Comunanza di terra e sacralità

Di Mario Pirani Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

I tentativi per realizzare almeno una tregua nel conflitto arabo-israeliano si succedono e decadono ormai nello spazio di pochi giorni. Speranze di breve momento lasciano, talvolta, intravedere progetti di pace a più lungo termine i quali, anche se andassero in porto, non sarebbero tuttavia in grado di realizzare una pacificazione duratura. Non si dovrebbe ignorare che al di là degli aspetti politici e territoriali vi è, peraltro, anche un altro tema di fondo che sottende da sempre alla vicenda arabo-israeliana e che in genere gli osservatori (e sovente anche numerosi attori in prima persona) tendono a rimuovere o a negare: la questione religiosa.

 

I tentativi per realizzare almeno una tregua nel conflitto arabo-israeliano si succedono e decadono ormai nello spazio di pochi giorni. Speranze di breve momento lasciano, talvolta, intravedere progetti di pace a più lungo termine i quali, anche se andassero in porto, non sarebbero tuttavia in grado di realizzare una pacificazione duratura. Non si dovrebbe ignorare che al di là degli aspetti politici e territoriali vi è, peraltro, anche un altro tema di fondo che sottende da sempre alla vicenda arabo-israeliana e che in genere gli osservatori (e sovente anche numerosi attori in prima persona) tendono a rimuovere o a negare: la questione religiosa. Così, però, non si arriva a risolvere pienamente l’interrogativo che tutto il mondo si è posto: perché proprio dal momento in cui la pace era apparsa più vicina, quando Barak si era mostrato disposto a discutere del destino e della spartizione di Gerusalemme, come nessuno dei suoi predecessori aveva mai osato fare, perché proprio da quel momento si è scatenata – voluta e diretta dalla dirigenza dell’OLP – la rivolta palestinese, di cui la passeggiata di Sharon è stato l’occasionale e malefico detonatore? Molte risposte sono state avanzate sulle responsabilità delle due parti. Non sono, però, esaustive se non vengono collocate in una prospettiva di lungo termine dove né l’impiego della forza né gli strumenti della politica sono sufficienti per risolvere un contenzioso millenario. Per questo, tanto più ci si avvicina al cuore del problema, al rapporto tra terra e sacralità e, quindi, a Gerusalemme, tanto più gli equilibri diplomatici raggiunti tendono a saltare, le irrazionalità emotive (ma non per questo meno devastanti) ad esplodere, i sentimenti di appartenenza a contrapporsi con cieca determinazione, i compromessi, anche i più lungimiranti, ad essere giudicati come cedimenti inaccettabili.

I leader politici di cultura moderna hanno difficoltà a capire davvero la struttura emozionale che provoca tanti sconquassi. Ma mentre Arafat, pur essendo un laico, ha il vantaggio di percepire come l’antico dogma coranico possa trasformarsi a suo vantaggio in dirompente esplosivo, Barak ieri, come Sharon oggi, diffidenti persino del fondamentalismo ebraico (che hanno sempre cercato di addomesticare con qualche lusinga pratica), non riescono neppure teoricamente ad essere «comprensivi» di quello islamico. Anche se risaliamo alla storia del secolo appena trascorso, che ha visto l’emergere sia del sionismo sia del nazionalismo panarabo, non si può ignorare che ambedue si sono affermati in quanto movimenti laici, contrapponendosi alle vecchie leadership religiose, ebraiche ed islamiche. Basti pensare alle repressioni contro i «fratelli musulmani» da parte del regime nasseriano in Egitto (analogo il caso della Siria, dell’Iraq, dell’Algeria) o alle maledizioni degli ortodossi ebraici contro la creazione blasfema dello Stato d’Israele, che non coincideva con l’atteso avvento messianico. È quindi per una radicata tradizione culturale che, soprattutto da parte ebraica, si vorrebbero sminuire gli aspetti religiosi del confronto. Così, mentre Arafat puntava ad atteggiarsi come guardiano dei luoghi santi, il ministro degli Esteri di Barak, Shlomo Ben-Ami, dichiarava: «Il conflitto non è di natura religiosa, anche se Arafat cerca di trascinarci su questo terreno nella disputa sul Monte del Tempio. Egli fa un grosso errore se vincola la soluzione di tutto il problema palestinese e del conflitto medioorientale alla questione simbolica di una moschea». Parole che dimostrano la comprensibile insofferenza di molti israeliani laici per l’ortodossia religiosa sia araba che ebraica, tanto che le parole di Ben-Ami trovano speculare completamento in quelle di Abraham Yehoshua: «Gli ebrei che vogliono il Monte del Tempio sono dei pazzi che sognano un giorno di distruggere le moschee che vi sono sopra per ricostruire al loro posto il tempio di re Salomone».

