pugliese in un’area industriale da attrezzare a Scutari; sviluppo di una rete trasportistica via mare, con messa in rete dei porti di Bari, Brindisi, Durazzo e Bar e di una viabilità via terra attraverso il Corridoio 8 (che interessa Albania, Macedonia, Bulgaria e potrebbe estendersi alla Serbia).

Quest’ultimo progetto si inserisce in una più vasta intesa con l’area balcanica, che parte da una relazione politica e istituzionale tra diverse realtà, per poi ricadere su progetti di integrazione dei territori e di sviluppo economico, sociale e culturale. Sono progetti che hanno come interlocutori i paesi balcanici (che sono generalmente piccoli e centralistici), ma che prevedono anche diverse forme di institution building con la partecipazione delle comunità locali. Inoltre, si stanno sviluppando buone relazioni di lavoro con molti altri paesi del Mediterraneo. Ad esempio, con la Turchia, un paese che vuole entrare nell’Unione europea, che collega continenti, che ha un tasso di sviluppo impressionante, e che sta facendo una fortissima politica di zone franche per attirare investimenti e consentire un ulteriore rilancio. Riguardo all’internazionalizzazione, si può portare l’esempio degli imprenditori pugliesi che hanno acquistato navi mercantili in sinergia con una compagnia turca; il che conduce ad un potenziamento della portualità e della logistica per i transiti mercantili che vengono da quel paese. Invece, la cooperazione culturale della Regione Puglia con la Turchia è attiva nell’area della ricerca e dell’università, ad esempio, in campo archeologico. Invece, per alcuni paesi del Medio Oriente (Libano, Palestina, Israele, Iraq) che appartengono alle zone di crisi, si è intervenuti con una prospettiva di sviluppo autonomo uscendo dall’ottica della mera emergenza e della semplice solidarietà. È stata distaccata, a tal fine, una piccola tranche di finanziamenti regionali di 100 mila euro e, insieme all’Istituto agronomico mediterraneo (organo intergovernativo che ha sede a Bari) e ai ministeri dell’agricoltura e degli esteri, si sta lavorando per la ricostruzione e per fornire assistenza tecnica in agricoltura (un esempio è l’attività legata allo sminamento).

In Libano, prima dell’inizio della guerra, la Regione Puglia stava per partire con un programma di sviluppo agricolo e culturale di recupero delle antiche vie romane, che avrebbe avuto effetti positivi sull’agricoltura oltre che sul turismo. Il Libano, infatti, è un grosso produttore di olio che entra clandestinamente nelle nostre bottiglie, e che si voleva, invece, valorizzare allo scopo di conquistare nuovi mercati commercializzandolo insieme all’olio pugliese.

Con altri paesi del Medio Oriente, si lavora sfruttando le condizioni concrete esistenti: in Iraq, partecipando ad un programma delle regioni italiane sui diritti delle donne e dell’infanzia; in Palestina, collaborando con le comunità locali – anche se con una lentezza esasperante – dal momento che i rapporti dell’Autorità palestinese con l’Unione europea sono interrotti; in Israele, instaurando rapporti simili a quelli esistenti con la Turchia, su innovazione, tecnologia, acqua. Infine, la Puglia va tessendo rapporti con la zona Sud del Mediterraneo, in particolare con l’Egitto.

L’interesse per il paese del Canale di Suez è ovvio, dal momento che il governo regionale ha in mente di valorizzare la posizione geopolitica della Puglia sotto il profilo trasportistico, della mobilità delle persone e delle merci all’interno e all’esterno del Mediterraneo, qualificando il porto di Taranto (in sinergia con i porti della Calabria), mettendo in rete i porti ionici e tirrenici con quelli adriatici, e cercando di costruire un’alleanza con le altre regioni dell’Obiettivo 1, in modo da evitare concorrenze distruttive. Questo ambito della politica estera regionale si avvale di alcune peculiarità regionali, ma anche del buon rapporto che è stato instaurato a livello nazionale, con il ministero degli esteri e con quello dell’agricoltura. Il disegno fin qui descritto è stato costruito con l’assistenza tecnica dell’Unità per l’internazionalizzazione del ministero degli esteri, sulla base di un rapporto iniziato quando era ministro l’onorevole Fini.

Le nuove direttrici della politica estera italiana hanno valorizzato la Puglia, come si è visto recentemente alla Fiera del Levante, dove è stato organizzato un meeting sui Balcani cui hanno partecipato Massimo D’Alema e Romano Prodi. La Puglia ha saputo cogliere una direttrice politica emergente, anche perché era pronta a ghermirla.2

Un network degli enti locali del Mediterraneo Il Comitato permanente per il partenariato euro-mediterraneo di poteri locali e regionali (COPPEM) è finanziato in parte dall’Unione europea, in parte dalla Regione Siciliana: è un network di 202 autorità locali – comuni, province, regioni – appartenenti a trentacinque paesi, che nasce dalla Dichiarazione di Barcellona del 1995.3 Nel 1998, sulla falsariga dei tre pilastri di questa dichiarazione (partenariato politico e di sicurezza; partenariato economico e finanziario; partenariato sociale, culturale e umano), si è deciso di dar vita ad un comitato permanente di cooperazione tra città dirimpettaie – dell’UE e della sponda meridionale del Mediterraneo – con sede a Palermo. La sua segreteria è stata affidata alla Regione Siciliana. Partendo dall’esperienza del COPPEM è possibile parlare di una prospettiva di cooperazione decentrata, che veda le regioni meridionali italiane dialogare con alcuni paesi del Mediterraneo. Il COPPEM, ad esempio, è capofila di un progetto Archimed4 di cui è partner anche l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, per la costruzione di un distretto ecomuseale della fascia mediterranea che comprende la Grecia e la Libia.5

Esiste, quindi, una «diplomazia delle autonomie locali», meridionale e mediterranea, che può aiutare a raggiungere determinati risultati nell’ambito del sistema-paese e dell’intera area mediterranea. D’altra parte, se si è effettivamente convinti che, come motore di sviluppo, la questione meridionale si coniuga con quella della centralità del Mediterraneo, bisogna allora conseguentemente sostenere la creazione di una macro-regione mediterranea che sia competitiva con le altre, e che cooperi al suo interno.

Basti pensare alla questione dei trasporti via mare. Se è vero che le merci dirette in Europa e che provengono dalla Cina, dall’India e, in generale, dal Sud-Est asiatico possono transitare sempre più via mare, passando per il canale di Suez, bisogna però, a tal fine, che questa rotta risulti via via più competitiva rispetto a quelle (di terra o di mare) concorrenti. Per cogliere questa opportunità occorre che, a monte dell’animazione territoriale, si sviluppi un’intensa animazione istituzionale, in modo che, insieme ai ministeri degli esteri e alle altre autorità centrali, anche i livelli della governance territoriale dei paesi interessati si sentano coinvolti. Senza tali iniziative, rischieremmo di trasformarci in una specie di «progettificio» fine a se stesso. Bisogna invece riuscire a utilizzare i tanti strumenti disponibili dell’Unione europea allo scopo di concepire nuovi scenari che non ripetano i modelli di sviluppo continentale.6

Esperienze a livello territoriale con la Tunisia L’esperienza del Comitato di ricerche economiche e sociali per il Meridione (CRESM)7 in materia di scambi internazionali con la Tunisia riguarda i settori della pesca, dell’olio, della manifattura e, da qualche di tempo, anche quelli del vino e del turismo. Infatti, recentemente, con la collaborazione di alcune autorità locali siciliane (il Comune di Gibellina e la Provincia di Siracusa), è stata avviata un’iniziativa di turismo culturale-solidale nel sud della Tunisia: nella regione di Medenine, di fronte a Djerba. Questa modalità di turia smo alternativo che riguarda piccoli numeri (gruppi di 8-20 persone) può entrare in contatto positivamente con la realtà culturale, associativa ed economica locale, contribuendo a riattivare la vita dei piccoli centri. L’esperienza è stata positiva e ha provocato anche alcune visite di ritorno, dalla Tunisia alla Sicilia. È quindi accaduto un fatto sorprendente: si è toccato con mano l’interesse da parte di una certa fascia della società tunisina (sia del nord, che del sud) per il turismo in Sicilia, alla riscoperta delle comuni origini fenicie, puniche e arabe.

Il segnale culturale che questa «scoperta» porta con sé è particolarmente interessante. Infatti, in alcuni paesi maghrebini (soprattutto in Tunisia e in Marocco), si sta affermando una classe media, una società civile che potrebbe diventare facilmente un interlocutore culturale di primo piano per il nostro paese. Invece, da noi, non si presta attenzione a questo fenomeno e le porte rimangono chiuse, a cominciare dai visti che non vengono rilasciati per via della legge Bossi-Fini.

