Il mito della globalizzazione linguistica

Di Giancarlo Schirru Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

In molte delle discussioni sul fenomeno della globalizzazione accanto a considerazioni di tipo economico-finanziario si evoca spesso una presunta omologazione di dimensione mondiale, a riprova della quale si cita generalmente il processo di concentrazione dell’industria culturale e dell’informazione. Fin dal conio della celebre espressione global village non è chiaro il carattere normativo o realistico di simili scenari: difficilmente infatti si riesce a comprendere se tali discussioni descrivano uno stato di cose, previsioni future o la formulazione di un modello ottimale di comunicazione planetaria.

 

In molte delle discussioni sul fenomeno della globalizzazione accanto a considerazioni di tipo economico-finanziario si evoca spesso una presunta omologazione di dimensione mondiale, a riprova della quale si cita generalmente il processo di concentrazione dell’industria culturale e dell’informazione. Fin dal conio della celebre espressione global village non è chiaro il carattere normativo o realistico di simili scenari: difficilmente infatti si riesce a comprendere se tali discussioni descrivano uno stato di cose, previsioni future o la formulazione di un modello ottimale di comunicazione planetaria.

Accogliendo come vera la globalizzazione culturale, sarebbe secondo alcuni lecito prevedere anche la nascita di una lingua comune all’intera umanità, ruolo cui è stato effettivamente candidato l’inglese. L’esistenza di una lingua globale non basterebbe a cancellare le differenze tra le comunità dei cinque continenti, dal momento che, almeno teoricamente, culture distinte possono servirsi di una medesima lingua. Avrebbe però un peso simbolico indubitabile: se l’uscita dal giardino dell’Eden è fatta coincidere nella Genesi con la prima differenziazione linguistica tra i tre figli di Adamo, la nascita di una lingua globale avrebbe il sapore di un ritorno alla condizione metastorica del paradiso terrestre. Troppe sono infatti le prove del fortissimo valore ideologico delle diversità linguistiche come elemento di identificazione delle comunità.1

Possiamo quindi affermare che la diversità linguistica sia destinata a finire? Tale giudizio ha senso solo se relativamente a un tempo talmente lontano da rendere inutile qualsiasi previsione. Sarebbe pertanto molto pericoloso attribuire un qualsiasi ruolo normativo alla globalizzazione linguistica: se infatti la politica assumesse questo scenario come regolativo per le sue preferenze (per esempio distinguendo tra favorevoli e contrari alla formazione di una lingua mondiale) rischierebbe di non accorgersi di una delle maggiori sfide della contemporaneità, costituita dalla comunicazione tra grandi universi linguistico-culturali profondamente diversi tra loro. È difficile portare prove a sostegno di qualsiasi argomento in questa discussione. Ci limitiamo così a fare un’operazione che è poco più di un gioco. Confronteremo, e discuteremo, alcuni dati provenienti dai due maggiori osservatòri sulla diffusione mondiale delle lingue. Soltanto cifre largamente indicative: non è facile infatti compiere un conto anche approssimativo dei parlanti di una lingua dato il carattere sfuggente di alcuni concetti. Cosa significa infatti una lingua? La varietà di italiano parlata a Palermo e quella usata a Venezia sono la stessa lingua o due lingue diverse? E il croato rispetto al serbo, visto che queste lingue sono molto simili e reciprocamente comprensibili, salvo il ricorso a un sistema di scrittura distinto (latino e cirillico)? È chiaro come a domande di questo tipo si possa rispondere solo ricorrendo ad argomenti di tipo extralinguistico, per esempio interrogando i parlanti sulla loro percezione: ma tale percezione è destinata a mutare nel tempo, come mostra proprio la vicenda jugoslava. Molto complesso è anche decidere sulla diffusione di una lingua come seconda (o terza ecc.) varietà: quale competenza infatti è necessario raggiungere per essere un parlante non nativo?

