Organismi geneticamente modificati: i pregiudizi e i bisogni

Di Anna Meldolesi Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Non c’è dubbio che gli scenari aperti dall’impiego degli organismi geneticamente modificati (OGM) in campo agricolo abbiano messo il mondo politico italiano ed europeo in grave imbarazzo. Lo spartiacque, disegnato dai movimenti ecologisti e no-global e mai apertamente sfidato dalla sinistra, sembra lasciare poche vie di fuga a chi deve scegliere se schierarsi a favore o contro gli OGM. Se l’alternativa è riconoscersi in chi crede nel valore intrinseco della vita e della natura o al contrario in chi della vita e della natura ha soltanto una visione utilitaristica, allora è fatale affrontare la tematica degli OGM con diffidenza se non con ostilità dichiarata.

 

Non c’è dubbio che gli scenari aperti dall’impiego degli organismi geneticamente modificati (OGM) in campo agricolo abbiano messo il mondo politico italiano ed europeo in grave imbarazzo. Lo spartiacque, disegnato dai movimenti ecologisti e no-global e mai apertamente sfidato dalla sinistra, sembra lasciare poche vie di fuga a chi deve scegliere se schierarsi a favore o contro gli OGM. Se l’alternativa è riconoscersi in chi crede nel valore intrinseco della vita e della natura o al contrario in chi della vita e della natura ha soltanto una visione utilitaristica, allora è fatale affrontare la tematica degli OGM con diffidenza se non con ostilità dichiarata. Prima di operare una scelta di campo sulle nuove biotecnologie agricole, però, questo spartiacque andrebbe messo in discussione e probabilmente spostato. Dove collocarsi, ad esempio, se la dicotomia diventa quella tra chi è interessato a valutare i dati di fatto e chi rifiuta di farlo? È difficile negare che il movimento che si oppone agli OGM si muova sulla base di pregiudizi ideologici che tengono ben poco conto dei fatti concreti.

È difficile negarlo quando l’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, tra mille cautele, decide di prendere pubblicamente posizione a favore degli OGM documentando l’importanza strategica delle innovazioni tecnologiche in campo agricolo, soprattutto per i paesi del Terzo mondo. E quando per tutta risposta i capofila dell’opposizione agli OGM, da Greenpeace a Vandana Shiva, invece di valutare attentamente i dati forniti in un rapporto tanto ponderato e documentato, liquidano queste analisi come un «manifesto di propaganda» che «sembra scritto da un’agenzia di pubbliche relazioni» per riabilitare le biotecnologie agricole agli occhi dell’opinione pubblica, costringendo l’UNDP a replicare alle accuse con una dura lettera aperta. Questi episodi, che si sono consumati tra luglio e agosto del 2001, mettono a nudo una tendenza tutt’altro che nuova. La campagna contro l’ingegneria genetica degli ultimi tre anni ha registrato un costante disinteresse dei movimenti anti-biotech nei confronti delle evidenze scientifiche. Il dibattito pubblico sugli OGM è passato così da un allarme all’altro, dominato da parti politiche e sociali interessate più alla ricerca di riflettori che a quella di dati su cui impostare analisi obiettive. Ben poco effetto hanno avuto i risultanti delle ricerche che hanno smontato, uno dopo l’altro, gli argomenti cavalcati dai gruppi ecologisti: dalla presunta tossicità delle patate transgeniche di Arpad Pusztai, agli effetti negativi che il mais resistente ai parassiti avrebbe sugli insetti benefici come le farfalle Monarca, fino alla presunta allergenicità del mais Starlink. Così come scarso effetto hanno avuto le prese di posizione delle più autorevoli organizzazioni scientifiche mondiali. La sistematica distorsione dei dati scientifici operata dagli oppositori degli OGM e il rifiuto di un approccio scientifico all’analisi del rischio ha portato a una grave frattura tra le componenti ecologiste e no-global e il mondo della ricerca su scala internazionale. Tale frattura si è fatta ancora più dolorosa in Italia, dove la rinuncia della sinistra di governo a essere parte attiva nelle scelte politiche sulle biotecnologie agricole e la «delega» concessa ai Verdi in questo settore, hanno concretamente messo a repentaglio le sorti della ricerca pubblica sugli OGM, portando a una contrapposizione frontale tra la sinistra di governo e la comunità scientifica nazionale, peraltrolargamente schierata a sinistra. A seguito di questi avvenimenti oggi la quasi totalità delle forze politiche riconosce, almeno a parole, che la libertà di ricerca è un principio che va garantito nell’interesse del paese. Tuttavia sarebbe bene non nascondersi dietro un dito: garantire la libertà di ricerca sugli OGM non ha molto senso quando si invitano esponenti dei gruppi ambientalisti a far parte dei comitati governativi che devono elaborare rapporti tecnici sui rischi e i benefici degli OGM. L’esperienza italiana degli ultimi anni dimostra che quando ciò accade il mondo politico non si trova nelle condizioni di poter disporre di rapporti tecnici credibili per impostare le proprie scelte di policy, ma solo di dossier che portano in sé i segni di un compromesso illogico tra dati scientifici e pregiudizi antiscientifici. Per garantire davvero l’interesse dei consumatori e dell’ambiente non esiste altra strada se non quella di adottare un approccio scientifico. Questo non significa che le scelte strategiche debbano essere affidate a una tecnocrazia di «camici bianchi»; d’altra parte però, per poter svolgere efficacemente il proprio compito, la politica non può rinunciare a servirsi appieno della scienza come strumento d’indagine e valutazione, e come fonte da cui attingere dati attendibili sulla base dei quali operare le scelte opportune. Se non si inverte questa tendenza dovremo rassegnarci a impostare le policies su quella mescolanza di scienza e ideologie che gli anglosassoni chiamano junk science (scienza spazzatura), con l’effetto di non fornire un buon servizio ai consumatori, all’ambiente, né tanto meno alla democrazia.

