La rivoluzione digitale. Motore primario della riforma del sistema radiotelevisivo

Di Luigi Vimercati Domenica 02 Marzo 2008 21:00 Stampa
Due sono le domande alle quali deve rispondere il disegno di legge per una parziale riforma della legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo nazionale, presentato dal ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni e approvato dal consiglio dei ministri. La prima riguarda la cosiddetta anomalia italiana, ossia l’esistenza di un duopolio RAIMediaset additato come fattore distorsivo della libera concorrenza nel settore radiotelevisivo. Al punto da indurre l’Unione europea a intervenire con l’apertura di una procedura per infrazione delle norme comunitarie su parte della legge.
Due sono le domande alle quali deve rispondere il disegno di legge per una parziale riforma della legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo nazionale, presentato dal ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni e approvato dal consiglio dei ministri. La prima riguarda la cosiddetta anomalia italiana, ossia l’esistenza di un duopolio RAIMediaset additato come fattore distorsivo della libera concorrenza nel settore radiotelevisivo. Al punto da indurre l’Unione europea a intervenire con l’apertura di una procedura per infrazione delle norme comunitarie su parte della legge.

Procedura che è andata ad aggiungersi ai rilievi formulati al riguardo, in questi anni, dalla Corte costituzionale. In tale ambito si colloca pure la questione di Mediaset quale polo privato capace, da solo, di raccogliere circa i due terzi della pubblicità televisiva, quindi con una posizione significativamente dominante. La seconda domanda, alla quale il disegno di legge deve rispondere, è quella attinente alle norme per sostenere il passaggio alla tecnologia digitale terrestre.

 

La questione dell’anomalia italiana Il primo punto sul quale ragionare è, dunque, capire come la proposta di legge risponde alla questione dell’anomalia italiana, che si intreccia poi con il tema del conflitto di interessi. Anche se è opportuno tenere quest’ultimo distinto dal tema della riforma del sistema radiotelevisivo. La proposta di legge sostanzialmente indica nel superamento del SIC (il Sistema integrato delle comunicazioni, introdotto dalla legge Gasparri per definire i limiti antitrust), con l’individuazione di tetto del 45% sui ricavi della pubblicità televisiva su tutte le piattaforme trasmissive, il primo degli strumenti che dovrebbero risolvere la questione del duopolio. Il secondo strumento consiste nella possibilità di liberare frequenze per consentire ad altri operatori e fornitori di contenuti di essere presenti sul mercato. Entrambi gli strumenti hanno un comune obiettivo: garantire più concorrenza e più pluralismo.

L’esame del disegno di legge, che è stato bollato come banditesco dalla destra o, all’opposto, giudicato troppo moderato da altre parti politiche, consente di affermare che il limite antitrust del 45% potrebbe incidere notevolmente sull’attuale distribuzione delle risorse pubblicitarie nel settore televisivo. A proposito di queste ultime, secondo le più recenti stime elaborate sulla base delle rilevazioni Nielsen, nel 2005 il valore complessivo del mercato pubblicitario TV, su tutte le piattaforme trasmissive, sarebbe stato di circa 5,3 miliardi di euro. Il 58,2% (3,84 miliardi) rappresenterebbe la quota Mediaset, che salirebbe al 66,2% tenendo conto unicamente della TV analogica. È però un mercato che registra un progressivo indebolimento proprio sul fronte della vecchia TV analogica, correlato con un crescente calo di audience delle reti generaliste.