Quanto poi all’immigrazione e all’integrazione culturale, nel 1993 è stato sottoscritto un accordo tra Italia e Tunisia che istituiva a Mazara del Vallo una scuola tunisina e a Tunisi una scuola italiana. Ma, mentre a Tunisi ai ragazzi italiani viene insegnato anche l’arabo, a Mazara del Vallo non si insegna l’italiano: vi si insegna solo l’arabo e le materie che hanno a che fare con la cultura tunisina. Di conseguenza, chi ha studiato in quella scuola non si è integrato; al contrario deve ricominciare tutto daccapo, con il rischio di rimanere isolato rispetto agli italiani e di concorrere, magari, alla formazione di una specie di ghetto maghrebino all’interno della nostra società. Dal 1998 al 2002, il CRESM era riuscito ad avviare a Mazara del Vallo una scuola sperimentale formata, per la prima volta, da classi miste di giovani italiani e maghrebini in cui si insegnava sia l’italiano sia l’arabo. Il progetto, finanziato dal ministero della pubblica istruzione, dimostrava come si possono favorire condizioni d’integrazione reale spendendo un numero limitato di risorse (solo per l’insegnante di arabo e per i testi scolastici). Ciononostante, a partire dal 2002, il ministero ha sospeso, incomprensibilmente, questa importante sperimentazione.8

L’esperienza Eu-Med La FIELD (Formazione, innovazione, emersione locale e disegno territoriale)9 è una scuola-laboratorio nata in Calabria nel 2003 con l’idea di un confronto di rete. È scaturita dal bisogno di uscire da un localismo asfissiante – tanto che il suo primo interlocutore è stato la scuola imprenditoriale del Lee Iacocca Institute della Lehigh University della Pennsylvania (grazie soprattutto alla volontà di Lee Iacocca di costruire un’iniziativa per giovani imprenditori nel paese di origine della sua famiglia). Questo progetto ebbe difficoltà a maturare in Campania, ma interessò molto i tutori calabresi del Comitato per l’emersione. Così, non appena si venne a creare una congiuntura favorevole, anche grazie ad un finanziamento per l’emersione che veniva da una delibera del CIPE, fu possibile varare in Calabria questa collaborazione, che ha portato ad un vero scambio di docenti, studenti ed esperienze.

Da qui sono nate una serie di iniziative, inclusa l’aula laboratorio «Eu-Med» del settembre 2005 sul tessile tradizionale di qualità, a cui hanno partecipato imprenditori meridionali, ospiti mediterranei ed ex alunni del Global Village, provenienti da paesi come Canada, Stati Uniti, Ucraina, Israele, Hong Kong. L’ipotesi di partenza era che, cominciando dal micro, dalla spinta locale, è possibile produrre un effetto più vasto. Oggi si è giunti, infatti, alla costituzione di un’associazione di tutte le imprese del tessile tradizionale di qualità che parteciparono a quel workshop. Esse si sono convinte che la loro collaborazione può dar vita ad un sistema di promozione dei prodotti molto più strutturato di quelli che, azienda per azienda, avevano utilizzato in precedenza.10

Politiche centrali di sviluppo locale e di emersione Dieci «anelli» di introduzione «Fare molto, presto e bene, con poco: alcuni suggerimenti di politica economica pratica centrale che possono migliorare la vita» è il titolo di un piccolo documento che può esser letto come introduzione a questa seconda parte, perché dà un’idea dei dieci «anelli mancanti» che è possibile, invece, reperire.

1. La base conoscitiva A Bruxelles, negli ambienti della Commissione europea, si sostiene fermamente la proposizione, apparentemente self evident, secondo cui non si possono prendere decisioni appropriate senza sufficienti informazioni. È una tesi che nasconde un’insidia. Infatti, prima di imbarcarsi in progetti faraonici di rilevazione, sarebbe bene domandarsi se veramente mancano informazioni sufficienti su un determinato argomento (e su argomenti collegati) o se invece può essere sufficiente raccogliere, concentrare e organizzare adeguatamente le informazioni reperibili. Almeno nel nostro paese, il secondo caso è quello di gran lunga prevalente, effetto di una divisione del lavoro amministrativa e di un’attribuzione esclusivista delle competenze che tendono a produrre duplicazioni e dispersioni. Da qui è nato uno schema ricompositivo a tre comparti – conoscenze strutturali, congiunturali e dirette (ottenute sul campo) – scritto inizialmente per il ministero dell’interno ma valido, probabilmente, per tutte le situazioni di ritardo o di degrado, e da cui è possibile trarre il primo anello mancante del presente excursus.11

2. Le statistiche dell’occupazione All’interno di quell’orizzonte, un ruolo particolarmente importante possono avere le statistiche sull’occupazione. L’idea è quella di elaborare e utilizzare liberamente tutte le statistiche disponibili, ufficiali e amministrative, in funzione dello scopo da raggiungere, partendo dalle caratteristiche di ciascuna di esse e dal loro confronto. È possibile, inoltre, con tale documentazione, dialogare con altre informazioni territoriali relative al lavoro. Infine, con poca spesa si può «nettare» le statistiche INAIL dalle duplicazioni, in modo da trasformarle in uno strumento tempestivo di segnalazione dell’andamento occupazionale di zona.

3. Evasione e sommerso Evasione e sommerso sono spesso correlati. Per migliorare la loro performance fiscale, gli Studi di settore debbono corrispondere sempre più alla realtà effettiva esistente in loco (anche per essere effettivamente uno strumento di emersione e non di immersione). Inoltre, tali Studi, pur avendo un’origine aziendalistica, possono venir ampliati per includervi il lavoro, sia dal lato della coerenza che da quello della congruenza. Sull’uno, come sull’altro versan- te, è in corso una sperimentazione i cui elementi fondamentali verranno descritti più avanti.

4. Learning organization La divisione del lavoro politico-amministrativo e l’esclusività delle competenze conducono spesso a situazioni paradossali, inaccettabili per i cittadini. Nel campo della base conoscitiva, come in molti altri, è possibile operare in controtendenza per vasi comunicanti, scambi di esperienze, linguaggi comuni, ricomposizioni. Invece di consentire che ciascuna istituzione faccia storia a sé, il federalismo maturo, pur nel rispetto dei ruoli reciproci, richiede una concentrazione (sia verticale che orizzontale) delle volontà. Indispensabile, a tale proposito, è l’aspetto di learning organization dell’amministrazione: sia nel senso dell’imparare a lavorare bene da parte degli operatori, sia nel senso dello studio dei risultati e della continua ricerca del miglioramento della performance.

5. Avvisi comuni Gli avvisi comuni settoriali e bilaterali delle parti sociali dell’edilizia del dicembre 2003 e dell’agricoltura del maggio 2004 sulla regolarizzazione del lavoro hanno inaugurato una forma di politica economica pratica particolarmente seducente, che è stata ripresa con successo in alcune realtà regionali e provinciali. A livello governativo questa esperienza è stata interrotta a metà del 2004 dal governo Berlusconi. Potrebbe essere ripresa con successo a partire da quei settori che erano già allora in lista d’attesa (commercio, turismo, artigianato ecc.). Infatti, questa forma di accordi senza carico aggiuntivo del bilancio pubblico beneficiano della ricca conoscenza del settore e della legislazione, propria delle parti sociali dei relativi settori. Se il governo si impegnasse a recepirli, essi potrebbero raggiungere risultati importanti, più unici che rari nella storia del paese.

6. Progetti shock di mobilitazione del mercato del lavoro Nelle zone meno favorite, le politiche attive del lavoro trovano un ostacolo spesso insormontabile nella lentezza del mercato della manodopera. Accade così che chi avrebbe più bisogno di venir assistito nella ricerca del lavoro lo è di meno. I progetti shock sono interventi straordinari di mobilitazione delle energie lavorative per mettere in movimento capacità e risorse intrappolate da tale meccanismo.

7. Politiche regionali I L’esperienza e la teoria hanno mostrato all’unisono che, di fronte all’esistenza assai diffusa di comportamenti patologici, è bene collocarsi sulle ali dello spettro delle possibilità, invece che nella zona centrale.12 Vale a dire che ci si trova su un terreno più solido quando l’intervento è automatico (come nel caso del credito d’imposta per l’occupazione) e, se è possibile, anche indiretto (come nella fiscalità di compensazione o nelle zone franche urbane); oppure quando, all’opposto, l’intervento è responsabile (da parte degli operatori) e coinvolgente (per i beneficiari). Su questo secondo versante si collocano gran parte delle esperienze presentate nella terza parte del presente contributo.

8. Politiche regionali II Tuttavia, la volontà del sistema politico nell’ambito dell’impianto europeo si muove, com’è noto, sulle linee della programmazione, tramite un meccanismo, ormai conosciuto, che non ha condotto finora ai risultati desiderati. Oltre alla questione delle infrastrutture e dei progetti, di cui si dirà più avanti, si pone il problema concreto di migliorare le future performance nei casi situati nella zona centrale dello spettro delle possibilità, quella per l’appunto ex ante sconsigliabile. Esistono in proposito almeno due diverse strade che consentono di apportare una correzione significativa rispetto all’andamento corrente, che tende, purtroppo, a riprodursi: una dal basso, che mostra in concreto come sia possibile riempire di risultati effettivi le procedure messe in opera (e ricuperare, magari per scopi più utili, i progetti meno solidi); una dall’alto, che responsabilizza, individualmente e collettivamente, la catena degli uffici che sovrintendono al meccanismo programmatorio rispetto al risultato finale. Un gruppo itinerante di monitoraggio e valutazione in grado di fornire tempestive informazioni sugli andamenti effettivi del lavoro potrebbe svolgere un ruolo importante in tal senso.

9. Studi di fattibilità e progetti Un’attenta progettazione è spesso garanzia del lavoro da compiere. Su questo, i progressi sono stati sensibili, a partire dagli studi di fattibilità voluti dall’allora ministro del tesoro Carlo Azeglio Ciampi. Esiste, in particolare, un’esperienza di progettazione centrale a sostegno dell’investimento pubblico locale che potrebbe diventare utile per migliorare le performance regionali.