Le responsabilità della campagna europea contro gli OGM vanno oltre l’aver messo in crisi il rapporto tra scienza e politica nel vecchio continente. Lo stesso fenomeno rischia di riproporsi in contesti geografici nei quali l’opposizione alle biotecnologie agricole può causare contraccolpi ben più pesanti. In gran parte dei paesi in via di sviluppo il dibattito sugli OGM è rimasto pericolosamente prigioniero dei temi imposti dal movimento anti-biotech europeo, quando è in realtà evidente che i fantasmi delle società benestanti non hanno grande senso in paesi che non conoscono ancora l’autosufficienza alimentare. Di fatto i governi europei, finanziando il processo di istruzione delle policies sugli OGM nel Sud del mondo, stanno condizionando pesantemente le scelte dei paesi in via di sviluppo. Il Kenya ad esempio, invece di studiare un quadro normativo sulla base delle problematiche locali, ha varato delle linee guida sulla biosicurezza finanziate dai Paesi Bassi e ispirate al modello svedese. E il timore di non soddisfare standard tanto elevati di biosicurezza, con il rischio di essere sottoposti alle critiche dell’opinione pubblica internazionale, ha indotto i funzionari kenioti a interpretare questo quadro normativo già severo in modo estremo. Il comitato keniota per la biosicurezza ha lasciato passare ben due anni prima di concedere la sua prima autorizzazione per la coltivazione sperimentale di una varietà transgenica di patate dolci. I test in campo aperto sono partiti finalmente nell’estate del 2000 e dureranno ancora due anni, dopo di che sarà necessario ottenere una nuova autorizzazione per la coltivazione su scala commerciale, con il pericolo di privare il paese di una preziosa opportunità per chissà quanto tempo ancora. La varietà delle patate dolci resistenti ai virus è stata sviluppata da una ricercatrice keniota per risolvere un problema dell’agricoltura nazionale e presenta un livello di rischio trascurabile. L’utilizzo delle patate dolci promette invece un aumento delle rese del 60% e la proprietà intellettuale è completamente nelle mani del Kenya. Viene spontaneo domandarsi cosa abbia da guadagnare un paese dell’Africa subsahariana, dove la produttività agricola è bassissima, da regolamentazioni pensate per consumatori apprensivi e per un’agricoltura che vive di sussidi come quella europea. E dal momento che queste linee guida prendono in considerazione anche i rischi ipotetici oltre a quelli documentati, c’è da chiedersi che senso abbia spendere tante risorse per tutelarsi da problemi di biosicurezza che non hanno trovato riscontri scientifici, mentre in Africa l’acqua potabile scarseggia ancora e le insidie del cibo sono legate semmai alle precarie condizioni di immagazzinamento, trasporto, preparazione. Altrove le regolamentazioni varate per i prodotti geneticamente modificati sono meno pregiudiziali, ma la campagna promossa dalle organizzazioni ecologiste internazionali fa comunque sentire i suoi effetti. In Brasile, per esempio, Greenpeace sta bloccando da oltre due anni con una serie di azioni legali le autorizzazioni concesse dal governo federale alla soia transgenica dopo il via libera della commissione brasiliana per la biosicurezza. È davvero paradossale che un’organizzazione ecologista d’impostazione europea possa decidere nei fatti la politica di un paese sudamericano, quando il suo governo ha scommesso pesantemente sulla ricerca agrobiotecnologica e i farmers locali sono a tal punto favorevoli alle colture geneticamente modificate da ricorrere all’importazione illegale di sementi transgeniche. Secondo le dichiarazioni del presidente dell’Associazione federale dei produttori di sementi, infatti, ben due terzi della soia piantata nello Stato brasiliano di Rio Grande do Sul nel 2001 sono soia transgenica arrivata di contrabbando dall’Argentina. Anche in quest’ottica dunque il movimento ecologista e no-global si trova esposto a una evidente contraddizione: che senso ha battersi per proteggere l’autonomia dei paesi in via di sviluppo dal colonialismo tecnologico occidentale, se poi si opera concretamente per ridurre la loro libertà di scelta e per imporre loro i fantasmi dell’Europa benestante?

