Ritratto di una destra non liberale

Di Piero Ignazi Venerdì 01 Febbraio 2002 02:00 Stampa

Cosa c’è di diverso nella destra italiana dopo il 1994? Cosa c’è di originale, di peculiare, rispetto agli altri paesi europei? Sono questi i due interrogativi di fondo da cui prenderele mosse per un viaggio intorno al fenomeno della «nuova» destra italiana, oggi al governo del paese. Il punto di partenza non può che essere il 1994. Per tre ragioni: perché entra in scena il partito maggiore della destra, Forza Italia; perché la Lega si dimostra non un effimero movimento di protesta bensì un partito rappresentativo di interessi e atteggiamenti radicati; perché il MSI esce dal ghetto e avvia un processo di trasformazione.

 

Cosa c’è di diverso nella destra italiana dopo il 1994? Cosa c’è di originale, di peculiare, rispetto agli altri paesi europei? Sono questi i due interrogativi di fondo da cui prendere le mosse per un viaggio intorno al fenomeno della «nuova» destra italiana, oggi al governo del paese. Il punto di partenza non può che essere
il 1994. Per tre ragioni: perché entra in scena il partito maggiore della destra, Forza Italia; perché la Lega si dimostra non un effimero movimento di protesta bensì un partito rappresentativo di interessi e atteggiamenti radicati; perché il MSI esce dal ghetto e avvia un processo di trasformazione.

Lo sconvolgimento del sistema partitico italiano investe più il versante di destra che quello di sinistra. Anche lo sfaldamento del PSI, analizzato a posteriori, riguarda più la destra che la sinistra. La quota di quadri e dirigenti locali, nonché di elettori, che passa a destra è molto superiore a quella che sceglie la sinistra. Solo l’erede ufficiale del socialismo italiano (prima il partito di Del Turco poi quello di Boselli), nonostante la diaspora di buona parte della sua antica classe dirigente, ha mantenuto ferma la sua collocazione a sinistra. Ma, al di là di questo caso, il polo di sinistra non conosce rivoluzioni. È a destra che si registra un vero terremoto. Tre partiti di dimensioni non troppo diverse, più una piccola diaspora post-DC, danno vita, per la prima volta nella storia repubblicana, ad una destra «legittima», a un fronte che, nonostante pruderie e contorsioni semantiche di cui il termine centrodestra esprime la sintesi più efficace, assume su di sé il carico di rappresentare una alternativa alla sinistra e solo alla sinistra. Il sistema elettorale maggioritario e la strategia consapevole di alcuni attori politici, Forza Italia in primis, facilitano il processo di bipolarizzazione tagliando definitivamente le gambe ai popolari e ai pattisti di Segni: non c’è più spazio per una collocazione centrista. Di questa trasformazione epocale della politica italiana post-1945 i tre partiti maggiori della destra sono tanto i protagonisti quanto i beneficiari.

La prima novità risiede quindi nella nascita di uno spazio politico di destra assolutamente legittimato. Destra non è più tabù; non è più sinonimo di antidemocrazia. Lo stigma che l’era dei fascismi e la guerra aveva lasciato su questo termine, come ricordava Norberto Bobbio anni or sono, anche in Italia, infine e finalmente cade, seppure con una certa riluttanza da parte degli stessi protagonisti della destra. Se questa è una novità, e per di più grande, non possono essere che nuovi anche gli attori politici che presidiano questo spazio politico. Della novità di Forza Italia inutile dire in quanto la sua stessa esistenza incarna l’innovazione. La Lega è un partito «seminuovo» appena entrato nel sistema partitico, e il MSI è da un lato una «scoperta» in quanto la sua ghettizzazione (e autoghettizzazione) aveva impedito di «vederlo» per come era in realtà, al di là degli stereotipi, e dall’altro un partito alla ricerca – embrionale, faticosa, incerta – di una nuova identità depurata dalle eredità del passato.

