Quanto ci conviene elettoralmente un Berlusconi demonizzato?

Di Paolo Segatti e Hans M. A. Schadee Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

L’interrogativo posto dal titolo suggerisce, per effetto del soggetto chiamato in causa, diversi piani di riflessione e suscita sentimenti inevitabilmente intensi. Qui vorremmo riflettere solo su un aspetto, quello relativo alla convenienza elettorale. Per questo la domanda andrebbe riformulata in un’altra meno coinvolgente, ma forse più utile al ragionamento che vorremo fare. Quali sono gli effetti sugli elettori di una campagna elettorale negativa, una campagna nella quale una parte (o tutte e due) non si limita a promuovere le proprie posizioni politiche e a criticare quelle dell’avversario, ma cerca di mettere in cattiva luce presso gli elettori comportamenti, scelte, tratti della personalità di quest’ultimo, indipendentemente dal fatto che siano effettivamente riprovevoli o meno?

 

L’interrogativo posto dal titolo suggerisce, per effetto del soggetto chiamato in causa, diversi piani di riflessione e suscita sentimenti inevitabilmente intensi. Qui vorremmo riflettere solo su un aspetto, quello relativo alla convenienza elettorale. Per questo la domanda andrebbe riformulata in un’altra meno coinvolgente, ma forse più utile al ragionamento che vorremo fare. Quali sono gli effetti sugli elettori di una campagna elettorale negativa, una campagna nella quale una parte (o tutte e due) non si limita a promuovere le proprie posizioni politiche e a criticare quelle dell’avversario, ma cerca di mettere in cattiva luce presso gli elettori comportamenti, scelte, tratti della personalità di quest’ultimo, indipendentemente dal fatto che siano effettivamente riprovevoli o meno? Attorno a questo problema è in atto da tempo una discussione che riguarda alcuni aspetti dell’ultima campagna elettorale. Berlusconi, per esempio, dopo un anno dalle elezioni, ha sostenuto pubblicamente di essere stato defraudato di milioni di voti a causa degli attacchi da lui subiti nella campagna elettorale da alcune trasmissioni televisive RAI. All’estremo opposto, una parte degli sconfitti in più occasioni ha affermato che il merito di avere ridotto le dimensioni della sconfitta del centrosinistra nel 2001 va proprio agli attacchi contro Berlusconi e agli aspetti controversi del suo passato. La tesi avanzata è molto semplice. «Demonizzare» Berlusconi ha avuto effetti efficaci e utili politicamente, perché avrebbe mobilitato quote di elettori del centrosinistra che altrimenti si sarebbero astenuti a causa della politica dei leader dell’Ulivo. Si tratta del resto di un problema che non riguarda solo l’ultima campagna elettorale. Il conflitto di interessi, che Berlusconi non pare intenzionato a risolvere in modo chiaro, alimenta un clima di sospetto che ovviamente è terreno fertile per una comunicazione politica di tipo negativo. Sugli effetti della quale esiste, per altro, una singolare concordanza di opinioni su quanto è accaduto nella scorsa campagna elettorale. Berlusconi lamenta la mancata conquista di voti. Una parte dei sostenitori dell’Ulivo esulta per avere ridotto le perdite. Ambedue concordano che un attacco duro, che discredita l’avversario, paga. Cosa c’è di vero? Come sempre accade per tante opinioni diffuse tra il pubblico, in questa tesi ci sono aspetti confermati da varie ricerche, altri che non lo sono e altri ancora di cui non si può avere un riscontro empirico, semplicemente perché mancano i dati per farlo. Analizziamo nel dettaglio, iniziando dall’aspetto non controverso.

