Fede, religione, laicità

Di Laura Ronchi De Michelis Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

Dialogare sembra diventato assai difficile ai nostri giorni; e tanto più difficile appare quando si sceglie di partire da una appartenenza forte – quella religiosa – posta in diretta relazione con altre non religiose. Devo dichiarare subito che è un modo di porre il problema che non mi piace ma soprattutto ritengo poco utile. Non è solo che io, personalmente, non mi ci riconosco: conterebbe assai poco; è che mi appare frutto di una confusione di piani diversi (tra l’altro molto legata alla situazione italiana e alla pretesa di una confessione di essere superiore alle altre) che ritengo possa ostacolare più che facilitare il dialogo. Proverò a spiegarmi meglio attraverso alcune riflessioni sul tema suscitate da un brano suggerito dall’episcopato italiano sui temi della riconciliazione.

 

Dialogare sembra diventato assai difficile ai nostri giorni; e tanto più difficile appare quando si sceglie di partire da una appartenenza forte – quella religiosa – posta in diretta relazione con altre non religiose. Devo dichiarare subito che è un modo di porre il problema che non mi piace ma soprattutto ritengo poco utile. Non è solo che io, personalmente, non mi ci riconosco: conterebbe assai poco; è che mi appare frutto di una confusione di piani diversi (tra l’altro molto legata alla situazione italiana e alla pretesa di una confessione di essere superiore alle altre) che ritengo possa ostacolare più che facilitare il dialogo. Proverò a spiegarmi meglio attraverso alcune riflessioni sul tema suscitate da un brano suggerito dall’episcopato italiano sui temi della riconciliazione. Il testo recita: «L’insegnamento sociale della Chiesa ha sempre insistito sulla collaborazione con gli uomini di buona volontà»; il riferimento è al versetto di Luca (2:14, annuncio della nascita di Gesù) nella versione latina di S. Gerolamo, ma a me viene subito in mente la traduzione di Giovanni Luzzi, che rende il testo greco (tradotto letteralmente) «benevolenza tra gli uomini» con «gli uomini che Egli gradisce». Non si tratta di una pedanteria ma di un salto di significato notevole; nel primo caso la volontà buona è degli uomini, negli altri due è di Dio. Se la possibile fraternità degli uomini di diversa origine e provenienza si basa sulla benevolenza, sull’iniziativa di Dio, non sulla loro volubile iniziativa personale e collettiva, si tratta di un piano su cui noi non possiamo intervenire. Il nostro impegno va spostato allora su un piano a noi accessibile, che è quello politico, del nostro impegno quotidiano, limitato e manchevole.

La seconda riflessione riguarda l’auspicio a che «il Vangelo divenga cultura e questo seme divino possa dare i suoi frutti più belli nella storia». A parte la tentazione egemonica che si può trarre da quest’espressione, a mio avviso l’Evangelo, nel senso di «buona novella», l’annuncio della redenzione in Gesù Cristo, si oppone e non si integra con la cultura; è tutt’altra cosa. E senza scomodare la nozione moderna di cultura (sistema modellizzante secondario che non tollera parametri ideologici) si potrebbe solo ricordare l’antica diatriba tra Erasmo e Lutero e il fatto che molti (tra cui Gramsci, che certo protestante non era) ritengono che la cultura moderna sia debitrice più al secondo, che tale alterità aveva ben chiara, che non al primo. Il fatto che si ami definire «cristiana» la cultura – italiana o europea che sia – non dovrebbe essere un vanto, semmai una pesante responsabilità storica che trova la propria contraddizione non nella presenza in Europa di persone provenienti da altre culture ma nella incapacità dei cristiani di predicare, nella loro perduta vocazione escatologica. Quanto alla storia, vediamo bene che storia di peccato sia quella dei cristiani, e non abbiamo più (mi auguro) la superbia di leggerla come espressione della volontà divina, come opera di Dio.