Ma, più ancora della novità degli attori politici, sono le caratteristiche di tali attori ad avere poco o nulla in comune con il passato. Più precisamente, lo stile politico e i valori di riferimento segnano uno scarto netto con la storia politica precedente. Lo stile politico della destra italiana non ha niente in comune con il «moderatismo» di tradizione liberale prima, democristiana poi. È la categoria stessa di moderatismo che le è estranea. E la ragione è semplice: questa destra esce da una «rivoluzione», dal crollo di un sistema, dalla protesta verso il «vecchio regime partitocratico e consociativo» contro il quale essa si è battuta, da sempre (MSI), o agli albori della crisi (Lega), o al momento del suo crollo (Forza Italia). Ragione per cui, quando viene fondato il nuovo sistema partitico, Forza Italia, Lega e MSI/AN non potevano riprendere i temi del giusto mezzo, del compassionate conservatism (oggi di moda oltre Atlantico), della ricerca del consenso tra le parti. In realtà, con il vecchio sistema partitico crollavano anche una serie di prassi – terribilmente incancrenite – che regolavano i rapporti tra gli attori politici e che, tra l’altro, avevano consentito al sistema politico di «reggere» nei momenti più acuti di crisi. L’irruzione nella scena politica e il contemporaneo accesso alla stanza dei bottoni da parte dei nuovi partiti della destra comportava di necessità il disconoscimento delle prassi precedenti. Il rigetto dello stile politico consensuale e la sua sostituzione con uno stile «avversariale» di netta contrapposizione sono la logica conseguenza della rivoluzione del 1994.

Ma non sono solo le contingenze strutturali (principalmente il sistema elettorale) a favorire la dinamica maggioritaria: incide soprattutto la cultura politica della «nuova» destra italiana. Come si è detto essa è estranea alla tradizione del moderatismo italiano (en passant, siamo costretti ad usare il termine di moderatismo perché di una tradizione «conservatrice», consapevole e fiera di se stessa, nella storia italiana non c’é traccia). Piuttosto, essa si ricollega – soprattutto in Forza Italia – al neo-conservatorismo anglosassone degli anni Ottanta. E cioè ad una versione aggressiva, mobilitante, «avversariale», appunto, del tradizionale conservatorismo; una versione che ha buttato alle ortiche il consenso keynesiano postbellico e la comprensione per i problemi sociali affidandosi interamente alle virtù salvifiche del mercato, dell’imprenditorialità e della realizzazione individuale, tutti inquadrati e temperati dal riferimento alla famiglia, alla comunità nazionale e ai valori morali tradizionali. L’onda neo-conservatrice non era mai arrivata in Italia; ne venne tentata una versione irpina, con la prima segreteria De Mita, che venne subito travolta dalla débacle dello scudo crociato nel 1983. Neppure il partito liberale dell’epoca seppe farsene interprete. Era inevitabile che prima o poi la pulsione neo-conservatrice trovasse un suo interprete: dapprima in forme sotterranee e confuse qualcosa è emerso nel periodo «milanese» della Lega (1992/1993), che ha nella trionfale elezione del carneade Formentini a palazzo Marino la sua apoteosi, poi con una più compiuta versione nel programma elettorale di Forza Italia nel 1994. In sostanza la «nuova» destra entra in scena con tratti genetici incompatibili rispetto a quelli dei moderati centristi d’antan: la Lega con il suo mix di liberismo alla padana e comunitarismo valligiano, condito a fasi alterne con dosi massicce di xenofobia, Forza Italia con il suo abbozzato neo-liberismo contraddetto dall’appello antipolitico e populista del suo fondatore, MSI/AN con il suo quarantennale pedigree di fedeltà ai valori «eterni e irrinunciabili del fascismo», come dichiarava appena  quattro anni prima il leader del partito Gianfranco Fini. Una destra quindi assolutamente originale, del tutto irriconducibile a quella esistente nelle altre democrazie occidentali.