Cominciamo con l’osservare che secondo «Ethnologue» nel mondo contemporaneo sono parlate 6809 lingue. Molte di queste in realtà contano soltanto poche migliaia, se non centinaia, di parlanti e gran parte dell’umanità è concentrata in grandi lingue che hanno una dimensione nazionale o sovranazionale. «Linguasphere» elenca così ottantatré «macrolingue», parlate cioè da più di dieci milioni di individui. Anche però se si considerano le lingue con almeno sessanta milioni di parlanti, quindi un centesimo della popolazione mondiale complessiva, seguendo «Linguasphere» si arriva comunque al computo piuttosto elevato di venticinque varietà: arabo, bengali, cinese mandarino, cinese wu, cinese yue, coreano, indonesiano, inglese, italiano, francese, giapponese, giavanese, hindi-urdu, marathi, panjabi, portoghese, russo, spagnolo, swahili, tamil, tedesco, telegu, turco, ucraino–bielorusso, vietnamita. Se consideriamo però le varietà di dimensione maggiore, quelle che superano i 200 milioni di parlanti, e che abbiano una buona diffusione veicolare arriviamo a selezionare sei lingue. L’inglese occupa in questa ipotetica classifica una posizione rilevante; secondo i diversi computi il terzo, il secondo o il primo posto. Crediamo però che almeno queste sei lingue siano destinate ad avere un ruolo di grande importanza in questo secolo, se non oltre, come varietà di riferimento di grandi regioni del mondo. Avanziamo in proposito alcune osservazioni a commento dei semplici numeri.

 

Inglese

Le statistiche sul numero dei parlanti inglesi sono molto oscillanti e vanno da circa mezzo miliardo («Ethnologue») al miliardo («Linguasphere»), o addirittura una cifra compresa tra 1200 e 1500 milioni.2 L’inglese è presente come lingua madre in tutti e cinque i continenti, raccogliendo l’eredità del vasto impero coloniale britannico. Dalla Gran Bretagna si è diffuso in Irlanda, in Nord America (Stati Uniti e Canada), nei Caraibi (dove è presente come lingua ufficiale, per esempio in Giamaica, e come base di numerose varietà creole), in Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa. Il colonialismo ne ha inoltre consentito la diffusione come lingua di assimilazione, seconda lingua o lingua veicolare in un’area straordinariamente vasta, comprendente l’Asia meridionale (Pakistan, India, Bangladesh, Sri Lanka), l’Africa equatoriale occidentale (Sierra Leone, Ghana, Gambia, Nigeria, Camerun; diverso è ovviamente il caso della Liberia), l’Africa orientale (Kenya, Tanzania, Uganda, Malawi, Zambia, Zimbabwe), il Sud-Est asiatico e il Pacifico (Singapore, Malesia, Hong Kong, Papua Nuova Guinea, Filippine). L’inglese svolge inoltre il ruolo di lingua veicolare internazionale in alcuni ambiti professionali, come il traffico aereo, la comunicazione scientifica, la politica e le relazioni internazionali, l’ambiente economico-finanziario; è inoltre associato a un elevato prestigio per il suo legame con l’industria culturale americana e in generale con il potere economico dell’Occidente. Dati i caratteri di questa diffusione Crystal propone persuasivamente di dividere i parlanti inglesi in tre cerchi concentrici: il primo, quello più interno, costituito dai parlanti madrelingua, ammonterebbe a circa 337 milioni di individui; il secondo, relativo alla diffusione come lingua straniera nelle antiche aree coloniali, conterebbe circa 235 milioni di unità. Il totale di queste due prime categorie sarebbe quindi di 562 milioni di parlanti: Crystal propone però di correggere verso l’alto questi numeri, giungendo a una somma di circa 800 milioni di parlanti, per tenere conto della dispersione inevitabile dei calcoli in un’area linguistica così diffusa e del rapido incremento demografico di molte delle regioni considerate (India, Malesia, Filippine, Nigeria ecc.). Il terzo cerchio infine è costituito dalla diffusione nel mondo industriale (in Europa, Russia, Giappone, Cina ecc.) dell’inglese come lingua di prestigio, sia per esigenze professionali sia come lingua di cultura (ad esempio insegnata nel sistema scolastico): si afferma che questa categoria potrebbe variare dai cento milioni al miliardo di individui, e si valuta comunque che una buona competenza sarebbe raggiunta da circa 400-700 milioni di questi. Tale cifra ci sembra francamente ottimistica: da un recente rapporto sulla diffusione delle lingue nell’Unione europea3 si evince che solo il 53% dei cittadini dell’Unione (purtroppo) afferma di parlare una seconda lingua, che, per il 41% di questi, è rappresentata dall’inglese (per inciso solo il 47% di questa restante porzione dichiara di possedere una competenza buona o molto buona). Per superare i 400 milioni di parlanti (compresi quelli con un livello elementare) sarebbe pertanto necessario che la diffusione dell’inglese tra i cittadini non madrelingua dell’Unione europea fosse estesa all’intero continente europeo, Russia compresa, a tutta la Cina e al Giappone: la cosa sembra francamente difficile considerati i livelli di scolarizzazione difformi, l’alfabetizzazione primaria in diversi sistemi di scrittura, l’assenza di una tradizione nell’insegnamento di questa lingua negli stati ex socialisti e in Cina, le maggiori difficoltà di quanti hanno come lingua madre una varietà non europea, come il cinese e il giapponese, ad apprendere l’inglese per l’assenza di lessico comune e di affinità tipologiche. Quella di Crystal sembra quindi una previsione a breve-medio termine, e non è pertanto confrontabile con i dati qui discussi per le altre lingue. La sola cosa che ci sentiamo di affermare è che la «massa parlante» inglese può essere compresa attualmente tra il mezzo miliardo e il miliardo di individui, e pertanto è in un ordine di grandezza simile a quello del cinese e della somma di hindi e urdu.

