Ma prima costruiamo un vero partito dei socialisti europei

Di Pierre Moscovici Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

Cari Massimo e Giuliano, l’analisi delle recenti sconfitte subite dai governi socialdemocratici europeitracciata nella vostra lettera è senza dubbio stimolante. La vostra riflessione tocca da vicino il Partito socialista francese dopo l’esito traumatico delle elezioni presidenziali della scorsa primavera, che hanno documentato inequivocabilmente il rifiuto dei francesi nei confronti della sinistra e di Lionel Jospin.

Cari Massimo e Giuliano,

l’analisi delle recenti sconfitte subite dai governi socialdemocratici europeitracciata nella vostra lettera è senza dubbio stimolante. La vostra riflessione tocca da vicino il Partito socialista francese dopo l’esito traumatico delle elezioni presidenziali della scorsa primavera, che hanno documentato inequivocabilmente il rifiuto dei francesi nei confronti della sinistra e di Lionel Jospin.

Nella vostra analisi rivendicate con preoccupazione la necessità di un profondo rinnovamento dei valori della socialdemocrazia europea e manifestate il desiderio che tale rinnovamento non sia più confinato all’interno dei singoli contesti nazionali ma coinvolga tutta l’Europa. E nelle vostre conclusioni indicate nell’allargamento delle frontiere della socialdemocrazia la via per creare una nuova «casa comune» che riunisca tutti i riformismi del continente, dai cristiano-democratici fino agli ecologisti. Pur condividendo le premesse di questa analisi, tuttavia non sono d’accordo con le proposte che concludono la vostra lettera. Non c’è alcun dubbio, a mio parere, che si debba rinnovare il pensiero che costituisce la nostra base ideologica. La sinistra soffre innanzitutto la mancanza di un progetto per la società. Da qui nascono due conseguenze che hanno interessato diversi paesi europei. Siamo stati vittime di una sorta di «bilanciere elettorale». I socialdemocratici andati al governo fra il 1996 e il 1998 hanno subito una serie di rovesci, testimoniati dall’esito delle recenti elezioni nazionali. E ovunque la sinistra, anche quando è riuscita a riconquistare il governo come in Svezia e in Germania, ha subito un notevole cedimento elettorale. Il fenomeno del bilanciere è meccanico, e ciò può lasciarci sperare che forse si riproduca nel senso opposto, quello favorevole alla sinistra, ma anche questa ipotesi non è sufficiente per tranquillizzarci. In assenza di progetti per la società, gli elettori scelgono gruppi tecnici che gestiscano il potere, ma che inevitabilmente si deteriorano con il tempo. In Francia fin dal 1981, ovvero da quando esiste un’alternativa politica, ad ogni consultazione nazionale gli elettori hanno deciso sistematicamente di non riconfermare il governo uscente. Questo è stato il primo effetto.

Il secondo è stato l’allontanamento di un numero crescente di cittadini dall’area democratica: un fenomento confermato in modo inequivocabile dal voto verso i partiti estremisti, in particolare di estrema destra, e dall’astensione dal voto. Questa tendenza ha determinato una ricomposizione della destra nel panorama politico con la formazione in diversi paesi – Olanda, Austria, Italia, Danimarca e Portogallo – di alleanze di governo fra la destra parlamentare e l’estrema destra populista. Tale ricomposizione rappresenta una minaccia per i valori democratici e rende d’altra parte più difficile l’alternanza democratica. Infatti senza una netta evoluzione della sinistra non sarà possibile continuare a lungo a fare un’opposizione efficace. In Francia il sistema elettorale maggioritario puro a doppio turno ha impedito l’accesso del Fronte Nazionale in parlamento. E tuttavia, il risultato del 17% registrato alle presidenziali è indubbiamente un avvertimento da non sottovalutare. La ricomposizione della destra è tuttora in corso: la Union pour la Majorité Présidentielle (UMP) ha riunito la destra parlamentare «dura» (eccetto i cristiano-democratici dell’UDF, Union pour la Democratie Française); il Fronte Nazionale sta intensificando una strategia che fa leva sulla rispettabilità e si sforza di nascondere la propria identità xenofoba e razzista. Da adesso in poi, e se le circostanze lo richiederanno, temo che l’alleanza della destra con l’estrema destra possa nascere dalla base, come è successo in altri paesi europei, nonostante il sincero imbarazzo dei leader della destra parlamentare. In Francia questa è già una realtà in alcuni esecutivi locali in cui la destra tradizionale ha optato per l’alleanza con il Fronte Nazionale quando ciò si è dimostrato necessario per andare al potere (Jaques Blanc nell’Herault, Charles Milton nel Rhône-Alpes, Charles Baur in Piccardia, Jean-Pierre Soisson in Borgogna). Oggi tutti sostengono l’UMP…