Di questa difficoltà di rapporti fa fede la tormentata e non conclusa vicenda dei rapporti tra le rappresentanze di tali partiti e gli altri gruppi al Parlamento europeo. La Lega, dopo aver trovato ospitalità nel gruppo liberale nella sua fase «milanese» ne è poi uscita anche per evitare l’espulsione; il MSI, dopo aver abbandonato già in tempi non sospetti gli altri partiti dell’estrema destra è rimasto in un limbo di isolamento. Solo  Forza Italia, forte del suo successo alle elezioni europee del 1999, e quindi di un pacchetto di voti appetibile, oltre che di una impegnativa e dispendiosa campagna promozionale, ha trovato accoglienza presso un PPE ormai egemonizzato dalla componente moderata, vittoriosa su quella democratico-cristiana. Ma nonostante i sorrisi di circostanza e le dichiarazioni ufficiali, Forza Italia rimane un osservato speciale. In conclusione, in rapporto ai partiti dello schieramento moderato-conservatore europeo, quelli italiani hanno una origine, uno stile politico e una cultura politica del tutto originali, se non radicalmente difformi. E gli osservatori internazionali delle cose italiane non mancano di sottolinearlo ad ogni occasione. Da noi, invece, passano senza intoppi le auto-immagini dei partiti di destra, per cui AN è certamente già un partito post-fascista, Forza Italia è certamente un partito «liberal-moderato-centrista» (e magari, anche neo-democristiano), la Lega è certamente un partito affidabile preda solo di qualche lapsus e di qualche grossolanità. La mitridatizzazione degli intelletti è oramai cosa fatta, complice una devastante anoressia politica della sinistra. In realtà, basta rompere il pack informativo dell’impero mediatico berlusconiano e dintorni per intravedere quanto la destra italiana sia clamorosamente eccentrica rispetto a quella europea. Prendiamo Alleanza nazionale. Ebbene, si continua a discettare di questa formazione politica come di un tranquillo partito conservatore, ormai del tutto lontano e alieno dalle sue radici fasciste. In realtà, così non è, per il semplice fatto che la volontà e le buone intenzioni (e azioni) della leadership non ne hanno ancora mutato l’anima. Si assiste, piuttosto, ad un progressivo distacco tra parte del gruppo dirigente, con in testa il duo Fini-Urso, che marcia spedito verso lidi post-fascisti e buona parte del «corpo» del partito, più qualche dirigente, che continua a coltivare nostalgie. Bastano pochi fatti a dimostrare questo assunto. A Trieste è stato riammesso nella galleria dei sindaci del comune l’ex podestà della Repubblica sociale italiana nonostante fosse stato esecutore zelante degli ordini del Reich nazista e complice della deportazione degli ebrei nella Risiera di San Sabba. Nel siracusano è stata decisa la posa di una statua in onore di un gerarca fascista locale. In alcune città la giunta di destra ha proposto di intitolare una strada a Benito Mussolini. E gli esempi potrebbero continuare. Tutte notizie passate sottotraccia, disdegnate dai grandi media e dai maggiori commentatori. Ci si immagina cosa sarebbe successo se qualcuno avesse proposto in Germania di intitolare una strada ad Hitler, o in Francia a Pétain, o in Belgio a Dégrelle, o in Norvegia a Qvisling, e così via? In Italia, nessuno scandalo. Ancor più di episodi inquietanti come questi, sono le opinioni dei quadri di AN a preoccupare. In un eccellente lavoro pubblicato alcuni mesi or sono a cura di Roberto Chiarini e Marco Maraffi, La destra allo specchio,1 si esaminano, tra l’altro, gli atteggiamenti politici dei partecipanti al convegno teorico di AN tenutosi a Verona nella primavera del 1998. Ebbene, alla domanda cruciale sulla valutazione del fascismo quasi due terzi degli intervistati gli assegnano un valore positivo («tutto sommato è stato un buon regime») mentre appena il 18% lo definisce un «regime autoritario» e solo un eccentrico concorda nel bollarlo come «una brutale dittatura». Anche se prendiamo in considerazione solo coloro che si sono iscritti direttamente ad AN, senza precedenti esperienze nel vecchio Movimento sociale, i nostalgici rimangono largamente maggioritari, attestati al 58%. Un quadro, questo, ben diverso da quello «rassicurante» rappresentato dall’eleganza sobria e dall’eloquio rotondo di Fini nelle sue apparizioni pubbliche. Solo se ci si limita alle impressioni e si tralasciano dati e fatti la maturazione democratica di Alleanza nazionale è pienamente acquisita. Eppure, anche a sinistra, prevale un giudizio «comprensivo».