 

Cinese

I parlanti cinesi sono più di un miliardo, che cosa si intende però con cinese? Generalmente in Occidente si fa riferimento al cinese comune mediante la dicitura mandarino: questa parola ha una storia piuttosto bizzarra dal momento che si è diffusa in Europa dal portoghese mandarim con cui si rendeva la parola malese (a sua volta di origine sanscrita) māntārâ «consigliere»: corrisponde quindi al cinese guânghuà, la «lingua degli ufficiali», ovvero la lingua della burocrazia dell’impero Ming, basata sulla varietà di Pechino e diffusasi dal XV secolo soprattutto come lingua scritta. Dal momento però che la scrittura cinese ha un carattere fondamentalmente ideografico (ogni segno indica grosso modo una parola primitiva) a un’unica lingua scritta corrispondevano tradizionalmente diverse varietà parlate, soprattutto nell’area costiera meridionale. Alcune di queste hanno tuttora una grande diffusione: per fare un esempio la varietà wu (per cui si calcolano più di 77 milioni di parlanti) propria della città di Sciangai e del delta del fiume Jangtse, l’area più fertile e popolosa della Cina. Le numerose varietà cinesi (han) non sono però le sole presenti nella Cina attuale, e convivono a fianco di numerose minoranze che sommano complessivamente circa 91 milioni di parlanti (il 6,5% della popolazione).4 La Cina insomma è uno Stato costituito da numerose nazionalità (con una preponderante presenza han) ma tenuto assieme da una tradizione straordinariamente antica di unità politica e centralizzazione. Per far fronte a questa complessa situazione il governo socialista, fin dal 1955-1956, ha attuato una politica linguistica molto simile a quella perseguita dall’Unione Sovietica: promozione attraverso il sistema scolastico di una lingua unitaria, denominata pŭtonghuà «lingua comune»; ma anche salvaguardia delle identità: le lingue di minoranza (cinquantacinque sono riconosciute ufficialmente) e le maggiori varietà locali. Il cinese ha statuto di ufficialità anche a Taiwan, Hong Kong e Singapore ed è notevolmente diffuso in Tailandia e nel Pacifico (Indonesia, Malesia, Brunei, Filippine) e costituisce anche un’importante lingua franca commerciale in tutta l’area.