La via europea agli OGM difficilmente potrà rivelarsi all’altezza di tutelare gli interessi locali in realtà politiche, economiche, sociali tanto diverse dalla nostra. Questa ricetta per di più non sembra nemmeno in grado di porre un argine alla situazione di oligopolio che si è venuta a creare nel settore agrobiotecnologico. Più è bizantino il processo che porta all’autorizzazione di un prodotto, maggiore è la probabilità che poche grandi compagnie tengano in pugno il settore perché sono le uniche in grado di sopportare i costi della sovraregolamentazione. Per evitare che sulle biotecnologie agricole e sui paesi del Sud del mondo venga posta un’ipoteca troppo gravosa da parte dell’industria privata andrebbero intraprese strade diverse, a cominciare da un potenziamento della ricerca pubblica. Mentre nel 1995 la ricerca privata in campo agricolo superava i 10 miliardi di dollari, i paesi dell’OECD hanno reinvestito nella ricerca del settore solo il 2,68% del prodotto interno lordo del comparto agricolo e i paesi in via di sviluppo si sono fermati allo 0,62%, mentre il budget dei grandi centri internazionali di ricerca agricola riuniti sotto l’ombrello del CGIAR stenta a decollare. E invece la ricerca pubblica in questo momento è chiamata a svolgere un ruolo cruciale: può competere con l’industria riducendo il rischio di un oligopolio ed è in grado di colmare le lacune lasciate dalla ricerca privata sviluppando prodotti destinati al Sud del mondo che non suscitino l’interesse delle grandi compagnie. A essere realistici è assai improbabile che gli standard e gli accordi sui diritti di proprietà intellettuale del WTO possano essere modificati in modo sostanziale; la sinistra europea farebbe dunque bene a promuovere iniziative internazionali che aiutino i paesi in via di sviluppo a utilizzare i TRIPs (Trade related intellectual property rights: i diritti di proprietà intellettuale legati al commercio) e le regole del libero mercato a proprio vantaggio. Secondo alcuni dei massimi esperti internazionali di brevetti, come John Barton della Stanford University, esiste la possibilità concreta di negoziare un codice anti-trust sulle biotecnologie agricole in sede di WTO e di ottenere una restrizione nell’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale nella misura necessaria per consentire l’ingresso sul mercato di nuovi soggetti. I paesi in via di sviluppo potrebbero utilizzare l’arma dei TRIPs anche per spingere l’industria a finanziare i filoni di ricerca di cui hanno bisogno: negli Stati Uniti esiste una legislazione tesa a incoraggiare la ricerca sulle cosiddette malattie orfane, perché non sollecitare un’iniziativa analoga per la creazione di varietà agricole utili per il Sud del mondo?