Eppure c’é del metodo in questa follia, e rifiutarsi di leggerne il senso impedisce di individuare percorsi di convivenza, alla lunga forse più duraturi di quelli, pur indispensabili, della trattativa politico-diplomatica. Neanche un osservatore ateo può capire quello che è accaduto o accadrà in quella peculiarissima striscia di terra fra il Mediterraneo e il Mar Morto se non usa, assieme agli strumenti dell’analisi storica, anche i fondamentali testi delle tre religioni monoteiste di un Dio che le accomuna tutte. E poco capirà persino delle odierne cronache se non inforcherà occhiali biblici. Nel ristretto perimetro murario dell’antica Gerusalemme e soprattutto in quelle poche centinaia di metri del Monte del Tempio o dell’Haram Al-Sharif come lo chiamano gli arabi, che si affaccia ad oriente sulla valle di Giosafat, dove la tradizione colloca il giudizio universale, in quel fazzoletto di terra si è da sempre incrociato il vissuto ideale e religioso delle genti giudaiche, maomettane e cristiane. Lì il fulcro della loro fede e della loro storia, lì lo scenario, ripetuto attraverso i secoli, di infinite rappresentazioni artistiche, in ogni forma che l’uomo conosca, lì il conteso quadrivio dove si sono alternati i guerrieri di re Davide e quelli del profeta, i consoli romani e i crociati. La moschea di Omar e quella di al-Aqsa che si fronteggiano, sovrastando il Muro del Pianto, sono solo l’ultima versione di una vicenda lunga quanto la storia scritta. Il pavimento della prima è, in parte, formato da una larga roccia piatta. Secondo una tradizione di tremila anni, comune ad ebrei e musulmani, con quella pietra Dio separò il mondo della creazione dal caos sottostante. Un foro metterebbe in contatto i due emisferi di sopra e di sotto. Ma quello era solo l’inizio: su quel masso fu commesso il primo omicidio, l’assassinio di Abele per mano di Caino, con l’entrata dell’uomo nell’era, mai interrotta, della violenza. Su quella pietra Abramo incatenò il figlio Isacco, per immolarlo, prima di essere fermato dal Signore, punto di partenza del monoteismo, con l’avvento di un Dio giusto e trascendente e la trasformazione della religione in una morale. Da quella pietra Maometto salì al cielo su una scala di luce per ricevere il Corano da Allah. La moschea di Omar altro non è che la versione bizantina del tempio di Salomone, da dove Cristo scacciò i trafficanti, prima che le legioni di Tito lo distruggessero, spingendo gli ebrei alla diaspora. Il Muro del Pianto ne costituisce l’ultimo contrafforte. Sulle sue rovine i romani edificarono un tempio a Giove, mentre una chiesa cristiana subentrò, nello stesso punto, sotto Bisanzio e sotto i crociati di Goffredo di Buglione. Dal 1187 in avanti vi svetta la mezzaluna islamica. A qualche centinaio di metri in linea d’aria vi è la chiesa della Natività, la Via crucis, il Calvario e il Monte degli Olivi. Tutto questo ha sedimentato una compresenza religiosa, storica, culturale che nessun altro luogo del mondo conosce. Quel che per gli uni è un atto pio suona profanazione per gli altri. Ancestrali avversioni ed appartenenze si guatano l’un l’altra. Il confondersi fra antichità e modernità provoca uno straniamento irreale del tempo, il passato si rispecchia nel presente, generando angosce per un futuro su cui incombe il fantasma di una paurosa coazione a ripetere.

Possono leader politici per quanto illuminati, uomini d’arme per quanto coraggiosi, diplomatici per quanto accorti, condurre a compimento la pacificazione di un magma ribollente e da sempre inabbordabile, come le viscere irraggiungibili di un vulcano? Si potrebbe obiettare che altro non è dato, poiché i capi religiosi mosaici e maomettani appaiono come i più intemperanti custodi ognuno della propria fede. Allo stato delle cose è per la massima parte così, ma prima dell’ultima intifada avevano cominciato ad operare nuclei rabbinici che, sulla scorta degli insegnamenti dei discendenti di Maimonide, ricercano proprio nello spiritualismo islamico il lascito disperso della mistica ebraica. Operazione nient’affatto scolastica perché pone una fondamentale questione geo-politica: Israele può seguitare ancora a riconoscersi in un modello di società di stampo euro-americano o deve tradurne la modernità rapportandosi – in primo luogo – al mondo medio-orientale che la circonda, con la sua cultura e, si potrebbe dire, con i suoi sapori ed odori, fantasie ed emozioni? In questo senso vanno anche interpretati i primi tentativi di alcuni rabbini e di alcuni shekh islamici (guide di confraternite religiose) di pregare assieme, leggendo lo stesso libro e ricercando le comuni matrici dei discendenti di Isacco – gli ebrei – e di Ismaele – gli arabi –, figli ambedue di Abramo ma di due madri diverse, la moglie Sara e la schiava Agar. Questa, per istigazione di Sara, venne allontanata dalla casa (Genesi 16 e 21) ma Dio dirà ad Abramo: «Non ti dispiaccia questo per il fanciullo e la tua schiava (...). Attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole». Dunque l’allontanamento consentirà ad Agar di maturare, passando dallo status di schiava a quello di madre del capostipite del popolo arabo. La riprova della positività nascosta dietro l’enigma della storia di Agar, la schiava che seguendo l’ispirazione divina prende in mano il suo destino e quello del figlio, dando vita ad un altro popolo, è data anche dal fatto che Isacco e Ismaele, separati in gioventù da un tragico equivoco sulla maternità, si rivedono e si riuniscono alla morte del comune padre Abramo per onorarne la memoria. Di questo discettavano prima delle ultime terribili violenze rabbini e shekh. Resta però sempre aperto il quesito se anche dal recupero simbolico delle inscindibili origini religiose potrà passare l’arduo approccio alla coesistenza pacificata degli animi in quella terra, santa e dilaniata. La risposta non potrà essere immediata e può apparire molto lontana dal terreno del contendere. Ma anche la difficile amicizia giudaico-cristiana non avrebbe mai visto la luce senza una nuova interpretazione della Scrittura e della patristica che cancellasse l’accusa di deicidio e senza la richiesta di perdono per la Shoah. Del resto i suggerimenti pontifici per risolvere la questione di Gerusalemme, spogliando di ogni sovranità statale il perimetro dove si concentrano i luoghi di culto dei tre monoteismi, dimostrano l’attualità – in un frangente forse altrimenti insolubile – del concorso di una diplomazia religiosa cooperante con quella laica.