 

Hindi e Urdu

L’hindi e l’urdu sono due lingue indoarie con un lessico largamente comune e un buon grado di intercomprensibilità: potrebbero quindi essere considerate due varietà della medesima lingua, anche se le forti divisioni religiose e politiche tra le due comunità di parlanti (rispettivamente indiana settentrionale e pakistana) tendono a enfatizzare le differenze più che le somiglianze. Questa storia complessa è visibile anche nel ricorso a diversi sistemi di scrittura: l’urdu è scritto in grafia arabopersiana, l’hindi in devanagari, utilizzato in gran parte dell’India anche per il sanscrito, la lingua dei testi induisti. Sia il Pakistan sia l’India sono Stati multinazionali: nella Repubblica Islamica del Pakistan l’urdu condivide lo status di lingua nazionale con il sindhi (un’altra lingua indoaria) e l’inglese; nel paese sono presenti numerose minoranze linguistiche (circa settanta), soprattutto di varietà iraniche (tra cui il pashto e il baluci). L’urdu così è madrelingua solo per il 7,57% della popolazione, ma a questa va aggiunta una quota molto vasta dei 148 milioni di abitanti che hanno appreso l’urdu come lingua di prestigio. Inoltre una folta comunità linguistica è presente in India (ben 48 milioni di parlanti e status di lingua ufficiale), mentre in Sud Africa e Mauritius l’urdu ha una certa diffusione per la presenza di comunità pakistane con ruoli sociali elevati. Ancora più complessa è la situazione dell’India, che con il suo miliardo di abitanti rappresenta una vera e propria confederazione di nazionalità diverse: la grande attenzione per le autonomie è visibile anche nella politica linguistica attuata dalla Repubblica che riconosce ben quindici lingue ufficiali (più l’inglese considerato lingua ufficiale aggiunta): tra queste c’è anche l’hindi, che ha inoltre un ruolo di lingua veicolare almeno nella parte superiore del subcontinente, quella in cui sono diffuse lingue indo-arie. Solo nell’India meridionale, in cui sono preponderanti lingue dravidiche, ci sono resistenze all’adozione dell’hindi per la comunicazione tra parlanti di lingue diverse, e a questo è preferito il tamil, se non l’inglese nella comunicazione con gli indiani del Nord. Numerosi indicatori comunque convergono nel registrare continui progressi dell’hindi come lingua veicolare e di prestigio della Repubblica Indiana. Si calcola così che circa metà dei cittadini di questo grande paese abbiano una competenza in hindi come lingua madre o come seconda lingua. Minoranze hindi sono inoltre presenti in Nepal, Sud Africa e Uganda.

 

Spagnolo

Anche l’area ispanica eredita, come l’inglese, i vasti territori di un impero coloniale. Comprende gran parte dell’America centrale e meridionale, il Marocco, la Guinea equatoriale e le Filippine. Inoltre, secondo il censimento del 1990, più di 22 milioni di statunitensi (l’8,9% del totale) sono madrelingua spagnoli: questa lingua ha infatti negli USA una sua tradizione dal momento che i territori Sud-occidentali del paese devono la loro prima colonizzazione europea a popolazioni ispanofone. Nello stato del Nuovo Messico ad esempio, fino agli anni Trenta del Novecento, lo spagnolo è stato la lingua ufficiale, usata nell’amministrazione e nel sistema scolastico, e grandi minoranze ispaniche sono tradizionalmente presenti in California e in Texas. Questa componente della società americana è in continua crescita, tra l’altro, per il continuo afflusso di migranti dall’America centrale e dai Caraibi. Lo spagnolo ha inoltre una certa diffusione nel mondo come lingua di cultura: in Europa ad esempio è indicata dall’1% (al pari dell’italiano) di quanti conoscono una lingua straniera.