Non si possono tuttavia comprendere gli effetti concreti del limite antitrust se non li si considera sul piano temporale. Infatti, l’applicazione del tetto viene resa efficace attraverso una sanzione che sposta in avanti di un anno le ricadute, imponendo una restrizione degli affollamenti pubblicitari orari dal 18 al 16%. Il meccanismo è congegnato in modo che la norma potrebbe dispiegare la sua efficacia non prima del 2009. Se questo da un lato rappresenta un elemento di grande prudenza politica, che non si può non condividere, dall’altro occorre rimarcare che tale indicazione di fatto conferma gli attuali rapporti di forza nel mercato pubblicitario radiotelevisivo. E questo almeno per un periodo di due-tre anni. Va inoltre considerato che la definizione del tetto sulle risorse pubblicitarie, indipendentemente dalle perplessità sulla sua applicazione, non riuscirebbe nel breve termine a facilitare l’ingresso di nuovi operatori sul mercato televisivo. Ciò potrebbe avvenire solo al momento della liberazione e della successiva assegnazione delle frequenze, quindi non prima del 2009-2010. L’esito immediato potrebbe essere un rafforzamento degli operatori esistenti (RAI, SKY, La7), che avrebbero l’opportunità di intercettare risorse pubblicitarie liberate dalle limitazioni poste a Mediaset e crescere in termini di quota di mercato. E poiché gli investimenti non si spostano per legge, c’è l’auspicio che le risorse pubblicitarie sottratte a Mediaset possano essere redistribuite anche a vantaggio della carta stampata.

Lo strumento delle frequenze è legato all’articolo 3 della proposta di legge, che stabilisce – per ciascun titolare di più di due reti tv in ambito nazionale – il trasferimento alla tecnologia digitale delle reti analogiche eccedenti la seconda. L’iter previsto sposta nuovamente il passaggio a una data corrispondente all’incirca al 2009. Lo stesso articolo contempla, inoltre, le modalità per riassegnare al mercato le frequenze analogiche che risulteranno disponibili sia attraverso il passaggio di reti al digitale, sia attraverso il recupero di quelle cosiddette ridondanti, individuate grazie al database che il ministero delle comunicazioni e l’AGCOM, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, stanno predisponendo.

A questo proposito, se da un lato non si riesce a valutare adeguatamente il punto relativo alle frequenze ridondanti (quante saranno? quante potranno tornare disponibili?), dall’altro sembra corretta – per quanto concerne la riassegnazione di quelle liberate con il passaggio di reti analogiche al digitale – l’indicazione di affidare all’AGCOM il compito di mettere a punto procedure pubbliche obiettive e trasparenti.

Analogamente al primo strumento, anche il secondo tende a favorire la presenza di altri operatori sul mercato televisivo. Tuttavia, è arduo immaginare che vi siano imprese desiderose di investire nella TV analogica mentre si procede verso quella digitale terrestre: le barriere all’ingresso rimarrebbero comunque molto alte e tali da scoraggiare nuovi operatori. In sostanza, se si rimane concentrati sulla TV analogica difficilmente si potranno trovare risposte all’esigenza di assicurare più concorrenza e più pluralismo.

 

Il passaggio alla tecnologia digitale Poniamo ora l’attenzione sulla seconda domanda alla quale la proposta di legge deve dare una risposta, cioè su quella attinente alle norme per sostenere il passaggio alla tecnologia digitale terrestre. Concretamente, mentre le parole chiave per rispondere alla prima domanda sono concorrenza e pluralismo, la parola chiave per rispondere qui è innovazione. Da questo punto di vista, la proposta di legge individua due date. Una è quella del 2012, anno in cui si procederà allo switch-off, ossia allo spegnimento, di tutti gli impianti analogici; l’altra, intesa come tappa intermedia che dovrebbe favorire il completo passaggio alla nuova tecnologia, è quella del 2009, anno in cui si procederà al trasferimento alla tecnologia digitale delle reti analogiche, eccedenti la seconda, possedute dai principali operatori su scala nazionale.