10. Uso del sistema SIOPE Con grande ritardo rispetto all’esperienza internazionale, l’Italia ha finalmente un sistema di contabilità on line. Questo strumento è però stato utilizzato finora in ambito macroeconomico. In veste disaggregata, invece, il Sistema informativo delle opera- zioni degli enti pubblici (SIOPE) rappresenta un intero ambito di valutazione e di decisione da conquistare in potentia: quello relativo alla riforma settoriale e territoriale dell’amministrazione, alla spesa pubblica e alle politiche perseguite. Per esemplificare questo ordine di problemi, si è pensato di concentrare l’attenzione sulla collaborazione tra la Società per gli Studi di settore (SOSE) e il Comitato per l’emersione, ossia sul terzo «anello», quello che mette in relazione evasione e sommerso.13

Gli Studi di settore tra evasione e sommerso In Italia sono presenti oltre quattro milioni di imprese, ossia circa un’impresa ogni quattordici abitanti, fra le quali prevale una tipologia che, in relazione al numero degli addetti, può essere definita delle microimprese.14 Se alle imprese si aggiungono anche i professionisti si arriva ad un numero complessivo di circa cinque milioni di contribuenti.

È intuibile che un efficace controllo su una platea ampia come questa non può che svolgersi attraverso un sistema fondato sulla compliance (accettazione), che porti la gran parte dei contribuenti ad adempiere spontaneamente ai propri obblighi tributari. È in questo quadro e con questi obiettivi che sono stati elaborati gli Studi di settore, i quali hanno iniziato a recuperare un rapporto di collaborazione e di fiducia reciproca tra amministrazione finanziaria e PMI (assistite dalle loro organizzazioni di categoria), fornendo ad entrambe la possibilità di verificare in modo chiaro, trasparente e ragionato l’attendibilità della dichiarazione presentata, attraverso l’analisi delle informazioni relative alla congruità dei ricavi e alla coerenza degli indicatori economici.

La costruzione degli Studi di settore è avvenuta tramite un processo di analisi comparativa che, sulla base di un modello che integra tecniche di analisi microeconomica settoriale e tecniche di analisi statistica multivariata, individua le relazioni esistenti tra le variabili contabili e le variabili strutturali di ogni singola attività economica in riferimento al settore di appartenenza, ai processi produttivi utilizzati, all’organizzazione aziendale, ai prodotti oggetto dell’attività, alla localizzazione, al mercato e agli altri elementi significativi per ogni specifica attività. Per ogni Studio di settore, sulla base dei dati contenuti in specifici modelli allegati alla dichiarazione dei redditi, vengono individuati i modelli organizzativi (cluster) delle imprese del settore. Inoltre, per ogni modello organizzativo, vengono analizzati gli indicatori economici più significativi per l’attività in esame (indicatori di coerenza) e viene defi nito un modello di valutazione delle performance economiche della singola impresa (funzione di ricavo).

L’applicazione degli Studi di settore consente di raccogliere numerose informazioni sul mondo delle PMI, che alimentano una banca dati. Quest’ultima, grazie ai modelli degli Studi di settore allegati alla dichiarazione dei redditi di tutti i contribuenti interessati dall’istituto, viene aggiornata annualmente con l’invio telematico delle dichiarazioni. La banca dati degli Studi di settore (che raccoglie e integra diciottomila variabili di analisi riferite a quattro milioni di contribuenti per il periodo 1998-2005) è, quindi, un patrimonio informativo importante, che riguarda il sistema produttivo e commerciale, le caratteristiche strutturali e organizzative e la situazione economico-contabile delle PMI. L’applicazione degli Studi di settore ai singoli contribuenti consente di acquisire due tipi di informazioni fiscalmente rilevanti: da un lato, quelle che derivano dall’analisi della congruità del contribuente, ossia dall’analisi del confronto tra il ricavo dichiarato e il ricavo di riferimento ottenuto dall’applicazione degli Studi di settore; dall’altro, quelle che derivano dall’analisi della coerenza del soggetto considerato, cioè della valutazione comparata degli indicatori economici specifici del settore riguardo al soggetto stesso.

La valutazione della congruità e della coerenza, derivante dall’applicazione degli Studi di settore, fornisce un contributo significativo per orientare in maniera efficace l’accertamento e il controllo fiscale nei confronti dei contribuenti che risultano non congrui e/o non coerenti.

Infatti, essendo anche gli Studi di settore un sofisticato strumento di analisi comparativa interaziendale, le situazioni di incoerenza del singolo contribuente rispetto agli indicatori economici del settore di appartenenza possono costituire un importante elemento di valutazione della sua pericolosità fiscale.

Riguardo poi all’attività di controllo, gli Studi di settore sono stati utilizzati per la definizione dei criteri di selezione dei soggetti da sottoporre a verifica. Ciò ha permesso di individuare situazioni sintomatiche di presenza di personale irregolare; situazioni anomale in riferimento alla consistenza del magazzino e alla corretta fatturazione delle operazioni di acquisto; casi di evasione di ricavi che, per effetto di manovre contabili generalmente riconducibili ai punti precedenti, lo studio di settore rischia di non poter cogliere.

I risultati ottenuti in termini di emersione del lavoro sommerso applicando tali criteri di selezione sono molto significativi: è risultato che un’impresa su tre aveva addetti irregolari (dipendenti, familiari o collaboratori) e un’impresa su quattro aveva regolarizzato i propri dipendenti nel corso dell’ultimo anno. Inoltre, in alcuni settori del comparto dei servizi, due imprese su tre occupavano lavoro irregolare. Sulla base di queste verifiche è iniziata un’attività di analisi per identificare nuovi modelli per l’individuazione del lavoro sommerso, che partano dai dati contabili e strutturali dichiarati e utilizzino i risultati delle verifiche sul personale irregolare rilevato, al fine di applicare, poi, tali modelli all’intera platea di soggetti che svolgono la medesima attività.

Infine, in collaborazione con il Comitato per l’emersione, è iniziato un lavoro di analisi sulle imprese che in Calabria hanno avuto accesso al credito tramite il Progetto emersione Calabria (PEC).15 Si stanno raccogliendo i dati di queste imprese con l’obiettivo di valutare l’emersione degli addetti e della base imponibile. Il dato più significativo che sta emergendo dall’analisi dei primi dati è costituito dal fatto che molte delle imprese che hanno avuto accesso al credito erano addirittura ignote al fisco.16

Accesso al credito ed emersione Nel corso di un’azione di animazione territoriale, è emerso chiaramente a proposito della Calabria un elemento già noto da tempo, ossia che la difficoltà di accesso al credito rappresenta per le imprese un ostacolo alla regolarizzazione delle posizioni lavorative. Cosicché, non appena sono state rese disponibili le risorse sufficienti, per iniziativa di alcuni tutori per l’emersione, è stata introdotta nel Progetto emersione Calabria (PEC) della Fondazione FIELD un’iniziativa sul credito.

Dopo aver studiato le possibili soluzioni operative, si è optato per la creazione di un fondo di garanzia a sostegno di imprese già inserite in processi di emersione e sviluppo, che prevedeva una attività di accompagnamento e di monitoraggio da parte degli animatori territoriali impegnati nel progetto. Superando molte difficoltà di natura prevalentemente burocratica, circa il 25% delle risorse complessive del PEC, pari a quasi un milione di euro, è stato destinato ad incrementare un fondo di garanzia regionale preesistente, rinominato Fondo emersione Calabria. Il Fondo ha permesso di erogare, in tempi ragionevoli, prestiti alle imprese attraverso il sistema bancario. Per effetto del moltiplicatore creditizio, esso ha consentito di concedere prestiti alle imprese per otto milioni e mezzo di euro. Ad ottobre del 2006, il Fondo risultava essere stato completamente utilizzato, attraverso un sistema che consente di erogare prestiti a solo a due/tre imprese al mese utilizzando i fondi che si rendono disponibili in seguito alla progressiva restituzione dei prestiti concessi precedentemente ad altre imprese. Al 31 agosto risultavano fra i beneficiari di questi intervento 130 imprese che, grazie al fondo di garanzia (che copre l’80% della somma concessa) avevano ottenuto mediamente 70 mila euro ciascuna.

Nell’attività di monitoraggio in corso, da cui provengono anche i dati utilizzati nell’attività sperimentale condotta insieme alla SOSE, viene verificato l’impatto che, in termini di emersione, questa iniziativa ha avuto sulle aziende che sono riuscite ad accedere al credito.17 Le posizioni lavorative erano già state rilevate durante la fase istruttoria, cosicché oggi, a distanza di tempo, il monitoraggio mostra che, anche se la concessione del prestito non poneva l’obbligo della regolarizzazione, le posizioni regolari sono aumentate. Ciò induce a pensare che tra l’impresa, che si era impegnata a realizzare un piano di sviluppo, e l’animatore, che ha svolto l’attività di accompagnamento e poi di monitoraggio, si sia instaurato una specie di tacito «patto d’onore». Infatti una delle caratteristiche innovative che ha funzionato meglio nell’intervento sul credito è stata quella dell’«accompagnamento». Accompagnando ogni singola impresa dalla domanda fino all’erogazione del prestito in banca, l’operatore che ha svolto l’istruttoria, ha instaurato con l’impresa un rapporto fiduciario che consente poi il rispetto del programma aziendale condiviso. Durante l’analisi delle richieste presentate dalle imprese, insieme ad una valuta- zione dei documenti presentati, è stato effettuato un sopralluogo nell’azienda, che ha permesso di conoscere direttamente le caratteristiche e le necessità «reali» di ogni singola unità economica. È nata così l’esigenza di disporre di indicatori facilmente interpretabili, relativi alle caratteristiche delle imprese da agevolare. In tal senso, attraverso l’incrocio dei dati e delle informazioni disponibili, l’iniziativa sperimentale intrapresa con la SOSE può permettere di realizzare anche un «indicatore di premialità », utilizzabile per orientare le agevolazioni verso quelle imprese che rispondono a requisiti di regolarità lavorativa, oltre che fiscale.18

Metodo e complementarietà nell’intervento I punti di forza tecnici di questa esperienza sul credito in Calabria sono, in primo luogo, la possibilità, inserita nel bando, di finanziare le aziende, attraverso un prestito garantito dal Consorzio fidi, non solo per la ristrutturazione aziendale e l’incremento occupazionale, ma anche per il ripianamento dei debiti INPS, che sono uno dei problemi principali delle imprese.