All’indomani delle elezioni del 2001 alcuni studiosi1 hanno attirato subito l’attenzione sul fatto che le elezioni del 2001 si erano trasformate in una sorta di referendum pro o contro Berlusconi. Naturalmente non è vero che il voto al centrosinistra fosse solo un voto contro, né che il voto al centrodestra fosse esclusivamente un voto per Berlusconi. Ma è indubbio che il giudizio sul leader di Forza Italia è stato un fattore decisivo nella scelta di voto. Perché è accaduto? Anzitutto perché nel bipolarismo di coalizione che è emerso negli anni Novanta, per moltissimi elettori esprimere un giudizio sui leader di schieramento tende a coincidere con il voto. E questo accade a prescindere delle strategie comunicative (certamente rilevanti) di questa o quella parte durante la campagna elettorale. Come hanno mostrato Sani e Legnante, vi è stata un’enorme concentrazione comunicativa su Berlusconi, ma anche su Rutelli, mentre gli altri leader sono stati molto meno al centro dei riflettori.2 Per alcuni osservatori, tuttavia, queste spiegazioni non sono sufficienti. Secondo loro le ultime elezioni si sono trasformate in un referendum su Berlusconi anche per effetto di alcune trasmissioni televisive. Su questa tesi, purtroppo, c’è ben poco da dire. Abbiamo alcune interessanti ipotesi, come quella avanzata da Ricolfi che attribuisce proprio alle tre trasmissioni televisive e all’eco degli articoli anti-Berlusconi del settimanale «Economist» la crescita di consensi all’Ulivo che si è verificata nella fase finale della campagna elettorale. Naturalmente (e ammesso e non concesso che tutte quelle trasmissioni avessero contenuti negativi) è possibile che questi eventi comunicativi abbiano avuto un qualche ruolo, ma a nostro giudizio non ci sono ancora dati sufficienti per provarlo. Siamo però in grado di esaminare se il cambiamento a livello individuale del giudizio su Berlusconi verificatosi durante la campagna elettorale ha influenzato la decisione di voto o di non voto. In linea di principio, il giudizio su Berlusconi dovrebbe essere l’anello di congiunzione tra l’informazione elettorale e la scelta di voto. Per questa ragione, anche se non possiamo provare che l’informazione contenuta in quelle trasmissioni televisive abbia determinato il cambiamento in peggio del giudizio su Berlusconi, siamo in grado di valutare quali sono stati gli effetti di quest’ultimo sulla scelta di voto. Possiamo quindi rispondere all’interrogativo centrale posto del nostro problema: gli effetti prevalenti di quei messaggi sono stati di mobilitazione a vantaggio dell’Ulivo, come anche Ricolfi adombra, oppure al contrario di smobilitazione?

Per quanto appaia stravagante a molti, l’ipotesi che gli effetti delle campagne «negative» possano essere di smobilitazione non è affatto peregrina, ma è al centro della ricerca scientifica internazionale. Possiamo riassumere i risultati sin qui raggiunti in tre punti: la natura degli effetti dei messaggi negativi, la misura dell’efficacia di tali effetti, il tipo di elettori sui quali i messaggi elettorali in genere hanno più successo. Quanto al primo aspetto, la discussione in tempi recenti è iniziata con un intervento di due studiosi americani, Ansolabehere e Iyengar, secondo i quali una campagna elettorale negativa avrebbe l’effetto di polarizzare gli elettori già convinti e di smobilitare, cioè indurli a non votare, quelli indecisi o pencolanti tra i due candidati.3 La tesi dei due studiosi è che i messaggi negativi determinano in questo particolare segmento di elettorato un aumento della sfiducia nella politica in generale. Queste conclusioni sono state criticate di recente da altri studiosi americani ai quali i due ricercatori hanno replicato riconfermando la loro teoria. Altri lavori, su diverse campagne senatoriali, hanno per altro confermato che i messaggi negativi, se eccessivi o implausibili, spingerebbero gli elettori verso il non voto.4 Sanders e Norris, in uno studio sulla recente campagna elettorale britannica del 2001 sono giunti a conclusioni in parte simili a quelle di Iyengar e Ansolabehere. In particolare, hanno mostrato che in quella campagna elettorale la strategia di attaccare con messaggi negativi non avrebbe convinto gli elettori della parte avversa a modificare il proprio voto. Essi concludono la loro analisi affermando che «gli elettori sembrano rispondere ai messaggi denigratori aumentando il loro sostegno ai bersagli dell’attacco piuttosto che alla fonte da cui giunge l’attacco».5 Quanto al secondo aspetto, un’analisi secondaria dei risultati di molte ricerche condotte negli anni Novanta mette in dubbio l’idea che i messaggi negativi sarebbero più efficaci di quelli positivi. La tesi che i messaggi denigratori tenderebbero a ridurre il livello di partecipazione non sarebbe sbagliata in sé come alcuni sostengono, ma darebbe troppo peso ad effetti che sarebbero in realtà molto limitati.6 Per quanto riguarda il terzo aspetto vi è una generale convergenza tra gli studiosi. Gli effetti, sia positivi che negativi, di una campagna elettorale sono più efficaci tra gli elettori meno informati, più lontani dalla politica e quindi anche quelli che rimangono indecisi durante la campagna elettorale. Chi è interessato a ragionare sugli effetti di una comunicazione denigratoria, dovrebbe esaminare il comportamento degli elettori che rimangono indecisi durante la campagna elettorale e non limitarsi a considerare l’elettorato nel suo insieme. Già questa succinta rassegna del dibattito internazionale dovrebbe metterci in guardia da interpretazioni semplicistiche di quanto è accaduto nella campagna del 2001. Il quadro che esce da questi studi è variegato, anche se ci consente di fissare due punti importanti. È possibile che gli effetti dei messaggi negativi non siano grandi e, secondariamente, che, essi vadano nella direzione di ridurre la partecipazione degli elettori indecisi e comunque non favorire la fonte del messaggio denigratorio.