Bisogna domandarsi se queste indicazioni sono sufficienti per sostenere con grande determinazione tale passaggio. E, di riflesso, per rispondere alle attese di un importante settore industriale qual è quello dell’ICT, ovvero dell’informazione e comunicazione elettronica (che contribuisce per oltre il 5% al prodotto interno lordo), e per sostenere la sua crescita (pari al 3%, quindi superiore al tasso stimato per il PIL nel suo complesso), dando certezze alle imprese che hanno investito o stanno per investire nella tecnologia digitale. Dobbiamo insomma chiederci se il disegno di legge è un mezzo efficace per contribuire a cogliere anche l’obiettivo di innovazione del sistema paese. Siamo qui di fronte a una criticità della proposta Gentiloni. Forse pesa la lettura che negli ultimi anni è stata data, da parte del centrosinistra, della questione del passaggio al digitale, vista come un trucco del centrodestra per aggirare la normativa antitrust e, come tale, da contrastare. In realtà, è importante ribadire

che l’orizzonte innovativo promosso dalla rivoluzione digitale è positivo di per sé e, quindi, va sostenuto e non avversato. Il rischio è far apparire il centrodestra come favorevole all’innovazione tecnologica e il centrosinistra come ingessato in una posizione conservatrice, chiuso di fronte al progresso tecnologico.

La rivoluzione digitale non è un’invenzione della destra, è un avvenimento che sta profondamente cambiando l’economia, la cultura, la società del mondo intero e, quindi, anche dell’Italia. La quale non può non essere parte attiva del processo, pena la sua esclusione dal novero delle grandi economie mondiali. Non possiamo che essere in prima fila in questa rivoluzione e la legge deve essere un’opportunità per andare con convinzione in tale direzione.

È, questo, un punto cruciale di riflessione. Dobbiamo evitare l’errore commesso anni fa, quando le resistenze al passaggio della televisione dal bianco e nero al colore comportarono una crisi letale del settore produttivo nazionale di apparecchi televisivi. È comunque evidente che non basta una legge per assecondare il passaggio al digitale. È necessario che al provvedimento legislativo si affianchino politiche di sostegno, accordi con le imprese, innovazione della pubblica amministrazione, e così via. A questo proposito, nella finanziaria 2007 qualche segnale di attenzione c’è, essendo previsto lo stanziamento di 40 milioni di euro all’anno per tre anni da destinare allo sviluppo del digitale e di altri fondi da utilizzare per la diffusione della banda larga.

In sostanza, a prima vista sembra insufficiente la sola indicazione temporale come stimolo per il passaggio al digitale. Anzi, di primo acchito l’anticipazione del passaggio al digitale delle reti analogiche di ciascun operatore su scala nazionale eccedenti la seconda può essere interpretata come una misura punitiva anziché incentivante. Tanto da ingenerare il rischio che non venga compreso il carattere strategico dell’operazione di anticipo. Di recente, per esempio, Bruno Vespa aveva titolato la puntata della sua trasmissione sulla proposta di legge: «RAI e Mediaset, una rete in meno».

C’è poi da chiedersi se la differenza temporale 2009-2012 abbia un senso. Perché delle due l’una. Se nel 2009 sarà possibile, stimolando investimenti del servizio pubblico e, come tale, da contrastare. In realtà, è importante ribadire che l’orizzonte innovativo promosso dalla rivoluzione digitale è positivo di per sé e, quindi, va sostenuto e non avversato. Il rischio è far apparire il centrodestra come favorevole all’innovazione tecnologica e il centrosinistra come ingessato in una posizione conservatrice, chiuso di fronte al progresso tecnologico.

La rivoluzione digitale non è un’invenzione della destra, è un avvenimento che sta profondamente cambiando l’economia, la cultura, la società del mondo intero e, quindi, anche dell’Italia. La quale non può non essere parte attiva del processo, pena la sua esclusione dal novero delle grandi economie mondiali. Non possiamo che essere in prima fila in questa rivoluzione e la legge deve essere un’opportunità per andare con convinzione in tale direzione. È, questo, un punto cruciale di riflessione. Dobbiamo evitare l’errore commesso anni fa, quando le resistenze al passaggio della televisione dal bianco e nero al colore comportarono una crisi letale del settore produttivo nazionale di apparecchi televisivi. È comunque evidente che non basta una legge per assecondare il passaggio al digitale. È necessario che al provvedimento legislativo si affianchino politiche di sostegno, accordi con le imprese, innovazione della pubblica amministrazione, e così via. A questo proposito, nella finanziaria 2007 qualche segnale di attenzione c’è, essendo previsto lo stanziamento di 40 milioni di euro all’anno per tre anni da destinare allo sviluppo del digitale e di altri fondi da utilizzare per la diffusione della banda larga.