 

Russo

I parlanti madrelingua russi sono circa 153 milioni nei territori dell’ex URSS. Una cifra quindi già alta che però si accresce notevolmente considerando la presenza di minoranze russe all’esterno della madrepatria e l’uso di questa lingua come veicolare in una vasta regione del mondo. Quest’area fino al 1989 si estendeva a tutta la sfera di influenza dell’ex Unione Sovietica, ma, com’è noto, si è fortemente ridotta con la fine della guerra fredda. Il russo ha perso così molto del suo prestigio nell’antica Europa comunista, dove comunque continua ad essere diffuso come lingua straniera (per esempio nel sistema scolastico). È tuttora la lingua veicolare all’interno della Comunità di Stati indipendenti, e di fatto in tutto il territorio su cui si estese l’URSS con la significativa eccezione di Lituania, Lettonia ed Estonia, in cui sono però presenti folte minoranze russe. È bene ricordare che il territorio della sola Russia comprende numerosissime nazionalità e che a queste vanno aggiunte le antiche repubbliche sovietiche autonome, tutti Stati solo in parte mononazionali. Quest’area, estremamente intricata linguisticamente, è stata in parte centralizzata dall’URSS mediante l’insegnamento del russo nella scuola come prima o seconda lingua. La politica bolscevica delle nazionalità è stata però complessa, e ha avuto orientamenti non univoci. Accanto alla centralizzazione va infatti ricordato il grande impegno per l’alfabetismo, compiuto in genere nella varietà primaria dei singoli parlanti, con un notevole rispetto, soprattutto in alcune fasi, per gran parte delle lingue presenti sul territorio dell’Unione. Comunità russe sono inoltre presenti in Mongolia, Cina, Israele e Stati Uniti.

 

Arabo

Le ragioni di diffusione dell’arabo sono storicamente molto stratificate: al territorio della grande espansione islamica – penisola arabica, Medio Oriente e Nord-Africa – si aggiungono progressi continui in Africa e in Asia per ragioni economico-commericali, religiose e di cultura. Più difficile è però determinare cosa si intenda con arabo. «Ethnologue» ad esempio censisce più di trenta varietà di questa lingua, compresi i numerosi creoli, per un numero complessivo di 195 milioni di parlanti. La lingua unificante, il cosiddetto arabo standard, rappresenta una variante modernizzata dell’arabo classico: è insegnata nelle scuole, usata come lingua scritta e nel parlato formale. In «Ethnologue» però si afferma che ben 100 milioni dei parlanti madrelingua di una varietà di arabo, non hanno competenza dello standard.

Se dalle lingue di più ampia diffusione giriamo lo sguardo sul complesso delle più di seimila varietà presenti attualmente nel globo ci accorgiamo che il numero medio di parlanti per lingua è compreso tra cinquemila e seimila unità.5 Gran parte di queste quindi sono ristrette a piccole comunità e possono pertanto considerarsi «a rischio» di assimilazione da parte delle varietà più popolose. Un gruppo più ristretto è inoltre molto prossimo all’estinzione: secondo «Ethnologue» ben 417 lingue nel mondo contemporaneo sono destinate a sparire alla morte dei loro ultimi parlanti. L’estinguersi di una lingua rappresenta una tragedia culturale irrimediabile: può essere paragonata, fatte le dovute differenze, alla distruzione di un museo d’arte, d’un sito archeologico, di una biblioteca, o, per ragioni diverse, alla scomparsa di una specie biologica. Ogni lingua infatti è connaturata a una visione del mondo e a una cultura non direttamente traducibili in un’altra lingua: non accorgersi quindi del danno costituito dalla morte di una lingua, con l’argomento che «le lingue sono scomparse in tutta la storia dell’umanità», equivale a considerare normale radere al suolo le rovine di Pompei perché la distruzione di una città da parte di un vulcano rappresenta in definitiva un evento assolutamente naturale. La modernità si è fondata anche sulla riscoperta dei classici, la catalogazione delle testimonianze del passato, la comparazione delle diverse culture dell’umanità. Va quindi registrato un ritardo culturale nella coscienza contemporanea di fronte a questo problema: nessuno metterebbe in discussione l’utilità di conservare le testimonianze scritte del greco antico o dell’aramaico in archivi e biblioteche, il mantenimento di una pinacoteca con opere tardomedievali e rinascimentali, o, per altri versi, gli sforzi compiuti per il ripopolamento delle balene o di altre specie naturali a rischio. Eppure, in gran parte del mondo, poco o nulla si fa per mantenere vitali lingue ristrette a gruppi molto esigui, e che quindi sono sul punto di scomparire.