Torniamo ora al nostro problema. I dati che presentiamo in questo contributo ci permettono di osservare due suoi aspetti.7 Possiamo ricostruire sul piano individuale l’andamento dei consensi alle due coalizioni durante i sei mesi precedenti le elezioni del 2001 e quindi individuare diverse modalità individuali di coinvolgimento nella campagna elettorale. In questo modo è possibile chiarire meglio l’estensione e la complessità del fenomeno dell’indecisione di voto. Inoltre siamo in grado di valutare quali sono stati gli effetti del cambiamento del giudizio sull’immagine di Berlusconi (e di altri leader del centrosinistra), nel periodo intercorso da novembre 2000 a pochi giorni prima delle elezioni, sulla decisione di voto o di non voto. In altre parole, non potendo risalire alle cause che hanno influenzato il cambiamento di giudizio sui leader, abbiamo assunto, nella nostra analisi, questo fattore come la variabile che presumibilmente ha collegato quelli alla decisione finale di voto o di non voto.

 

La mobilità delle intenzioni di voto dal novembre 2000 al maggio 2001

Sani e Natale hanno mostrato come nell’ultima campagna elettorale l’andamento aggregato delle intenzioni di voto ancora una volta è stato complessivamente piatto.8 Nell’ultima parte della campagna vi è stato però un recupero di consensi da parte dell’Ulivo. In un nostro lavoro appena pubblicato nel volume, «Le ragioni dell’elettore» a cura di M. Caciagli e P. Corbetta dal quale abbiamo ripreso alcuni dati qui presentati, abbiamo potuto ricostruire l’andamento della mobilità individuale delle intenzioni di voto tra le due coalizioni e fra queste e la vasta area di chi dichiara di non sapere per chi votare o di non voler votare.9 Le nostre conclusioni convergono con il lavoro di Sani e Natale e con quello di altri studiosi che hanno parlato di un recupero dell’Ulivo nelle ultime settimane di aprile. Tuttavia, poiché gli scambi diretti tra le due colazioni sono stati molto modesti e di eguale livello, il recupero del centrosinistra sarebbe il risultato dei flussi intercorsi tra l’area delle intenzioni espresse e quella composta da chi dice di non sapere per chi votare o che avrebbe intenzione di non votare, flussi per altro in ambedue le direzioni sia di mobilitazione che di smobilitazione. Se confrontiamo la mobilità in entrata e quella in uscita tra l’area del voto e quella del non voto o della reticenza, fra la prima rilevazione pre-elettorale (novembre 2000) e quella post-elettorale (maggio 2001), possiamo quantificare il saldo finale dell’Ulivo in un + 5%. Un fenomeno simile ha per altro interessato anche la Casa delle Libertà, solo che il suo saldo finale è di + 4%. La nostra analisi ci conduce a sottolineare tre cose. Anzitutto che più o meno a ridosso degli eventi comunicativi più infuocati qualcosa si è mosso nelle intenzioni di voto. Il movimento però non è stato solo di mobilitazione ma anche di smobilitazione. E anche quest’ultimo fenomeno va spiegato. Infine il guadagno finale netto dell’Ulivo rispetto a quello della Casa delle Libertà sarebbe stato tutto sommato modesto, solo un punto in percentuale in più.10

Nello stesso lavoro abbiamo anche cercato di ricostruire i percorsi delle intenzioni di voto di ogni singolo intervistato lungo l’arco di sei mesi. In questo modo abbiamo potuto osservare quanti dichiarano sempre la stessa preferenza di voto, quanti sono quelli che combinano l’espressione di una precisa intenzione di voto con una dichiarazione di non voto o di indecisione, il numero di quelli che oscillano tra le diverse opzioni di risposta previste dalle domande degli intervistatori e quello di chi si mantiene fedele ad uno stretto riserbo. I risultati di questa analisi hanno prodotto una interessante tipologia di percorsi delle intenzioni di voto che riproduciamo nella tabella 1.