Inoltre, mentre in passato in Calabria esisteva un rapporto di uno a uno tra sportelli fidi e operatore di sportello, ora – è questo il secondo punto di forza – la rete di tutori e di operatori territoriali, opportunamente formatasi nell’esperienza del Comitato nazionale, della Commissione regionale, delle Commissioni provinciali per l’emersione, di PEC e di FIELD, una volta messa all’opera, ha permesso di fornire una seria valutazione tecnica sulla capacità reddituale e sulla situazione economica delle aziende, restituendo così ai Consorzi fidi il ruolo che più si addiceva loro: quello di interfaccia contrattuale tra mondo bancario e impresa.

Infatti, la Fondazione regionale FIELD, che ha finanziato parte del fondo ottenendone la «codirezione», ha potuto impiegare senza difficoltà un gruppo già formato di operatori che si sono recati in azienda e sono entrati nel merito dei problemi esistenti. Essi hanno sottoposto a critica puntuale alcune richieste tipiche delle piccole imprese come, ad esempio, l’auto di rappresentanza che diventa auto privata, il climatizzatore poco utile, l’altoforno non dimensionato alla produzione media annuale ecc.. Hanno analizzato le richieste commisurandole all’attività svolta, domandando, ad esempio, quale fosse la capacità produttiva di un altoforno in relazione alla variazione della domanda registrata a livello congiunturale, oppure come fossero dimensionate i costi aziendali rispetto agli investimento previsti o rispetto al credito che l’azienda desiderava ottenere. Questo check up ha suggerito addirittura la riduzione delle richieste iniziali dell’azienda, con un effetto diretto sulle garanzie che era necessario presentare per ottenere il finanziamento.

Infine, entrando nel merito delle singole pratiche, avendo una conoscenza diretta del funzionamento delle aziende, dell’organizzazione interna e dei prodotti, e collegando tali aspetti con le azioni di emersione e di sviluppo (piani d’area, formazione imprenditoriale ecc.) della Fondazione FIELD, l’istruttoria sulle aziende ha assunto ben altra consistenza: è risultato sicuramente più semplice per la Regione, per il Consorzio fidi e per le banche scommettere cum grano salis sulle imprese calabresi tramite la concessione di prestiti.

Questi aspetti della politica del piccolo credito promossa in Calabria dalla rete del Comitato per l’emersione aiutano a comprendere come la territorialità (la concessione di prestiti, ma anche i censimenti, le rilevazioni, i percorsi di animazione ecc.) possa esser collegata agli Studi di settore, che sono sì una banca dati più che sufficiente, ma che non rispecchiano la realtà così com’è realmente, la come la descrivono le dichiarazioni che i consulenti preparano per le imprese. A questo proposito ci si è chiesti se gli Studi di settore potessero essere valorizzati collegandoli ad uno sforzo di costruzione territoriale di politiche di emersione e di sviluppo locale, ovvero, se fosse possibile ottenere un saldo finale nazionale per le casse dello Stato superiore rispetto a quello corrente attraverso un’elaborazione tecnica che prenda l’avvio dal collegamento tra Studi e territorio. Ci si è chiesti se fosse possibile stabilire che la revisione di quanto ciascuno deve pagare (revisione degli Studi di settore) e l’indicazione di quanti lavoratori sono necessari per quel livello di reddito d’impresa (congruità del lavoro) non deprime né la produzione né il lavoro e, soprattutto, non rischia di causare ulteriore contabilità contraffatta che andrebbe ad allargare la platea dei concorrenti sleali, che non rispettano le norme (evadendo, eludendo, producendo azioni irregolari). Parallelamente, ci si è chiesti se fosse possibile mettere à relais tutti i diversi sensori territoriali afferenti alla rete del Comitato per l’emersione che hanno svolto queste attività a strettissimo contatto con le aziende, collegando meglio territorialità e settore. Per rispondere a queste domande bisogna innanzitutto considerare l’aspetto della territorialità rispetto agli Studi di settore. Le indagini sul campo dimostrano, ad esempio, che alcuni settori produttivi dovrebbero pagare di più e altri di meno rispetto a quanto viene loro richiesto dagli Studi che li riguardano: non solo per via della provincia in cui si trovano, ma anche per il contributo qualitativo del loro fattorelavoro.

Si individuano, ad esempio, aziende ad alta intensità di capitale o di lavoro rispetto alla media del settore, nelle quali l’apporto di un lavoratore in più può far scattare un imponibile molto elevato; o altre in cui un lavoratore in più provoca, invece, un imponibile un po’ più basso (ad esempio perché l’azienda ha un ruolo secondario nella filiera, perché non ha marchio proprio, perché non è sostenuta da politiche di contesto, perché l’imprenditore dovrebbe essere affiancato nella gestione, perché il prodotto non può avere un ricarico competitivo ecc.). Non si può, alla luce di quanto detto, considerare la possibilità e l’utilità di rivedere gli Studi di settore esistenti? Infatti, collegando la qualità del lavoro al reddito d’impresa, l’incrocio dei dati delle 500 aziende calabresi (già divise in marginali e non marginali a seconda della localizzazione, del riferimento alla domanda, della capacità produttiva) con il database esistente, può migliorare gli Studi di settore dal lato territoriale-provinciale. Naturalmente si tratta soltanto del un primo passo di un lungo cammino che però indica la strada da percorrere per ottenere dei miglioramenti, a patto – è chiaro – che si voglia investire su una presenza territoriale continuativa, competente e solerte.

Ciò detto, è poi possibile ragionare all’inverso e utilizzare il database degli Studi di settore per valutare gli effetti della politica regionale sul credito. Infatti, inserendo nel database i dati delle 500 aziende ispezionate in Calabria (cioè contando concretamente i dipendenti ed eventualmente facendo scattare in avanti l’imponibile dell’azienda), è possibile comprendere se ciò che ne risulta è congruo e coerente rispetto alle realtà aziendale: rispetto al check up iniziale e all’attuale monitoraggio, piuttosto che rispetto alle dichiarazioni del consulente (quando esistono). E si può capire, inoltre, se l’incremento di reddito imponibile che si ottiene con un numero di lavoratori maggiore, riesce a coprire la spesa sostenuta dalla regione Calabria.19 Si è già precisato, d’altra parte, che molte aziende che hanno presentato domanda per il credito sono, in realtà, aziende in emersione. Ciò suggerisce, dunque, di costruire iniziative nazionali che per un verso aiutino gli Studi di settore a ricavare di più per il pubblico erario, calibrando meglio i loro indici per territorio oltre che per settore, e per un altro aiutino le politiche nazionali del lavoro a costruire indici di congruità collegati al reddito d’impresa e alla produttività lavorativa.20

Il punctum dolens dell’amministrazione La trattazione degli argomenti finora affrontati richiede anche una breve osservazione sull’azione dello Stato centralistico e sul ruolo della pubblica amministrazione. La grande difficoltà incontrata nel portare avanti le politiche degli «anelli mancanti» deriva dal fatto che la PA non si sente responsabile verso di esse, né nel caso della vecchia PA organizzata per funzioni separate, né in quello della nuova, che dovrebbe essere moderna solo perchè usa strumenti di e-government. Infatti, un’amministrazione che aspira a rappresentare un’organizzazione che apprende deve affrontare due grandi problemi: quello della responsabilità verso gli obiettivi e quello della fiducia.

La nostra amministrazione funziona ancora con una logica burocratica weberiana: ogni funzionario svolge una propria mansione secondo gli ordini ricevuti, indipendentemente dal risultato complessivo che si intende raggiungere. Di conseguenza, egli non si preoccupa di conoscere il contesto, né le particolari difficoltà da superare, e non si sente responsabile nei riguardi del se e del come il suo operato contribuisca effettivamente ad ottenere il risultato prestabilito, qualunque esso sia.

D’altra parte, questo pericolo è insito anche nel modo negativo o passivo di concepire la sussidiarietà verticale: ciascuno svolge il compito al suo livello (locale, statuale, europeo) senza preoccuparsi del risultato finale. Come è appena stato mostrato con l’esempio del credito in Calabria (in cui il prestito è contestuale ad un interessamento per la regolarizzazione e per lo sviluppo), vi è, invece, bisogno di una responsabilità orizzontale e dunque di una sussidiarietà orizzontale attiva (che in quella concezione è sostanzialmente assente).21 Inoltre, è necessaria l’affermazione di una responsabilità verticale e dunque di una sussidiarietà verticale attiva (per seguire, ad esempio, cosa succede dei finanziamenti erogati).22 Per lavorare secondo questo metodo occorre però che si costruisca un rapporto di fiducia tra cittadini e PA. Infatti, se i cittadini non si sentono sostenuti nei loro sforzi realizzativi non riescono nemmeno ad approfittare realmente delle opportunità esistenti. Ma la vecchia PA non si mette nei panni del soggetto che intende sviluppare un’azienda, creare dei servizi o fare formazione. Essa assume, piuttosto, che, a prescindere da ciò che il cittadino chiede, nella realtà si comporterà male. È un’am- ministrazione a scoprire i malfattori e, all’atto pratico, risulta anche inefficiente. Così i cittadini, se sono in difetto, contano sul fatto che, comunque, la sanzione non li colpirà.23

Politiche micro di sviluppo locale e di emersione: un cantiere aperto I CUORE di Napoli Per incoraggiare i processi di integrazione, di sviluppo locale e di emersione è necessario avere qualche punto di riferimento centrale (nazionale, regionale, comunale) e promuovere, nello stesso tempo, un’abbondante sperimentazione locale. Questo è il modo in cui sono nate numerose attività, esperienze diverse e niente affatto omogenee, anche nel caso del Mezzogiorno.