Accanto a queste considerazioni vanno tenuti presenti i diritti soggettivi di quelle comunità destinate a perdere la loro lingua: un gruppo assimilato è per molti versi un gruppo dimezzato politicamente, condannato all’insicurezza linguistica e a un ruolo marginale. Ci vuole poco, al contrario, per aiutare quel gruppo a diventare bi- o trilingue, consapevole della sua identità e contemporaneamente inserito in una grande lingua e cultura nazionale. Senza considerare poi che l’indifferenza della coscienza collettiva o dei poteri pubblici verso le minoranze linguistiche, se non addirittura le politiche attive volte alla loro assimilazione, raggiungono in alcuni casi l’effetto opposto a quello desiderato: i gruppi sufficientemente forti infatti si ri-etnicizzano e avviano una riscoperta delle loro tradizioni linguistiche in chiave meramente localistica e aggressiva. E tale rinascita delle piccole patrie è una delle cifre che caratterizza questo difficile passaggio di secolo. Se solleviamo il problema delle lingue in via di estinzione in questa sede è però per un altro motivo: vogliamo cioè chiederci se si può scorgere in tale fenomeno la prova di una presunta globalizzazione linguistica, come alcuni sostengono. Poniamo quindi il problema in questa forma: i membri delle comunità che stanno perdendo la loro lingua sono tutti assimilati dall’inglese, nuova lingua «globale»? o comunque entrano sempre a far parte dei parlanti di una delle lingue «mondiali» precedentemente illustrate?

Per molte delle lingue in via di estinzione «Ethnologue» registra anche l’eventuale bilinguismo degli ultimi parlanti rimasti: si può notare quindi come l’assimilazione sia in atto verso l’inglese solo in quegli Stati in cui questa lingua, o una sua varietà creola, sia stabilmente in uso come lingua madre: quindi per le lingue amerindiane presenti negli Stati Uniti e in Canada e per le lingue originarie dell’Australia e della Nuova Guinea. Un fenomeno assolutamente parallelo è in atto per le altre lingue di maggiore diffusione: le lingue native del Centro e Sud America, quando scompaiono, sono generalmente assimilate dallo spagnolo o dal portoghese (in Brasile). L’isola di Taiwan rappresenta una realtà linguistica estremamente complessa: su un fondo molto variegato di lingue del gruppo austronesiano si sono infatti sovrapposte varietà cinesi. Attualmente alcune delle varietà austronesiane (babuza, kavalan, pazeh, thao) stanno morendo per assimilazione alla comunità han. Gli ultimi parlanti dell’a-pucikwar, in India, sono bilingui hindi. Allo stesso modo l’arabo ha quasi completamente assorbito due lingue presenti in Ciad: il berakou e il massalat. Al di fuori però delle aree popolate da una maggioranza di parlanti nativi delle lingue mondiali l’assimilazione procede seguendo diverse vie: nella penisola scandinava i parlanti pite saami sono stati quasi totalmente assimilati dal norvegese o da lo svedese. I mogholi afghani sono bilingui farsi, la lingua nazionale iraniana diffusa nel nord dell’Afghanistan. E in Vietnam la lingua nazionale è parlata anche dagli ultimi arem. In molti casi inoltre le esigue comunità linguistiche residue mostrano di accogliere una lingua che non ha un ruolo nazionale o ufficiale. Esemplari in questo senso sono alcune situazioni africane: in Guinea ci sono due lingue ufficiali, il fuuta jalon (parlato da circa il 40% della popolazione) e il francese: due delle lingue parlate nel paese sono in via di estinzione, il baga koga e il baga mboteni, e i loro parlanti sono bilingui non con una delle lingue ufficiali, ma con il susu, lingua che annovera circa 950.000 parlanti tra Guinea e Sierra Leone. Il Camerun ha come lingue ufficiali l’inglese e il francese: di alcune lingue – bikya, bis-huo e busuu – si contano solo una manciata di parlanti in quanto le loro comunità parlano ora comunemente varietà jukun, una piccola famiglia (annovera circa 70000 parlanti in tutto) di lingue usate soprattutto per la comunicazione tra tribù diverse. Singolarmente anche in Nigeria, che pure ha ben nove lingue ufficiali (tra cui l’inglese), queste varietà jukun mostrano di assimilare le comunità bete e lufu, le cui lingue sono considerate prossime a estinguersi.