In sostanza, a prima vista sembra insufficiente la sola indicazione temporale come stimolo per il passaggio al digitale. Anzi, di primo acchito l’anticipazione del passaggio al digitale delle reti analogiche di ciascun operatore su scala nazionale eccedenti la seconda può essere interpretata come una misura punitiva anziché incentivante. Tanto da ingenerare il rischio che non venga compreso il carattere strategico dell’operazione di anticipo. Di recente, per esempio, Bruno Vespa aveva titolato la puntata della sua trasmissione sulla proposta di legge: «RAI e Mediaset, una rete in meno».

C’è poi da chiedersi se la differenza temporale 2009-2012 abbia un senso. Perché delle due l’una. Se nel 2009 sarà possibile, stimolando investimenti del servizio pubblico dare impulso all’evoluzione tecnologica del passaggio al digitale, perché è solo dal modello più moderno del sistema della radiodiffusione che si potrà avere un contributo significativo anche in termini di pluralismo. Lo scenario, quindi, non può che essere quello di un’accelerazione che permetta, con un numero molto ampio di canali, di superare le strozzature della TV analogica. A quel punto la questione non sarà più il possesso o meno di tre reti da parte di ciascun broadcaster principale, ma ogni operatore avrà una pluralità di offerta contraddistinta da un marchio e, dunque, il mercato potrà aprirsi a nuovi protagonisti. Opportunamente la proposta di legge indica, per esempio, il limite massimo del 20% della capacità trasmissiva come elemento in grado di agevolare l’utilizzo di tale capacità, nel suo complesso, da parte di altri fornitori di contenuti e di programmi.

Riassumendo, la tecnologia non può sostituire la politica, ma può aiutare la politica a mettere in campo proposte capaci di superare gli attuali colli di bottiglia. Lo scenario futuro vedrà protagoniste le tecnologie digitali, che saranno alla base di ogni forma di trasmissione audiovideo e che saranno sostanzialmente articolate in tre grandi piattaforme: una generalista, il digitale terrestre, che andrà a sostituire la TV analogica; una quota che viaggerà su protocollo internet e di cui si scorgono già le avvisaglie nel protagonismo di alcuni operatori; e quella del digitale satellitare, che con SKY è ormai una realtà importante. In quest’ottica, pertanto, è fondamentale favorire il più possibile – per superare l’anomalia italiana e per dare una risposta chiara al sistema industriale – il passaggio alla tecnologia digitale in tutti i modi.

 

Il tema RAI Nella legge è assente, se non per dire che se ne blocca la privatizzazione, ogni riferimento alla RAI. Ma è evidente che il tema RAI non può essere espunto dalla discussione sulla riforma del sistema radiotelevisivo nazionale. È certamente opportuna la scelta di indicare un percorso autonomo – e vi sono già anticipazioni di possibili modelli, sui quali sarà utile confrontarsi in maniera più approfondita – ma non è pensabile che il tema della riforma della RAI non si intrecci con il disegno di legge Gentiloni. Se non altro per ribadire una questione fondamentale, ossia che il ruolo del servizio pubblico dovrà essere decisivo nel passaggio al digitale. Indispensabile sarà, inoltre, il lancio di un grande dibattito pubblico nazionale, capace di dar voce a intellettuali, associazioni, imprese, cittadini con l’obiettivo di costruire un vasto consenso sull’atteso disegno di legge di riforma della RAI.