I Centri urbani operativi di riqualificazione economica (CUORE), cinque centri ubicati in zone periferiche del Comune di Napoli e in alcuni quartieri del centro storico, sono parte di un progetto del Comune di Napoli, avviato nel 1998 grazie alla collaborazione tra l’Università e alcuni amministratori consapevoli. Essi operano attraverso un approccio inedito secondo il quale se il cittadino non si reca presso la PA, è la PA ad andare dal cittadino. Si tratta infatti di sportelli itineranti, dai quali le imprese presenti nell’area di riferimento vengono avvicinate, e che esaminano i problemi delle imprese interrogandosi su cosa si potrebbe fare per risolverli, su quali sono i limiti strutturali che le affliggono, su che tipi di incentivi potrebbero essere utilizzati e così via.

È vero, d’altra parte, che tante imprese in contatto con i centri CUORE non esistono effettivamente, né dal punto di vista fiscale, né dal punto di vista strutturale perché sono formate da operatori che lavorano in casa. Un esempio è rappresentato dalle imprese del settore della pelle del quartiere Sanità. In questi ultimi mesi, è stata condotta un’indagine approfondita su questo settore e sono stati rinvenuti sessantasette operatori completamente irregolari, impegnati in attività a domicilio: si tratta semplicemente di lavoratori che si mettono insieme per lavorare la pelle ai quali si affianca un sistema diffuso di piccolissimi lavoranti a domicilio che annovera centinaia di lavoratori.

Contrastare questo tipo di irregolarità richiede un lavoro complesso che non si può basare semplicemente sull’incentivo o sulla persuasione: richiede anche una collaborazione e un’iniziativa consapevole da più punti di vista. Ed è quello che si cerca di fare come sportello informativo CUORE: mettere insieme le associazioni, le parrocchie (che sono disponibili a colloquiare per certi aspetti e per altri no), le municipalità. 24 Se non si crea questo tipo di collaborazione il problema dell’emersione in quartieri come il rione Sanità rimane irrisolto, o, per lo meno, diventa molto difficile. L’emersione è un processo complicato anche quando ci si imbatte in piccole attività imprenditoriali con una struttura aziendale da far emergere. Tramite un’analisi della società, della gestione finanziaria, della direzione economica e con l’utilizzo anche di incentivi – quali possono essere quelli messi a disposizione dalla legge 488, dalla Bersani o dalle misure di work experience – si riesce a garantire, da una parte, una emersione del fatturato e, dall’altra, la regolarizzazione di alcuni lavoratori. Oltre a ciò, esistono casi di emersione più facili, come quelli dei lavoratori autonomi completamente irregolari che, attraverso un’analisi dei costi e dei ricavi, della gestione finanziaria e degli investimenti (che possono beneficiare di strumenti di finanza agevolata come quelli per il lavoro autonomo gestiti da Sviluppo Italia) in sette/otto mesi possono diventare lavoratori autonomi completamente regolari. Sono molte le attività di questo genere che sono state intraprese. La difficoltà risiede, di solito, nel dialogo con la PA propriamente detta e con gli amministratori, per far capire loro le esigenze del territorio. Ciò conferma quello che è stato già detto riguardo ai limiti oggettivi che si incontrano nel portare avanti nuove politiche di intervento.

Inoltre, la mancanza di comunicazione tra settori della PA, che è stata già rilevata a livello centrale, è presente, immancabilmente, anche a livello locale. Infatti il progetto CUORE, che è composto di indagine, di animazione territoriale, di informazione agli imprenditori, di processi di emersione, di rapporto con la pubblica amministrazione, trova degli ostacoli, talvolta insuperabili, nel fatto che il Comune lavora per compartimenti stagni. Gli assessorati non dialogano tra di loro, mentre, andando sul territorio, si incontrano molti problemi di tipo economico- finanziario, ma anche di tipo urbano e legale (come ad esempio cri- minalità organizzata) che riguardano gli assessorati allo sviluppo e al lavoro, ma anche gli assessorati all’urbanistica, alla cultura, i vigili urbani ecc. E sono problemi che non si riesce a risolvere perché richiederebbero interventi convergenti, provenienti da più fronti, mentre, invece, è pratica corrente che ogni assessore favorisca l’attività specifica del suo assessorato.25

I CUORE e l’ambiente I centri CUORE hanno rappresentato e rappresentano un’esperienza d’avanguardia. Sono un intervento conosciuto e apprezzato a livello internazionale, dall’ONU e dalla Comunità europea, come buona pratica. Un intervento consistente, composto da cinque sportelli e che ha rapporti con migliaia di imprese (circa duemila sono quelle effettivamente seguite). Eppure, osservandolo da vicino, si possono coglierne i limiti. Infatti, raggiunte quelle dimensioni, per non cadere nella routine, sarebbe stato necessario costruire attorno ad esso un lavoro più ampio.

Comprensibilmente, i giovani laureati che vi svolgono attività come operatori si impegnano per un periodo limitato di tempo, mentre i servizi, pur essendo utili alle imprese, non sono sufficienti a elevarne le aspettative, a farne intravedere le potenzialità, a disegnarne il futuro, la vision. Per superare questi limiti, un lavoro impegnativo come CUORE avrebbe dovuto essere agganciato ad altri interventi: ad un laboratorio, a progetti d’area, alla costruzione di forme cooperative e associative, a strutture di accompagnamento per l’accesso al credito, all’innovazione. Ma a Napoli ci si è trovati in un ambiente socialmente difficile, assistenzialista, segnato, anche indirettamente, dalle patologie del caso. Ci si è imbattuti in un’amministrazione attenta innanzitutto al consenso di breve periodo, con una formazione culturale proveniente dalla grande fabbrica pubblica, operaista. Lo sforzo che proveniva dall’università di lavorare con le piccole imprese private non è stato gradito da tutti. Ad esempio, l’idea della scuola-laboratorio e i primi tentativi per realizzarla sono iniziati in Campania addirittura otto anni fa, ma sono poi dovuti emigrare in Calabria, in Puglia, in Sicilia. Adesso siamo forse vicini ad una svolta, perché il presidente della provincia di Benevento, Carmine Nardone, ha deciso di finanziare l’iniziativa. Sarebbe un successo importante, perché la storia dell’intervento a favore delle piccole imprese campane, comprese quelle dell’high tech che Nardone intende inserire nel progetto, inizierebbe a cambiare.26 Puglia: un progetto ambizioso Negli anni passati, in Puglia il sistema della Commissione regionale, di quelle provinciali e dei tutori per l’emersione ha lavorato all’animazione istituzionale e territoriale, in collaborazione con le parti sociali (sindacati e associazioni datoriali), che ne hanno apprezzato lo stile di lavoro e i risultati ottenuti pur nei limiti degli strumenti disponibili. La nuova amministrazione regionale, nel suo processo di coinvolgimento delle parti sociali sul territorio, ha inteso riattivare le Commissioni per l’emersione e ha interpellato gli interessati. Il primo risultato è stata la decisione, sostenuta dal sindacato, di partire con un punto fermo normativo, una legge regionale sull’emersione, che ha voluto lanciare un messaggio chiaro e forte sul tema della legalità. Inoltre, a breve, questa nuova gestione intende riprendere in mano un progetto di scuola-laboratorio, che era stato avviato nel 2003 e che aveva incontrato, inizialmente, alcune resistenze, perché in Puglia esiste già un’offerta formativa per imprenditori, anche di medio livello (Assindustria di Bari, Aforisma di Lecce), cosicché i potenziali partner non comprendevano in cosa questa proposta potesse essere diversa. Per superare tale impasse, è stato attivato il network già attivo tra le altre regioni, in particolare con la Commissione regionale calabrese e con FIELD. Si è smesso di parlare di formazione, si è stilato un progetto più chiaro ed essenziale che propone un laboratorio aperto, in cui far incontrare gli imprenditori delle piccole e medie imprese, per farli confrontare tra loro, metterli nelle condizioni di capire quali sono le tendenze dei mercati, perché è necessario puntare sull’innovazione e così via. Infatti, in Puglia esiste un tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese semi-regolari e regolari, anche avanzate, che operano in condizione di contoterzismo (soprattutto nei settori del legno, della meccanica e del tessile-abbigliamento-calzaturiero), oppure che producono merci di nicchia – ad esempio nella stamperia metallica – che esportano all’estero. Generalmente queste imprese non hanno contatti con la PA, se non nei casi in cui sono obbligati a farlo, e non dialogano con altre imprese con cui potrebbero consorziarsi per promuovere i propri prodotti. D’altra parte, abbiamo già visto che, innescando meccanismi di accompagnamento, le aziende del semi-sommerso, e più in generale quelle che vanno consolidate, possono emergere e avere uno sviluppo effettivo. Questa logica va riproposta, ad esempio, attraverso la scuola-laboratorio: le imprese potranno così imparare ad allargare i loro orizzonti, a consorziarsi, a diventare innovative per imboccare la strada della crescita. Inoltre, come insegna l’esperienza calabrese, la scuola-laboratorio potrà diventare il primo passo di un intervento più ampio. Dopo aver impostato così le cose, è diventato più faci- le entrare in contatto con alcuni grossi centri di innovazione tecnologica che esistono in Puglia, come il Centro Laser di Valenzano con cui è stato avviato da tempo questo discorso, o come l’ISUFI di Lecce. Anche Confindustria e CNA lamentano da tempo che non esiste ancora una classe imprenditoriale capace di leggere il futuro, di orientarsi nei mercati internazionali e hanno dichiarato che un’esperienza come quella appena proposta potrebbe aiutare i loro stessi imprenditori.27