Da queste considerazioni ci sembra di poter concludere che l’imminente estinzione di molte lingue è una tragedia che non sembra connessa con la formazione, nel XX secolo, dell’evocato villaggio globale: questa rimanda piuttosto a fenomeni di più lunga durata, come la brutalità del colonialismo europeo nelle Americhe e in Australia, la difficoltà che hanno le comunità di cacciatori-raccoglitori a mantenere un’identità culturale in economie agricoloindustriali, le modalità della formazione degli Stati moderni e le loro politiche linguistiche, i preconcetti di molti operatori del sistema scolastico, e altre questioni ancora.

Il linguista britannico David Crystal ha compiuto nel libro citato una meditata previsione sulla futura ascesa dell’inglese al ruolo di lingua globale. La sua argomentazione procede in questo modo: innanzi tutto si osserva come nel mondo contemporaneo si siano raggiunte le condizioni per la diffusione globale di una lingua; poi si registra la prossima ascesa dell’inglese a prima lingua mondiale per prestigio, numero di parlanti e diffusione territoriale; infine si ritiene che il ruolo di lingua globale possa essere raggiunto nella storia dell’umanità una sola volta. Se una varietà raggiungerà la «massa critica» per diventare la lingua di riferimento dell’intero mondo, questa impedirà un parallelo sviluppo di altre varietà: e pertanto l’inglese, volenti o nolenti, sarebbe la lingua che si è trovata «al punto giusto nel momento giusto». Crystal ipotizza quindi che fra cinquecento anni tutti gli esseri umani si troveranno, al momento della nascita, inevitabilmente esposti all’inglese.

Appunto, tra cinquecento anni. Da parte nostra crediamo che sia profondamente sbagliato affidare a tale previsione un qualsiasi ruolo sugli orientamenti della politica attuale. Crystal svolge, da eminente studioso, un ragionamento che risponde a una curiosità intellettuale circa il futuro remoto. Possiamo essere d’accordo con le sue argomentazioni o no (in particolare con l’ultimo passaggio del suo ragionamento). Questa previsione ci distoglie però inevitabilmente da quella che ci sembra la maggiore sfida per l’umanità contemporanea. Abbiamo visto come almeno sei lingue, se non più, siano destinate ad avere, almeno in questo secolo, un ruolo molto forte per l’identità e la comunicazione veicolare di grandi parti dell’umanità. Si tratta di lingue molto diverse tra loro che usano, tra l’altro, cinque diversi sistemi di scrittura difficilmente traslitterabili l’uno nell’altro: ideografico cinese, arabo, devanagari (questi due a base fondamentalmente sillabica), cirillico e latino. Come si renderà possibile la comunicazione tra queste grandi aree dell’umanità del XXI secolo? Attraverso quali risorse linguistiche mondi molto diversi tra loro possono comprendersi reciprocamente? Crediamo che questi siano i veri interrogativi che la politica contemporanea deve porsi.

L’anno 2500 ci sembra invece francamente sottratto a ogni previsione. Non possiamo sapere se l’attuale posizione di predominio dell’Occidente sul mondo sia destinata a durare tanto a lungo da rendere possibile un ritorno dell’umanità al paradiso terrestre della lingua globale. Ci limitiamo però ad osservare che il passato è pieno di profezie sullo sviluppo delle lingue che si sono dimostrate inconsistenti alla prova dei fatti. Lo stesso Crystal cita il giudizio formulato nel 1873 da Isaac Pitman, allora curatore del «Phonetic Journal», circa la diffusione delle lingue nel mondo dell’anno 2000. Pitman prevedeva all’incirca la seguente gerarchia: 1. inglese (1.800 milioni di parlanti); 2. spagnolo (505 milioni); 3. tedesco (157 milioni); 4. russo (130 milioni); 5. francese (72 milioni); 6. italiano (53 milioni). È palese l’incapacità di prevedere l’ascesa delle lingue dell’Asia, secondo un canone vittoriano per cui nel Novecento il mondo sarebbe stato ancora interamente organizzato dal colonialismo europeo. Non possiamo escludere che anche noi guardiamo al domani con gli occhi di uomini del secolo dell’americanismo.