Sulla Lega – data la scarsa collaborazione del partito – non sono disponibili informazioni analoghe sugli atteggiamenti dei militanti e dei dirigenti locali. I dati di sondaggio disponibili riguardano solo l’elettorato. In base a tali dati, il partito di Bossi, fino a tempi recenti, non veniva percepito come un partito di destra. Tutte le inchieste lo mostravano collocato vicino al centro, spesso sovrapposto al CCD. A questa immagine «centrista» nello spazio politico non corrispondeva però una moderazione nei giudizi e negli atteggiamenti politici. Anzi, la Lega si rivelava il partito più «estremista» di tutta la destra su ogni tema, dalla xenofobia alla sfiducia nel funzionamento della democrazia, dall’autoritarismo sociale all’antiparlamentarismo. La Lega si presentava quindi come un ircocervo, uno strano animale politico con una auto-rappresentazione centrista in termini di collocazione spaziale e un insieme di atteggiamenti di ispirazione xenofoba, autoritaria e antistituzionale. Oggi il quadro è più chiaro: le ultime ricerche hanno confermato la persistenza e persino l’accentuarsi di questi atteggiamenti estremisti, facendo slittare nel contempo il Carroccio sempre più a destra. Il partito appare ormai del tutto omogeneo alla famiglia politica dei partiti «populisti» di estrema destra, europei e non. Non per nulla, la maggior parte delle analisi comparate sul l’estrema destra includono anche la Lega tra i partiti presi in esame. In questo caso, contrariamente ad AN, non possiamo nemmeno invocare una divergenza tra base e vertice. Anzi, la leadership leghista fomenta apertamente il manifestarsi di queste pulsioni xenofobe, securitarie e illiberali. Le espressioni proto-razziste di vari esponenti del partito non sono state sconfessate all’interno né stigmatizzate all’esterno. C’è una specie di acquiescenza, di adattamento, fino all’accettazione. Difficile, comunque, immaginare un paese europeo in cui non si sarebbe immediatamente ostracizzato dalla comunità politica un partito (e un leader) che avesse sostenuto che la libertà di culto non è un diritto fondamentale e che avesse consentito ai suoi militanti una scorreria di maiali su un terreno destinato ad una moschea per impedirne la costruzione. Parole e atti così stridenti con la cultura politica liberal-democratica verrebbero sempre ricordati ogni qualvolta i responsabili di tali parole e atti volessero intervenire nel dibattito politico. E la lista potrebbe continuare, dagli insulti volgari ad un paese membro della UE – il Belgio – gratificato come «paese di pedofili», alla definizione di Forcolandia per l’Unione europea. Tutto ciò viene rubricato, con la complicità di gran parte dei media, sotto la categoria dell’esuberanza e del «colore» politico, con un mix di condiscendenza e cinismo.

Su Forza Italia, infine, le definizioni si sprecano, dal partito di plastica al partito-azienda. In estrema sintesi, si può etichettare come un partito «patrimonial-leninista»: un partito nato come «proprietà» del fondatore, visto lo stato di dipendenza economica diretta o indiretta che aveva la maggior parte dei dirigenti, e statutariamente guidato dal fondatore, in cui i meccanismi decisionali sono top-down fino al livello regionale. Politicamente, comunque, è stato definito tanto liberale quanto neo-democristiano. In realtà, né ad una analisi dei programmi (eccezion fatta per quello liberista – presto accantonato – del 1994) né a una del suo elettorato queste due immagini reggono. Appena un quinto dei suoi elettori, intervistati nel 2000 per conto dell’ISPO e analizzati da Roberto Biorcio, concorda con l’equazione FI=nuova DC. Inoltre, la collocazione degli elettori forzisti sullo spazio politico è nettamente squilibrata verso destra: meno di un quarto si attesta al «centro» mentre gli altri si situano tutti al centrodestra e a destra. Addirittura, all’inizio del 2000, gli elettori di FI erano quasi sulla stessa posizione di quelli di AN: rispettivamente 7,4 e 7,9 in una scala sinistra-destra da 0 a 10. Invece di spostarsi verso il centro, l’elettorato azzurro contende ad AN la storica palma della posizione più a destra dello schieramento politico: infatti, solo il 25% ritiene che FI dovrebbe spostarsi più al centro.