Un laboratorio entusiasmante Per realizzare un’azione seria in favore dello sviluppo e dell’emersione è necessario costruire un processo di rafforzamento progressivo del tessuto economico delle zone di volta in volta destinatarie degli interventi. A tal fine, è indispensabile porre al centro l’impresa e far ruotare intorno ad essa un insieme di operatori, di esperti e di imprenditori, che possano aiutarla concretamente. Ma tra gli imprenditori e coloro che lavorano per l’emersione, per lo sviluppo, per le problematiche aziendali, per l’innovazione o la ricerca scientifica esiste pur sempre un problema di traduzione e di collegamento reciproci; di anelli di congiunzione mancanti. I laboratori-scuola come quello dello Iacocca Institute possono rappresentare un punto di incontro e di agglomerazione dal quale far scaturire tali legami. Il laboratorio Prima Res di Catania, ad esempio, è nato da poco ed è stato progettato per rispondere alle esigenze del tessuto produttivo catanese, rivolgendosi direttamente alla sua classe imprenditoriale. Esso non risponde ad un modello precostituito secondo il formato standard tipico dei corsi di formazione imprenditoriale. È, invece, «tagliato» su misura sui bisogni effettivamente rilevati. Le imprese di questo laboratorio sono state selezionate con grande attenzione e molte sono state individuate tramite un’attività di animazione territoriale attuata dalle guide, prima ancora che partisse l’iniziativa. In seguito, alcune di esse sono state aiutate a partecipare al bando per la formazione del laboratorio e che ha consentito di identificare altre imprese significative. In tal modo è stata intercettata la domanda più interessante dal nostro punto di vista. Si tratta di piccoli imprenditori che hanno bisogno di collegarsi ad un gruppo più forte, ad un’idea da seguire, a dei contatti che sia anche extra territoriali, perché non vogliono impelagarsi nelle classiche logiche assistenziali che tutti conosciamo.

Per loro sono stati costruiti un percorso seminariale, articolato lungo dieci week-end nel periodo settembre-dicembre 2006, e un sistema di accompagnamento, costruito da un gruppo di guide che segue le impre se singolarmente. I docenti sono spesso dei testimonial, che non insegnano solo contenuti esclusivamente intellettuali, ma che trasferiscono anche esperienza, che forniscono contatti e fanno, soprattutto, dialogare le imprese tra di loro e con la rete di conoscenze che essi portano con sé. Molta della ratio (e della forza) di questo procedimento risiede nella possibilità di attivare a Catania, per il suo tramite, leve già presenti altrove. È infatti di grande aiuto poter inserire in qualsiasi momento nel progetto d’aula le persone che appaiono più adatte a rispondere a bisogni specifici attingendo ad una rete di conoscenze nazionali.

Il corso è iniziato a settembre con un’aula composta da venti imprenditori dei settori produttivi più disparati (un nucleo rappresenta l’agroalimentare: il settore vitivinicolo, caseario, dei prodotti tipici; un altro le imprese consorziate impegnate nella lavorazione della pietra lavica; vi sono poi alcune imprese metalmeccaniche e di servizi). All’inizio sembrava difficile poter tenere insieme venti imprenditori collegandoli a temi comuni, a un filo conduttore.

Dopo un mese dal varo dell’iniziativa questa problematica è stata superata, imprese e operatori hanno preso coraggio e si comincia anche a discutere con primi aggregati di imprese. Inizialmente gli imprenditori erano sfiduciati rispetto alla PA, all’ambiente istituzionale, all’offerta formativa in generale, alle esperienze di associazionismo che avevano compiuto e che non erano andate a buon fine. Con il tempo, invece, il Consorzio della pietra lavica ha cominciato ad interrogarsi sulle ragioni del fallimento dei loro precedenti tentativi di associazione, mentre gli imprenditori dell’agroalimentare hanno cominciato a discutere di come costituire una piccola associazione, forse una cooperativa, di come metterla su, di come dialogare, di come diventare più forti insieme, magari partendo dal mercato locale. Non solo, anche se il tema del laboratorio continua ad essere quello dell’internazionalizzazione è ormai chiaro che molte imprese non hanno ancora la forza strutturale per inserirsi con successo all’estero: con queste imprese si è perciò cominciato a discutere del loro consolidamento. Il seminario funge in tal modo da «acceleratore di particelle», nel senso che al suo interno si svolgono più velocemente processi di sviluppo che, altrimenti, avrebbero avuto bisogno di tempi lunghi, di persone appositamente dedicate, di eventi straordinari di supporto. Gli imprenditori coinvolti stanno ora parlando tra loro e con il territorio e guardano anche al sistema pubblico degli incentivi in maniera diversa. Se il disincanto iniziale li portava a non voler nemmeno sentir parlare di programmazione regionale, con la quale avevano avuto in passato alcune esperienze non positive, ora, invece, comprendono di poter diventare protagonisti di una sorta di «moralizzazione» su questo sistema. Dopo aver preso coscienza del fatto di essere imprese sane e con prodotti straordinari pretendono ora che le amministrazioni comincino a funzionare bene, che inizino a sostenere gli sforzi di imprese piccole e sane come la loro. Sono quindi gli stessi imprenditori che spingono sulla PA e sulle istituzioni. Gli imprenditori dicono di apprezzare la progressiva frantumazione dell’isolamento in cui si trovavano prodotta dal seminario, gli piace l’idea di poter crescere autonomamente, utilizzando con intelligenza e pieno merito le opportunità di finanziamento. Tramite il collegamento tra gli imprenditori e la rete di sostegno che si è quindi riusciti a mobilitare è stato avviato un processo virtuoso, che un’offerta formativa tradizionale non sarebbe stata in grado di fornire.28

La scuola-laboratorio FIELD Il risultato catanese sopra descritto è anche il risultato di numerose iniziative di emersione che hanno progressivamente coinvolto le province e le università di Messina e di Catania e che hanno condotto alla formazione di un gruppo di operatori molto valido. Per anni la cultura economica siciliana non è stata disponibile ad accedere alla tematica dell’emersione e dello sviluppo locale. Migliaia di piccole imprese «grigie» erano state identificate nel napoletano; ma i colleghi universitari siciliani, invece, sostenevano a spada tratta che da loro la situazione era diversa. In seguito, sono venute le prime ammissioni. Successivamente, il Comitato nazionale e la Commissione regionale per l’emersione hanno nominato un gruppo di tutori, e ora si è arrivati a Prima Res, che rappresenta una sorta di sorella gemella della scuola calabrese. La scuola-laboratorio di Tiriolo, in provincia di Catanzaro, che è stata la prima di queste scuole imprenditoriali, è nata nel 2003 con il nome FIELD, insieme ad altri progetti di emersione e sviluppo locale, grazie ad un già citato finanziamento CIPE per l’emersione. In seguito, essa è stata istituzionalizzata dalla Regione Calabria come parte della Fondazione FIELD che è così stata organizzata in due aree di attività:29 la scuola-laboratorio FIELD, appunto, e il PEC (Progetto emersione Calabria), che oggi comprende l’azione sul credito, di cui si è già parlato, e i progetti d’area, su cui torneremo. La scuola-laboratorio calabrese si è subito proposta come offerta formativa integrata a sostegno dello sviluppo locale; vale a dire, come leva per rimuovere gli ostacoli alla politica di emersione. È stata fondata su due principi apparentemente semplici, ma difficili da mettere in pratica: il primo riguarda i contenuti, il secondo il metodo.

Per quanto riguarda i contenuti, sono state prese le distanze dall’offerta tradizionale e si è voluto invece rispondere alle necessità specifiche del territorio, lavorando sulle esigenze, competenze e aspirazioni delle persone e facendo scaturire, di volta in volta, da questi bisogni, un prodotto formativo adeguato. Con questo approccio incentrato sull’individuo, si è cercato di far emergere le potenzialità effettive del soggetto al momento della selezione, cercando di capire quale poteva essere l’elemento formativo chiave per ciascun beneficiario. L’accompagnamento dell’impresa, quindi, non è semplice assistenza tecnica: è un lavoro che punta in maniera prioritaria sulla risorsa umana, come centro dell’investimento formativo e come cellula di partenza per il rinnovamento aziendale o per la creazione di una nuova impresa. Naturalmente, questo funziona effettivamente solo se si crea in aula un vero rapporto di fiducia: bisogna sempre fare discorsi coerenti e di qualità e l’offerta formativa deve corrispondere esattamente a quanto si era concordato. Riguardo al metodo, si è cercato di stabilire la regola della corresponsabilità all’interno della struttura che consente di far funzionare la Fondazione, vale a dire: «tutto funziona se tutti funzionano ». Ciò significa organizzare le cose in maniera tale che pezzi del sistema e del meccanismo siano affidati alla responsabilità di persone che sanno di dover svolgere quel compito specifico, ma che, nello stesso tempo, sono sempre in relazione con tutti gli altri. Tale approccio non lascia spazio alla deresponsabilizzazione, al «non mi compete». Il pieno riconoscimento dei ruoli individuali avviene solo se passa nel lavoro una «cultura del risultato», come conseguenza, al tempo stesso, dell’assunzione di responsabilità e dell’apporto concreto al disegno complessivo da parte del singolo. Nell’ambito di questo sistema, si inserisce il ruolo delle guide, che rappresentano una cerniera tra lo staff e i partecipanti al corso. Sono figure preparate e creative, che aiutano gli allievi a definire le proprie finalità nella partecipazione all’aula, a trarre profitto dagli incontri con gli esperti, a definire possibili canali di cooperazione futura tra le loro attività e le imprese. Dando vita alla scuola-laboratorio FIELD, si è voluto dimostrare che si può agire in maniera diversa dal solito, persino in una delle regioni più difficili del paese. Sviluppo locale non significa dare soldi ad un territorio che poi si organizza da sé. L’idea di fondo era, ed è, che occorre un fattore di coagulo delle vere potenzialità del territorio.