Già Isaia ricordava che «i Miei pensieri non sono i vostri pensieri, le Mie vie non sono le vostre vie» (55:8): potrebbe essere un buon antidoto alla tentazione di sacralizzare eventi umani, di leggere la storia come un processo necessario in cui tutto ciò che accade è ricompreso nel grande disegno di Dio e concorre alla realizzazione del Suo piano provvidenziale. E se la fede ci pone di fronte al paradosso «che bisogna entrare nella storia per conoscere Dio, ma la storia non rivela Dio»; e che «sul piano della storia Dio ci interpella come creature»,1 dobbiamo prendere atto che Dio non è la storia e che Gesù Cristo non la ha mutata e non ha voluto farlo; la ha segnata, però, le ha dato un senso nuovo. Di questo i credenti dovrebbero singolarmente farsi carico, e non è poco. La confusione principale, in questo modo di porre il problema, mi appare quella tra fede e religione: Karl Barth ci ha insegnato a tenerle ben distinte, le vediamo invece, con grave danno per la fede e per la società, continuamente sovrapposte e usate indifferentemente quasi fossero sinonimo dell’altra. Nelle nostre società secolarizzate lo vediamo di continuo: di fronte alla diffusa crisi di certezze ideologiche e di valori etici e politici la crescente richiesta di sacro è rivolta più alla religione vista come identità che non alla fede, che è rivelazione. Alle chiese e ai gruppi religiosi si chiede non il trascendente ma il contingente: radici, ethos collettivo, soddisfazione di necessità materiali e sociali, punti di riferimento umani, fruibili e accessibili. In questa commistione si annidano i fondamentalismi e l’intolleranza; si coltivano divisioni e si pretendono privilegi; si genera una sempre più accentuata clericalizzazione della politica che porta a spacciare per religiosi problemi e conflitti dietro i quali stanno interessi di altra natura: politica, economica, etnica. Tutto ciò non favorisce il dialogo né la convivenza e la solidarietà. Per questo credo che l’ottica da assumere nel considerare il tema della riconciliazione debba essere esclusivamente quella laica; da credente sono infatti fermamente convinta che solo muovendo da un approccio onestamente laico si possa andare oltre i discorsi che restano affermazioni di principi (buoni principi senz’altro) e individuare una via utile per il nostro concreto operare.

Naturalmente – e qui ho presente innanzi tutto la realtà italiana – il primo passo è rivendicare il valore positivo della laicità, rigettando la pregiudiziale clericale che equipara semplicemente il laico all’ateo o al non credente per accomunarli nella condanna. Essere laico è un’altra cosa, c’entra poco con l’essere credente oppure no; significa porsi nei confronti dell’altro da sé senza pregiudizi; non volergli imporre (magari per legge) le proprie convinzioni ma rispettare le sue; sapere ascoltare e mettersi in discussione; aspirare a una società in cui la convivenza di soggetti diversi sia regolata da norme che non creino discriminazione, prevaricazione, privilegi. Significa, insomma, puntare a costruire una democrazia che proprio perché laica lasci uguale spazio a tutti – credenti e no – di professare liberamente la propria fede e credenza, predicare, discutere, costruire i propri luoghi di culto, nel rispetto di norme e valori comuni e condivisi. Sono convinta che per poter dialogare, per portare avanti un’azione comune per il superamento delle molte linee di frattura e di ingiustizia da cui sono attraversate le nostre comunità, bisogna anzitutto ribadire il valore della concezione laica della società e spendersi per costruirla. È un impegno che dovrebbe stare a cuore soprattutto a chi si professa credente, e che più di chiunque altro può comprendere la portata delle trasformazioni avvenute e le conseguenze del generale, irreversibile secolarizzarsi della società in cui viviamo, sentire la necessità di ripensarsi e interrogarsi criticamente, contribuire a combattere la perniciosa confusione cui prima ho fatto cenno.