Questo quadro, a prima vista sorprendente, è invece rinforzato da una serie di valutazioni su alcuni temi. In particolare, l’atteggiamento di fiducia nelle istituzioni nazionali ed europee è su valori estremamente bassi: appena il 20% per quanto riguarda il parlamento italiano e il 33% per l’Unione europea. Questi dati fanno pensare a uno stato di «alienazione», di distacco dal sistema politico; in effetti, gli elettori di Forza Italia, soprattutto quelli più strettamente identificati con il partito, esprimono una preferenza assai significativa delle istituzioni e delle organizzazioni a cui accordare fiducia (magistratura, Presidenza della Repubblica, partiti, sindacati, carabinieri, Chiesa, RAI, Mediaset, stampa, Parlamento e altri). Questo sotto-gruppo di elettori azzurri fortemente identificati con il partito colloca al primo posto tra tutte le istituzioni le «reti Mediaset», con il 76,8% di giudizi positivi. Se si pensa che nell’elettorato nel suo complesso le reti Mediaset, come la RAI e la stampa, si collocano ai piani bassi della scala della fiducia dei cittadini italiani, si capisce quanto sia forte l’attaccamento degli elettori azzurri alle televisioni del «Cavaliere». Se si tiene conto che l’elettorato di Forza Italia mostra la più bassa quota di laureati (2,8%) e la più alta di persone senza titolo di studio o con titolo elementare (47,6%) si può supporre che esso abbia tratti sociodemografici e ideologici ben diversi da quelli moderato-centristi di antica matrice democristiana. L’elettore forzista, quindi, si caratterizza come tendenzialmente antipolitico e alienato rispetto al sistema, sbilanciato verso destra, fortemente identificato con il suo leader e incapsulato all’interno di un sistema di comunicazione consonante con le sue opinioni. Un elettorato assai più sensibile a messaggi emotivi e semplificati rispetto a quelli pragmatici e razionali. A dispetto «della cultura del fare», il leader di Forza Italia si sintonizza con la sensibilità del suo elettorato al quale offre visioni semplificate e manichee della realtà politica.

Con la destra al governo vi sono segni di evoluzione? Per ora, no. Anzi. Fin da subito la destra è partita all’attacco. Prima, con la leggenda metropolitana del «buco» di bilancio, sesquipedale falsità come Visco ed Amato hanno più volte dimostrato, ma ripetuta ad ogni occasione da tutta la destra come un incessante ritornello. E, come diceva Lenin, una bugia ripetuta cento volte diventa una verità. Poi, con la criminalizzazione dell’opposizione per i fatti di Genova: con una mirabolante inversione di ruoli la responsabilità dell’ordine pubblico non spettava al governo ma ai manifestanti e, se errori c’erano stati, la colpa ricadeva sulle scelte e gli uomini del governo precedente. Da queste prime mosse doveva essere chiaro che il disegno della destra al governo puntava a spazzare via il ricordo del buongoverno dell’Ulivo e del centrosinistra e a delegittimare ogni forma di opposizione. La controprova di questa strategia si è affermata nel corso del dibattito sulla crisi afgana. Mentre nessuno ricordava che Bossi è l’unico leader europeo ad aver sostenuto Milosevic contro la NATO durante la crisi del Kossovo e che in quell’occasione il Polo «non» votò la mozione del governo ma una propria mozione, la dissidenza di 35 deputati della sinistra (compresa Rifondazione) veniva tacciata come tradimento della patria. E, dulcis in fundo, il congresso dei DS doveva ancora attestare l’affidabilità social-democratica del partito (e, ovviamente, come sentenziava in televisione un democratico di lungo corso come Ignazio La Russa, il percorso non era ancora concluso perché «permanevano delle ambiguità e delle omissioni»).

In sostanza, lo stile gladiatorio della destra rimane immutato anche dopo aver varcato la soglia di Palazzo Chigi. In sé potrebbe essere solo una questione di «stile»: non lo è se lo si coniuga con la fragile, se non inesistente, cultura politica liberal-democratica della destra e la sua concentrazione di potere. Il controllo dei mezzi di informazione da parte del capo del governo è già oggi tale da far saltare una delle condizioni classiche poste dai teorici contemporanei della democrazia come Robert Dahl: la pluralità delle fonti di informazione. Il conflitto di interessi, di cui il controllo sull’informazione è solo una parte, rimane un tema per addetti ai lavori, del tutto alieno alle preoccupazioni dell’opinione pubblica. Eppure, pesa come un macigno sul nostro sistema politico. Una destra digiuna di cultura liberale può tranquillamente alzare le spalle e sbuffare infastidita ai richiami che gli vengono su questo problema. Se la destra italiana è così «eccentrica» rispetto a quella europea, a causa delle sue pulsioni populiste, xenofobe e persino nostalgiche, la sinistra deve recuperare in intransigenza per allinearsi con il rigore sui principi della sinistra europea.

 

 

Bibliografia

1 R. Chiarini, M. Maraffi (a cura di), La destra allo specchio: la cultura politica di Alleanza nazionale, Marsilio,Venezia 2001.