La Calabria è pervasa da negatività, elementi che impediscono lo sviluppo. È importante chiamare a raccolta e collegare tra di loro le forze positive, che pure ci sono, e che non aspettano altro che trovare un’occasione per venire allo scoperto. Ciò è stato perseguito concretamente, con i percorsi formativi e con i progetti d’area. In due anni di attività sono stati organizzati sette percorsi formativi diversi. Non ci si è mai cullati sui risultati raggiunti, riproponendo magari un corso che era andato bene. Piuttosto, si è cercato di capire come andare avanti, come superare alcuni dei limiti incontrati, quale potrebbe essere il percorso migliore per strutturare il rapporto di fiducia che si è riusciti a costruire tra il tessuto imprenditoriale intercettato e la Fondazione. Nel corso che si sta svolgendo in questi mesi, alcuni imprenditori utilizzano addirittura la banca del tempo: più tempo trascorrono in aula, più ore hanno da sfruttare per migliorare le loro aziende, tramite un affiancamento mirato che loro stessi indicano. L’obiettivo è quello di consolidare approccio e, nello stesso tempo, di adeguare progressivamente l’offerta alle necessità rilevate.

D’altra parte, tutto ciò è possibile perché all’attività di formazione si collega un lavoro capillare sul territorio: la Fondazione è laboratorio-scuola ma, tramite il PEC, è anche affiancamento nella progettazione aziendale, stimolo di concentrazioni d’ambito sul territorio, sinergie tra diversi imprenditori, coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni. Per quanto riguarda le difficoltà e i punti di forza, questo progetto è stato da sempre concepito in una prospettiva multiregionale e di rete.

Non è nato come un progetto calabrese, ma per ragioni congiunturali positive (la delibera CIPE, la disponibilità dell’amministrazione) si è realizzato in Calabria. L’idea si è concretizzata, si è creato una specie di marchio, per cui, ad certo punto, è stato anche facile far sì che questo contenitore fosse valutato positivamente in quanto tale. Ma il pericolo di non poter più lavorare secondo gli obiettivi e i metodi appena richiamati esiste realmente. È molto difficile conservare la peculiare identità del progetto che gli ha permesso di insediarsi e di sopravvivere. Il laboratorio-scuola della Fondazione FIELD non è infatti solo un’agenzia di sviluppo o una scuola. Chi ha partecipato ai percorsi formativi FIELD, chi ha collaborato e messo in pratica progetti di sviluppo in loco, sa benissimo che può contare sul laboratorio-scuola e sulla sua rete, che può fidarsi della sua offerta, sia in termini di coerenza rispetto ad una promessa che in termini di qualità. D’altra parte, è vero che se FIELD ha funzionato è perché ha potuto contare sui collegamenti con il Comitato nazionale, ha potuto proporsi come rappresentante in Italia dell’Istituto Iacocca degli Stati Uniti. Ciò ha permesso di aprire molte porte, mentre il rapporto con il Comitato ha permesso di attingere ad una fitta rete di relazioni tra istituzioni, parti sociali, università, che hanno costituito un serbatoio di expertise assai utile e al servizio dell’intero progetto.30

I progetti d’area I progetti d’area del Progetto emersione Calabria della Fondazione FIELD sostengono realtà produttive e/o istituzionali che hanno già iniziato un percorso di emersione e di sviluppo locale. Attraverso un’attività di animazione territoriale, sono stati individuati alcuni soggetti direttamente interessati al programma di lavoro proposto e, tramite un bando costruito sulle loro esigenze, questi beneficiari potenziali e molti altri sono stati invitati a manifestare le loro idee progettuali di sviluppo. Si è discusso con i candidati del merito dei progetti, aiutandoli a definire gli obiettivi, le risorse e i metodi e sono infine state selezionate venticinque proposte fra le settantacinque pervenute. In tal modo la manifestazione di interesse del bando ha rappresentato un’esca per percepire la domanda di sviluppo e i tutori hanno svolto il duplice ruolo di facilitatori del processo e di sensori itineranti per il monitoraggio successivo delle iniziative. Un punto di forza dei progetti d’area è stato il metodo minuzioso con cui sono state valutate le adesioni al bando. Inoltre, si è preferito parlare con i destinatari dei finanziamenti piuttosto che con soggetti intermedi; si è così scoperto che, in realtà, molti intermediari non erano rappresentativi del territorio e nel tentativo di aggirare l’ostacolo parlando direttamente con i destinatari finali dei finanziamenti, si è, fra le altre cose, ottenuto un abbassamento dei costi di transazione e si è così permesso a queste aziende di cominciare a produrre lavoro e reddito. Il peso maggiore della valutazione discrezionale è però collegato alla responsabilità di chi valuta. Un valutatore, infatti, se sa di essere responsabile di un progetto sa anche che, affinché vada a buon fine, è necessario accompagnarlo nel suo dispiegarsi. Con i progetti d’area è stato finanziato un gruppo di interventi, modesti in termini finanziari, ma ben caratterizzati da un punto di vista territoriale e settoriale (tessile, edilizia, sociale). Sono progetti con obiettivi puntuali, perché il bando richiedeva proposte che generassero risultati quantificabili. Ad esempio, uno degli obiettivi fissati era il rafforzamento dell’associazionismo. Ciò ha consentito di finanziare la costituzione di cooperative, consorzi e associazioni che sono stati accompagnati fino alle prime azioni di sviluppo. È stata finanziata, ad esempio, la costituzione di una cooperativa di lavoratrici del settore tessile che precedentemente avevano operato prevalentemente in maniera informale, è stata finanziata un’associazioni di edili, tra le prime a sperimentare il DURC (Documento unico di regolarità contributiva) in Calabria; è stata appoggiata la creazione di un consorzio di artigiani di diversi comparti (ceramiche, tessuti) così come è stata costituita un’associazione di produttori di torrone a Taurianova.

Si è pensato ad interventi modesti, con risultati immediatamente quantificabili, per mettere in moto un processo socio-economico graduale e ascendente, dotato di un piccolo circolo virtuoso. Per i beneficiari, la realizzazione di un loro progetto rappresenta una spinta effettiva, in termini di fiducia e di continuità, che a sua volta, se ben indirizzata, può rappresentare un punto di partenza per ulteriori progressi. Infatti, questi progetti si rafforzano integrandosi con altre linee d’intervento (come la partecipazione a ulteriori progetti formativi destinati agli imprenditori «virtuosi» o l’accesso al piccolo credito, in una prospettiva di continuità dell’accompagnamento e di ottimizzazione degli interven ti). Infine, in questa logica di integrazione tra interventi, ci si è attivati per dare alla Fondazione FIELD una disponibilità finanziaria ulteriore. Prima è stata fatta un’azione di autovalutazione, per individuare le azioni e le tipologie d’intervento che hanno dato i migliori risultati, poi ci si è preoccupati di intercettare finanziamenti per dare seguito all’esperienza, i finanziamenti sono stati trovati nel Programma operativo regionale della Calabria. In tal modo la Regione, impegnando tali risorse, ha raggiunto l’obiettivo di non disperdere i fondi, mentre la Fondazione FIELD ha raggiunto l’obiettivo di dare continuità a un’azione di sviluppo.31

La questione dei finanziamenti è molto delicata, perché richiede di rispettare dei requisiti di trasparenza della pubblica amministrazione che si presentano in maniera formalmente ineccepibile, ma che, a volte, servono a legittimare operazioni poco trasparenti. In questi casi, il principio della «responsabilità individuale», purtroppo poco diffuso nell’amministrazione quotidiana del nostro paese, potrebbe risolverebbe più problemi di quanto non faccia il principio della «trasparenza».32

Conclusioni Un punto di forza del network che fa capo al Comitato nazionale per l’emersione è la trasferibilità veloce delle esperienze, l’imparare a livello orizzontale. In Campania sono stati costruiti dieci consorzi spendendo pochi fondi e si è lavorato molto sulla domanda delle imprese. Altrove, invece, sull’onda di queste esperienze, si è cominciato a lavorare anche sull’offerta. In Campania, sebbene siano state avviate molte iniziative di valore, non è stato poi possibile condurle in porto perché non esisteva un fondo diretto per finanziare le aziende. In Abruzzo, invece, attraverso Abruzzo Lavoro e collegandosi all’esperienza dei CUORE, sono state censite direttamente più di ottomila imprese e si è costruito molto. Sono stati prodotti quattro piani di sviluppo e di consolidamento delle imprese territoriali, con il sostegno di tutte le parti sociali. Purtroppo tutto è stato bloccato dalla Regione Abruzzo.