C’è bisogno di una RAI in grado di investire nel digitale, di essere il motore fondamentale del percorso innovativo per evitare che, in qualche modo, il mercato produca un nuovo digital divide: da un lato le persone che hanno strumenti culturali e risorse economiche tali da permettersi di accedere ai programmi della TV a pagamento; dall’altro i meno abbienti che resteranno confinati nella vecchia televisione generalista analogica, contraddistinta da un’offerta sempre più scadente. È dunque strategico il ruolo che può e deve svolgere il servizio pubblico per consentire a tutti i cittadini di essere parte della rivoluzione digitale. La tecnologia digitale terrestre può offrire anche a coloro che non hanno grandi risorse economiche opportunità di maggiore qualità e una pluralità di offerta che, oggi, è fortemente limitata nel mercato della TV analogica.

 

Guardare alla filiera industriale, investire sui contenuti La proposta di legge va giudicata per le risposte che dà ai due quesiti prima enunciati. La formulazione del provvedimento è indubbiamente equilibrata ma, per quanto concerne la prima domanda, rischia di fotografare un po’ troppo l’esistente e, quindi, di dare una risposta parziale al tema «più concorrenza, più pluralismo ». A maggior ragione se si considera che tale tema deve essere sì giocato come pluralismo esterno, nell’ottica delle dinamiche concorrenziali dei vari broadcaster, ma va poi ritrovato anche all’interno degli assetti del servizio pubblico.

In ogni caso, il punto fondamentale rimane la risposta alla seconda domanda, ossia se il disegno di legge è in grado di dare un impulso forte all’innovazione del settore dell’ICT e, indirettamente, allo sviluppo del sistema-paese. Perché se da una parte c’è una serie di equilibri che vanno ricercati per portare a felice compimento l’iter parlamentare della legge, dall’altra va rimarcata la necessità di mettere in risalto il tema dell’innovazione per rispondere a entrambi i quesiti: garantire, come sottolineato, più concorrenza e pluralismo e, nel contempo, dare certezze al sistema industriale con un provvedimento capace di stimolare investimenti nel campo del digitale. Così come è indispensabile, nell’ambito delle politiche, ribadire che occorre investire sui contenuti. Se non si riuscirà a rafforzare l’offerta, con programmi di qualità a visione gratuita, difficilmente si potrà prospettare un successo del passaggio al digitale. Come invece è avvenuto in Gran Bretagna, dove il modello Freeview (30 canali digitali terrestri gratuiti) sviluppato dalla BBC e dagli altri operatori ha raggiunto, grazie anche a un accordo con l’industria manifatturiera per la realizzazione di decoder meno costosi, il 70% delle abitazioni incentivando così la diffusione della nuova tecnologia. Il numero di utenti della TV digitale terrestre è passato in quattro anni da 1 a 7 milioni e il 30% di quelli nuovi sceglie la piattaforma Freeview. La quale, negli ultimi 6 mesi (fonte OFCPM, l’authority britannica delle telecomunicazioni), ha registrato un tasso di crescita (14%) superiore a quello del satellite (2%) e del cavo (4%). Non si può quindi pensare che il passaggio al digitale preveda unicamente lo spostamento di reti, senza contemplare un lavoro sui contenuti che consenta di conquistare un’audience capace di rendere questa tecnologia appetibile per gli investimenti pubblicitari. Va ribadito che un ruolo particolare deve svolgerlo appunto la RAI, la quale non può rimanere ingessata all’ambito della televisione analogica, ma deve darsi una strategia aziendale che le permetta di misurarsi con tutti gli altri protagonisti della TV digitale. Il modello virtuoso del futuro è un operatore capace di competere sul più ampio numero possibile di piattaforme.

In conclusione, occorre spostare l’accento sulla parte più innovativa della proposta di legge: il passaggio al digitale.

Si deve, come forza di governo, trovare il modo per comunicare che questa è la battaglia principale, per evitare che prevalga la sensazione che la proposta di legge Gentiloni sia volta più a regolare nuovamente l’analogico che a favorire l’affermazione della tecnologia digitale. Il successo del provvedimento dipenderà dal tasso di innovazione che, al termine del dibattito parlamentare, saprà innescare per riversarlo nel sistema radiotelevisivo nazionale.