Inoltre, le maggiori lingue del mondo mostrano non solo di diffondersi, ma anche di diversificarsi al loro interno. Questo fenomeno è vero anche per l’inglese contemporaneo malgrado questa lingua, almeno nella coscienze degli intellettuali americani, sia stata spesso associata a un’«eccezionale» uniformità, dovuta alla mobilità e alla democraticità della società civile statunitense. Possiamo ricordare in proposito il giudizio di Timoty Dwight, poligrafo e presidente del College di Yale tra il 1795 e il 1817, e dello stesso Alexis de Toqueville, concordi nel rilevare l’assenza di dialetti negli USA. Non stupisce quindi se John Adams, rivolgendosi al Congresso nel 1780, fosse convinto di una sorta di missione unificatrice dell’umanità affidata all’inglese, la lingua che nel Nuovo Mondo era riuscita a rendere unitario un insieme di popoli e classi estremamente disomogeneo. Per effetto di tale preconcetto, quando si riscontrarono differenze geografiche nell’inglese statunitense, queste furono interpretate come il risultato del complesso processo di colonizzazione, e si immaginò la loro scomparsa imminente. L’omogeneità del General American English si è rivelata poco più di un mito alla prova della successiva ricerca linguistica che anzi, soprattutto nei contributi degli ultimi venti anni, ha mostrato chiaramente come nell’inglese del Nord America siano rintracciabili almeno quattro grandi aree dialettali formatesi per l’evoluzione divergente del Sud, della regione dei grandi laghi, dell’Ovest e del Canada negli anni successivi al 1875. La lingua destinata, secondo i fondatori degli Stati Uniti, a far sparire minoranze e dialetti si sta quindi diversificando al suo interno e questo fatto ci sembra di buon auspicio per un futuro dell’umanità ricco di diversità linguistica.6

 

 

Bibliografia

1 Per restare alla mitologia biblica si ricordi il celebre episodio (Giudici, 12, 4-6) della guerra tra le due tribù ebraiche degli Efraimiti e dei Galaaditi, in cui questi ultimi riconoscevano, e uccidevano, i nemici chiedendo loro di pronunciare la parola shibbolet «spiga del grano» o «corrente del fiume», inevitabilmente realizzata sibbolet dagli Efraimiti per una piccola differenza dialettale.

2 David Crystal, English as a Global Language, Cambridge University Press, Cambridge 1997, p. 61.

3 Cfr. Europeans and Languages, «Eurobarometer», 54 speciale, 2001.  

4 Tra queste lo zhuang (gruppo tai-kadai, circa 15 milioni complessivi di parlanti delle due varietà settentrionale e meridionale), l’uyghur (lingua altaica con circa 7.200.00 parlanti), il gruppo yi (nazionalità cui sono ascritti circa 6.600.000 cinesi, divisi però in numerose varietà locali), il mongolo (circa 4.800.000 parlanti), kazako (circa 1.100.000 parlanti), khams (lingua tibetana, 1.500.000 parlanti), il tibetano (circa un milione di parlanti).

5 Cfr. D. Nettle, S. Romaine, Voci del silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estinzione, Carocci, Roma 2001.

6 Fonti dei dati: Linguasphere. Table of the World’s Major Spoken Languages 1999-2000, di prossima pubblicazione in «Linguasphere Register of the World's Languages and Speech Communities», a cura di David Dalby. Consultato a https://www.linguasphere.org/. Ethnologue: Languages of the World, a cura di Barbara F. Grimes, Joseph E. Grimes, Summer Institut of Linguistics, 2000. Consultato a https://www.ethnologue.com/home.asp.