Gli OGM non sono la bacchetta magica che regalerà l’autosufficienza alimentare ai paesi in via di sviluppo; troppi fattori (politici, economici, sociali) rendono il problema di difficile soluzione. Ma l’innovazione tecnologica in campo agricolo può offrire un contributo decisivo in questo senso: se negli ultimi trenta anni la denutrizione nell’Asia meridionale è passata dal 40 al 23% lo dobbiamo agli avanzamenti tecnologici della Rivoluzione verde che, in un periodo di tempo brevissimo, ha raddoppiato la produzione mondiale di cereali. Oggi le varietà transgeniche resistenti a parassiti e malattie, le colture ad alta resa, quelle capaci di sopravvivere irrigate con acqua salata, promettono un ulteriore passo avanti, tanto che secondo l’UNDP gli OGM rappresentano «lo strumento migliore, se non l’unico, per lo sviluppo delle aree marginali del pianeta». Le previsioni economiche ricavate da complessi modelli matematici come quello elaborato dall’International Food Policy Research Institute consentono di affermare che un ritardo di soli dieci anni nell’introduzione degli OGM può avere effetti preoccupanti già nel 2020 allargando il divario tra le elevate performance dell’agricoltura occidentale e quelle dell’agricoltura low-tech del Sud del mondo. Rinunciando alle biotecnologie agricole i generi alimentari potrebbero essere più costosi del 10-15%. In mancanza di un apprezzabile incremento della produttività che possa tenere il passo con la crescita demografica, la superficie destinata alle attività agricole è destinata ad aumentare riducendo l’estensione degli ecosistemi naturali, e questo accadrà soprattutto nel Sud del mondo dove le rese sono più basse. Infine, il saldo della bilancia commerciale mondiale si sposterà ancor più a svantaggio dei paesi poveri che dipenderanno in misura maggiore dalle esportazioni alimentari del mondo sviluppato. È quindi paradossale che i movimenti ecologisti e no-global propongano ricette che allontanano il Sud del mondo dall’obiettivo dell’autosufficienza alimentare e possono danneggiare anziché proteggere l’ambiente. Ed è paradossale che dopo un secolo di lotte per migliorare le condizioni di lavoro in Occidente, la sinistra europea non dia il giusto peso al fatto che l’innovazione tecnologica può influire in modo determinante sulla salute e la qualità della vita degli agricoltori dei paesi in via di sviluppo. In Cina per esempio, in mancanza delle precauzioni adottate dall’agricoltura occidentale, l’avvelenamento da pesticidi uccide ogni anno tra i quattrocento e i cinquecento coltivatori di cotone facendone ammalare gravemente migliaia. Secondo un recente studio del ministero cinese dell’Agricoltura la diffusione su larga scala del cotone transgenico resistente ai parassiti ha consentito di ridurre l’applicazione di queste sostanze da cinquanta a diciotto chilogrammi per ettaro e di salvare centinaia di vite. Non solo. L’Europa guarda con diffidenza le colture resistenti agli erbicidi e sembra essersi dimenticata di quanta fatica costasse ai nostri agricoltori risolvere il problema delle infestanti senza l’aiuto dei prodotti chimici. Ma quelli che per noi sono solo vecchi ricordi, in buona parte del pianeta sono problemi del presente e in Africa il 50% della forza lavoro femminile è ancora impegnato nella rimozione manuale delle infestanti dai campi. Perché la sinistra europea, dopo aver goduto sul piano sociale i frutti dell’innovazione tecnologica in campo agricolo, sembra insensibile alle esigenze di innovazione degli agricoltori del Sud del mondo? E perché non riconosce che l’Occidente ha ancora molto da guadagnare dalle innovazioni tecnologiche in agricoltura?

Anche in Italia esistono prodotti tipici messi a rischio da parassiti e malattie, anche da noi le biotecnologie possono ridurre la superficie destinata all’agricoltura e l’utilizzo di pesticidi, anche qui le pratiche agricole possono diventare più leggere ed efficienti. Le innovazioni tecnologiche non esauriscono il proprio significato nei contesti di emergenza e credere che l’Italia e l’Europa possano chiamarsi fuori dal gioco significa commettere un grossolano errore: quello di pensare il mondo al di fuori di una prospettiva storica e di fermare le lancette dell’orologio in un momento arbitrario del presente.