In questa direzione va anche la necessità, soprattutto per il credente, di essere «anticlericale», sempre nel senso positivo e costruttivo del termine, contrastando la connotazione esclusivamente negativa che, soprattutto in Italia, gli si continua a dare. Può essere utile riconsiderare quanto Karl Barth scriveva nel 1934, in polemica con la Chiesa luterana tedesca di quegli anni. Dopo aver ricordato che il compito della Chiesa non è «quello di rivendicare per sé un dominio» e che «un dominio religioso, un dominio esercitato sulle coscienze, in misura maggiore o minore, tramite mezzi esteriori o spirituali, nel nome di Dio, sarebbe la forma più maledetta del dominio umano», Barth invitava la Chiesa a non intraprendere quella strada che «non ha mai generato né creato altro che la caricatura della Chiesa: il clericalismo. Il clericalismo … è, in tutte le sue forme, l’autentico dominio dell’anticristo».2 Solo se sapremo costruire un quadro di riferimento in cui il «No» a Dio venga sentito come legittimo, non sconveniente, ovvero politicamente corretto, solo allora anche il «Sì» sarà pienamente libero e potrà forse, con il Suo aiuto e la consapevolezza della nostra debolezza umana, essere luce e lievito per il mondo. Per chi crede, e storicamente si sente legato a una determinata tradizione di fede, di rapporto personale e comunitario con il Dio vivente (e da cristiana penso al Dio di cui parla Paolo nell’epistola ai corinzi, non al Dio dei filosofi) questo significa la critica severa della propria identità come surrogato della fede, che è il primo, non facile passo per un dialogo costruttivo tra credenti; per chi non crede significa rispetto, attenzione considerazione anche per le ragioni di chi crede. Per entrambi l’obbligo di guardare non ai valori propri ma ai valori condivisi e all’interesse comune. È una condizione essenziale perché il dialogo in una situazione di conflittualità tra culture diverse sia proficuo e costruttivo, vada oltre la parata di buone intenzioni su cui tutti siamo d’accordo e ponga basi salde e concrete per lavorare a costruirle la pace, la convivenza, la solidarietà. E l’esperienza ci insegna che solo una società laica e non clericale può garantirla. Al suo interno, distinguendo i diversi piani d’azione, ciascuno potrebbe portare il proprio contributo alla soluzione delle contrapposizioni.

Spesso, parlando della situazione attuale, si fa riferimento alle guerre di religione agitando uno spauracchio che immediatamente evoca distruzioni e stragi e dovrebbe ricondurre chiunque a più miti consigli. Il riferimento potrebbe non essere fuori luogo e anche rivelarsi utile se, andando oltre la superficiale strumentalizzazione e ammettendo che in qualche modo la historia può essere magistra vitae, se ne traessero opportune indicazioni. La prima considerazione utile potrebbe essere ricordare che anche allora (secc. XVI-XVII) non si trattò semplicemente di questioni religiose ma di un complicato intreccio di problemi e interessi politico-dinastici e di potere che nell’elemento confessionale trovarono una sorta di valore aggiunto: occorrerebbe anche oggi guardare oltre le bandiere (anzi oltre i libri) che vengono agitate e individuare le ragioni reali e profonde delle contrapposizioni che viviamo. In secondo luogo si dovrebbe riflettere su quali basi si giungesse allora a por fine a quegli scontri sanguinosi. La pacificazione di Augusta (1555), l’editto di Nantes (1598), le paci della Westphalia (1648) ottennero lo scopo riportando il problema sul piano che gli era proprio, quello politico; vennero sciolti i nodi politici e si legalizzarono diverse confessioni, riconoscendo l’esistenza di un bene superiore alla uniformità religiosa: un patrimonio comune da tutti condivisibile al di là delle differenti convinzioni, la civile e pacifica convivenza, con lo Stato a farsene garante. Questo, non va dimenticato, avvenne per opera di sovrani pii e contro la volontà della confessione dominante: il papa innalzò una colonna per celebrare l’abiura di Enrico IV di Francia (la possiamo ammirare davanti a S. Maria Maggiore), ma non riconobbe mai i trattati che ponevano fine alle guerre con il riconoscimento dell’altro. È forse troppo chiedere ai politici del XXI secolo la medesima lucidità e autonomia di un re francese del XVI secolo?

 

 

Bibliografia

1 Sergio Rostagno, Dio e la storia, Claudiana, Torino 1990.

2 K. Barth, Volontà di Dio e desideri umani. L’iniziativa teologica di K. Barth nella Germania hitleriana, Claudiana, Torino 1986.