Riassumendo, è possibile individuare i punti di forza delle azioni territoriali esaminate: il network costruito; un forte orientamento ai risultati; un metodo innovativo fondato su una robusta interregionalità; il collegamento veloce tra regioni e tra persone (i progetti di cui si parla sono tutti parte di una rete); la sussidiarietà attiva verticale; il gioco dei più cappelli (Comitato per l’emersione, Commissioni regionali e provinciali, enti locali, agenzie, fondazioni, università ecc.). Sull’altro piatto della bilancia bisogna collocare un dato di fatto: solo in Calabria è stato formalizzato un vero contenitore. Se ci fosse stata una fondazione regionale per ciascun territorio il percorso sarebbe stato più agevole. La stessa cosa vale per il Comitato nazionale: la sussidiarietà attiva verticale ha più influenza quando esiste un contenitore centrale che consente una ramificazione territoriale (come nel 2000-2001 per gli esperti e nel 2002-2003 per i tutori di emersione).

In conclusione, si può osservare in primo luogo che, invece di lamentarsi per i tanti dinieghi, sarebbe opportuno capire meglio quando (e perché) il sistema politico-amministrativo è disponibile ad assecondare le politiche di integrazione, di emersione e di sviluppo locale (ad esempio, quando il territorio riesce a farsi sentire, come in alcune campagne di stampa anni addietro); quando le iniziative colpiscono la fantasia, le aspirazioni percepite, come nel caso dei laboratoriscuola collegati allo Iacocca Institute; quando rispondono a bisogni lungamente inascoltati, come nel caso del piccolo credito. In altre parole, bisogna riuscire a dialogare con l’andamento corrente della politica, senza venirne assorbiti. Bisogna costruire via via una buona reputazione tecnica, tenendo presenti le esigenze legittime degli interlocutori.

In secondo luogo bisogna considerare che esistono tanti «effetti intermittenza» che è necessario padroneggiare. Riguardo all’esigenza specifica dell’integrazione, dello sviluppo locale e dell’emersione, alla fine del precedente governo di centrosinistra era diffuso il convincimento che bisognasse intervenire su queste materie, tanto da riuscire a produrre strumenti e risorse finanziarie a tale scopo. Poi però, finite quelle risorse, il lavoro a livello centrale è stato bloccato e solo ora si sta assistendo alla nascita di un rinnovato interesse. Anche nella cultura vi è intermittenza: in passato la letteratura socioeconomica italiana era andata incontro alle piccole imprese, ma ad un certo punto è sembrata quasi tornare indietro. Da tutto ciò scaturisce l’idea che il «progetto» di integrazione, federalizzazione, democratizzazione, sviluppo locale ed emersione che è stato evocato nel presente dibattito non è completamente maturo. Per poter emergere bisogna lavorare ancora sulle esigenze delle regioni meridionali italiane, sulla loro necessità di valorizzare e di richiamare a sé una serie complessa di energie. Non vi è dubbio, però, che una potenzialità significativa esiste. Finora non era stato possibile mettere attorno ad un tavolo alcune realtà delle regioni meridionali per farle discutere della loro politica estera: questo contributo vuole essere un primo risultato in questa direzione. È necessario intrecciare di più le esperienze effettive (locali, centrali, intermedi terranee) rilevate su campo, attorno a un’idea progettuale in costruzione, come quella che è scaturita dal presente dibattito. È un lavoro che, visto dall’alto, può sembrare eccessivamente artigianale, ma questa artigianalità è davvero indispensabile; in sua assenza, l’effetto delle frequenti burrasche politiche e culturali, e dei loro improvvisi cambiamenti di vento, sarebbe stato quello di spazzare via tutto, obbligandoci a ricominciare daccapo. Quella che abbiamo qui ricordato è un’attività che fa capo, prevalentemente, ad un gruppo spontaneo (nel senso colorniano del termine) e che ha riscoperto la soddisfazione (personale e collettiva) del lavoro per l’integrazione, l’emersione e lo sviluppo locale. Naturalmente non ha nessuna pretesa di esclusività; al contrario, vorrebbe piuttosto che le sperimentazioni e i risultati ottenuti provando e riprovando potessero essere rilanciati, cum grano salis e su matrice più ampia, da un governo finalmente amico.33

 

[1] Luca Meldolesi, Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ministero del lavoro.

[2] Silvia Godelli, assessore al Mediterraneo, Regione Puglia.

[3] La Dichiarazione di Barcellona sul partenariato euro-mediterraneo venne stilata a conclusione della conferenza ministeriale euro-mediterranea del 27 e 28 novembre 1995, a cui parteciparono i ministri degli esteri dei quindici Stati membri dell’Unione europea e quelli di dodici paesi terzi mediterranei.

[4] Archimed è uno spazio di cooperazione, approvato dalla Commissione europea, a cui partecipano le regioni italiane dell’Obiettivo 1, la Grecia e, dal maggio 2004, Malta e Cipro. Il programma comprende: strategie per lo sviluppo territoriale, di sistemi urbani, l’integrazione delle regioni insulari e rurali; trasporti, reti di telecomunicazione e società dell’informazione; gestione integrata e corretta del patrimonio culturale, naturale e paesaggistico e promozione del turismo sostenibile, gestione dei rischi.

[5] Va notato, a tale proposito, che la Libia è stata ammessa come osservatore, anche se non può partecipare come partner per via delle sanzioni ONU.

[6] Natale Giordano, COPPEM, Palermo.

[7] Il CRESM è un’associazione fondata nel 1973 da Lorenzo Barbera, dopo le esperienze di sviluppo locale ante litteram con Danilo Dolci nella Sicilia occidentale.

[8] Alessandro La Grassa, CRESM.

[9] La scuola-laboratorio FIELD, insieme al Progetto emersione Calabria (PEC) di cui si dirà in seguito, ha dato vita, nel 2004, alla Fondazione FIELD – uno strumento operativo in house della Regione Calabria, collegato al Comitato nazionale e alla Commissione regionale calabrese per l’emersione del lavoro non regolare.

[10] Rosaria Amantea, Fondazione FIELD.

[11] Cfr. «Una breve nota di impostazione metodologico-statistica», disponibile su www.emersionelavorononregolare. it.

[12] Cfr. L. Meldolesi, Sud: liberiamo lo sviluppo, Carocci, Roma 2001; L. Meldolesi, Disperazione meridionale: come curarla?, in «Economia Italiana», 1/2006.

[13] Luca Meldolesi, Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ministero del lavoro.

[14] È opportuno ricordare, a questo proposito, che in Italia le imprese con ricavi superiori a 5 milioni di euro sono solo 50 mila.

[15] Questo progetto, elaborato in collaborazione con il Comitato nazionale e la Commissione regionale per l’emersione, afferisce alla Fondazione FIELD della Regione Calabria ed è stato finanziato inizialmente tramite la già citata delibera CIPE.

[16] Danilo Ballanti, Società per gli Studi di settore (SOSE), ministero dell’economia.

[17] Il monitoraggio rileva anche le problematiche delle imprese che sono state escluse, con l’intento di studiare le condizioni che consentirebbero loro di avere una seconda chance.

[18] Onofrio Maragò, Fondazione FIELD.

[19] Questi dati vengono rilevati azienda per azienda, ma è poi necessario aggregarli. Si avranno così, ad esempio, dei gruppi di imprese tessili marginali e dei gruppi di imprese tessili meno marginali, e così via.

[20] Vincenzo De Bernardo, Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ministero del lavoro.

[21] Si tratta, come si vede di una responsabilità (e dunque di una sussidiarietà) orizzontale attiva all’interno della PA che può scaturire da processi di ricomposizione, di coordinamento e di concentrazione di competenze inizialmente separate. Essa non va confusa quindi con la sussidiarietà orizzontale a vantaggio di soggetti privati di cui tanto si parla.

[22] Vale a dire di una sussidiarietà in cui il livello superiore ha, innanzitutto, lo scopo di facilitare e di irrobustire l’azione del livello inferiore.

[23] Nicoletta Stame, Università degli Studi «La Sapienza» di Roma.

[24] Purtroppo, bisogna aggiungere, il decentramento amministrativo del Comune di Napoli è più apparente che reale, perché le municipalità non hanno ancora capacità di gestione autonoma del bilancio.

[25] Roberto Celentano, Centri CUORE, Napoli.

[26] Luca Meldolesi, Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ministero del lavoro.

[27] Vito Belladonna, Coordinatore regionale dell’emersione, assessorato al lavoro, Regione Puglia.

[28] Elena Girasella, Laboratorio Prima Res, Catania.

[29] Una terza area, relativa alla cooperazione, è stata aggiunta in seguito, e altre ancora sono previste per il futuro.

[30] Rosaria Amantea, Fondazione FIELD.

[31] La Fondazione ha potuto così progettare con fondi della Regione Calabria, e potrà attuare gli interventi dietro affidamento diretto da parte della Regione stessa. Infine, di recente si è lavorato su un progetto Calabria-Australia del POR 2000-2006. Si è pensato di innestarvi un progetto di internazionalizzazione, per fare arrivare prodotti calabresi sul mercato australiano. Il progetto Calabria-Australia prevede ora un’azione formativa di agenti di internazionalizzazione che accompagneranno materialmente le imprese calabresi.

[32] Marisa Ianniello, Fondazione FIELD, e Vincenzo De Bernardo, Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ministero del lavoro.

[33] Vincenzo De Bernardo e Luca Meldolesi, Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ministero del lavoro.