Ma qual è dunque la ragione per cui le sinistre europee non hanno più un progetto per la società? Anche io, come voi, sono convinto che stiamo vivendo la fine di un ciclo politico. Ma non credo che si tratti solo di un ciclo che descrive l’ultimo decennio in cui la sinistra europea ha governato, quanto piuttosto di un ciclo a lungo termine che riguarda più generalmente la socialdemocrazia. La socialdemocrazia ha tradizionalmente riconciliato due principi filosofici opposti: la libertà (economica) e la giustizia sociale (ovvero la ridistribuzione della ricchezza). Contro i liberali che difendevano da destra il capitalismo a discapito della giustizia sociale, contro i comunisti che predicavano la rottura con il capitalismo per una società egualitaria, i socialisti si sono aggregati intorno a una sintesi: massimizzare la giustizia sociale nel rispetto del principio della libertà.

Il punto è che proprio i cardini della sintesi socialdemocratica sembrano essere in crisi in tutta l’Europa. La socialdemocrazia ha esaurito la sua capacità di riforma, e non sembra che abbia più molto da dire dopo avere realizzato il proprio programma storico: in cinquant’anni è stato costruito un sistema completo di welfare, la metà della ricchezza nazionale è stata ridistribuita, tutte le grandi garanzie sociali (malattia, pensione, disoccupazione) sono state acquisite. In Francia e in tutta l’Europa la società è socialdemocratica. Ma ciò non esclude che il sistema possa essere migliorato, benché, almeno nella sfera dell’ideologia, la socialdemocrazia abbia concretizzato i principi essenziali del suo programma. Nel nostro paese sarà difficile che la destra possa muoversi in una direzione antiliberale senza scontrarsi con una ferma resistenza sociale, sindacale e associativa. In generale in Francia abbiamo raggiunto l’equilibrio stabile fra libertà e giustizia sociale caratteristico del «modello sociale europeo». Tuttavia, il compromesso che incarna la socialdemocrazia non corrisponde più alle attese della società contemporanea. Si incrina a destra davanti ai cittadini che chiedono più libertà. Studi recenti documentano un’accelerazione del processo di individualizzazione, una richiesta incalzante di libertà individuale nella sfera privata che si esprime sia nella sfera sociale (maggiore tolleranza morale, una nuova concezione della famiglia, laicità) che in quella economica (maggiori aspirazioni al riconoscimento del merito e alla crescita personale). Ma non solo. Il compromesso della socialdemocrazia si incrina anche a sinistra quando i cittadini chiedono una maggiore giustizia sociale per beneficiare di una protezione reale contro l’insorgere di nuovi rischi (quelli economici derivanti dalla globalizzazione e la precarietà del lavoro, quelli ecologici, e sociali per l’intensificarsi della violenza urbana).

L’altro elemento della vostra analisi che condivido è la convinzione che il rinnovamento ideologico della sinistra non debba più essere confinato al livello nazionale, ma debba estendersi a tutta l’Europa. Per trasformare la società, per changer la vie come dicono i socialisti francesi, i riformisti hanno bisogno di uno strumento istituzionale. Fino ad oggi questo strumento si è identificato con lo Stato, utilizzato massicciamente in Francia sia sul piano finanziario con la mobilitazione del bilancio che su quello normativo attraverso la regolamentazione del capitalismo. Ciò spiega d’altra parte il ruolo dell’alta funzione pubblica, autoproclamatasi «partito della riforma» nella trasformazione del paese fin dal secondo dopoguerra. Oggi invece, lo strumento statuale non è più altrettanto efficace che in passato. L’ambito nazionale non è più adeguato a gestire molte questioni che si sono modificate nel contesto della globalizzazione. L’ecologia, la regolamentazione dei flussi finanziari e commerciali, la politica economica e addirittura la difesa e le relazioni diplomatiche non possono più essere delimitate all’interno dei confini di un solo paese. Il contesto deve essere prima di tutto l’Europa, poiché è solo l’Europa che ci assicura la massa critica indispensabile per contare nelle questioni internazionali. Lo strumento europeo sembra essere sempre più appesantito e meno maneggevole, come dimostrano le istituzioni comunitarie complicate dal triangolo di potere tra il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo, la cui capacità istituzionale è limitata dalla regola dell’unanimità e dalle pratiche intergovernative, e la cui legittimità politica è indebolita dall’allontanamento dai cittadini. Ma cerchiamo di non cadere in errore: la politicizzazione progressiva delle istituzioni europee è ineluttabile. Il «metodo Monnet» ha privilegiato la costruzione tecnocratica per aggirare le opposizioni politiche nazionali che avevano pregiudicato la difesa comune europea. E tuttavia, se alcune competenze sovrane essenziali sono state trasferite all’Unione europea, le stesse competenze devono ora essere esercitate attraverso un sistema istituzionale politicamente responsabile. Questa politicizzazione è in corso in questo momento nel quadro della Convenzione sul futuro dell’Europa che traccerà i confini di domani, ridefinirà le istituzioni europee, il progetto politico e il ruolo dell’Europa sulla scena internazionale. La nuova realtà europea è un elemento essenziale per la socialdemocrazia. E ciò è particolarmente vero per i socialisti francesi. Poiché per noi è essenziale abbandonare la convinzione di avere sempre ragione, dobbiamo cercare di convincerci che è necessario accettare il compromesso. Oppure ci condanneremo al «socialismo in un solo paese». E non è questo che vogliamo perché è per il socialismo europeo che dobbiamo militare.

Cari Giuliano e Massimo, se sono del tutto d’accordo con la vostra analisi, le vostre conclusioni mi lasciano però alcune perplessità. Voi proponete una «casa comune» per tutti i riformismi europei. Questa casa comune dovrebbe riunire i socialisti, gli ecologisti, i «cristiano-democratici la cui appartenenza al PPE diventa sempre più difficile». A me sembra che la vostra proposta sia azzardata, o almeno molto prematura sul piano ideologico. Perché credo che prima di progettare l’apertura a nuove famiglie di pensiero, sia necessario ridefinire la nostra. Ritengo quindi che la priorità vada data alla ridefinizione della nostra visione socialdemocratica alla quale, ed è la critica minima che si possa farle, manca chiarezza. Per farlo è necessario un lavoro profondo e costante. Dobbiamo restaurare il contatto con la base, ascoltare i nostri militanti. Dobbiamo uscire dalla cerchia politica chiusa ed avvicinarci alle forze vive della società civile: gli intellettuali, il mondo dell’impresa, le associazioni. Dobbiamo fermarci a riflettere.

La vostra idea di casa comune non mi sembra prioritaria neppure sul piano politico. La prima questione da affrontare non è allargare il PSE, ma quella di farne dalla base ai vertici un vero partito dei socialisti europei. Il PSE non è ancora un partito politico, ma deve diventarlo e contribuire così alla strutturazione dello spazio politico europeo. Solo allora si potranno prendere in considerazione nuove alleanze. Una casa comune mi sembra incompatibile con la realtà delle situazioni nazionali, o forse troppo segnata dall’esperienza italiana. La prospettiva di una coalizione che si estenda dai socialisti ai cristianodemocratici e ai liberali moderati ha certamente un senso nel contesto italiano. Ma l’Ulivo non può essere trapiantato nel paesaggio politico francese poiché fra il Partito socialista e l’UDF, per non pensare ai liberali come Alain Madelin, può esserci sì dialogo ma le culture politiche non sono conciliabili. E i socialisti francesi non possono né vogliono correre rischi con i loro partner a sinistra: Robert Hue non è certamente Fausto Bertinotti! Una italianizzazione del paesaggio politico europeo non mi sembra quindi un’ipotesi realistica. In risposta alla vostra casa comune credo che si debba forgiare un cuore comune dei socialdemocratici intorno al PSE, ma che si debba anche lasciare che le alleanze si aggreghino a livello nazionale in funzione delle diverse culture politiche nazionali. Poiché questo è un soggetto a cui si deve applicare la sussidiarietà. Sono questi, cari Giuliano e Massimo, gli elementi con cui mi auguro di poter contribuire alla vostra lettera aperta. Costruiamo la nostra casa comune, il PSE, perché ancora non esiste! Poi decideremo noi, insieme, a chi vorremo aprire la porta. È certamente più sicuro ed efficace che ricevere degli invitati in una casa ancora senza muri…