 

Tabella 1

Tipologia della mobilità elettorale tra il novembre 2000 e il maggio 2001 basata sulle risposte a nove rilevazioni pre-elettorali

 

 Costanti centrosinistra

 (sempre per il centrosinistra)

 15,9

 Costanti centrodestra

 (sempre per il centrodestra) 19,5

 Propensi centrosinistra

 (centrosinistra/non sa/non risponde/non voterà) 13,2

 Propensi centrodestra

 (centrodestra/non sa/non risponde/ non voterà) 12,9

 Indecisi tra due coalizioni

 (cen-sin/cen-des/non sa/non risponde/non voterà)

 7,1

 Propensi a non votare

  (non sa/non risponde/non voterà) 23,6

 Indecisi a tutto campo

  (non sa/non risponde/non voterà/cen-sin/cen-des/altri) 7,8

 (N)

  (6265)
 

I dati mostrano che esiste uno zoccolo duro di elettori che sin dall’inizio hanno le idee chiare su chi votare e non si spostano dalle loro convinzioni. Esistono poi segmenti di elettori che sembrano patire tipi diversi di indecisione. Vi sono coloro che oscillano tra una intenzione di voto e una di non voto o di reticenza. L’indecisione di questi elettori pare, dunque, dipendere più dalla lentezza o ritrosia con cui dichiarano le loro preferenze di voto che da un’assenza di queste. Vi sono poi coloro che oscillano tra le due coalizioni o tra queste e l’area della reticenza o del probabile non voto. A fianco di questi vi è lo zoccolo altrettanto duro dei reticenti. Ed è in questi segmenti che incontriamo l’indecisione da assenza di predisposizioni politiche marcate. Tutti questi diversi percorsi hanno un esito diverso quanto alla certezza di voto per l’una e l’altra coalizione, mentre il rendimento dell’una è speculare a quello dell’altra, come può rendersi conto chi ha la pazienza di leggere il nostro contributo nel volume prima citato.11 Qui vogliamo solo sottolineare come tra coloro che esprimono costantemente la stessa intenzione di voto la probabilità di non votare è minima, mentre tra gli altri tipi di elettori è elevata, dal momento che oltre a un terzo di tutti gli indecisi a vario titolo ha dichiarato di non avere votato. È dunque in questo segmento di indecisi che si gioca la partita della comunicazione elettorale, sia di quella positiva che di quella negativa. A noi interessa quest’ultima. Purtroppo però, come già sottolineato, non abbiamo dati che ci dicano cosa hanno visto questi intervistati durante la scorsa campagna elettorale. Ma possiamo valutare quali sono stati, in questo segmento cruciale di elettori, gli effetti del cambiamento di giudizio su Berlusconi sulla loro decisione di voto o di non voto.

 

Come votano gli indecisi che hanno modificato in peggio il giudizio su Berlusconi?

A giudicare dal confronto tra il giudizio dato dagli intervistati nel novembre 2000 e quello ripetuto nel maggio 2001 l’immagine di Berlusconi non sembra avere subito grandi cambiamenti, né in meglio né in peggio. Vi è una grande stabilità. Chi assegnava un certo punteggio a Berlusconi nel novembre 2000 ha riconfermato sei mesi dopo lo stesso punteggio. I cambiamenti più frequenti riflettono spostamenti da uno a tre punti nell’arco di un punteggio che va da 1 a 10. Poca cosa dunque, ma non priva di conseguenze, come si può vedere dalla figura 1.

 

Figura 1

 

Nella figura 1 mostriamo quali sono, tra gli indecisi, le percentuali di voto alle due principali coalizioni e di non voto o voto alle formazioni minori secondo il cambiamento in peggio o meno del giudizio su Berlusconi.12 Se confrontiamo i dati relativi a chi ha cambiato in peggio il giudizio su Berlusconi con quelli relativi a coloro che non hanno modificato la loro opinione sul leader di Forza Italia, possiamo osservare che tra i primi la percentuale di voto per l’Ulivo e la Casa delle libertà «scende», mentre «sale» la percentuale di non voto o voto per le formazioni minori. Le conclusioni che i dati suggeriscono sono semplici e chiare. Se fossimo sicuri che il cambiamento di giudizio su Berlusconi è dipeso dai messaggi televisivi di cui si è parlato, dovremmo allora concludere che i loro effetti hanno favorito l’astensione e il voto per le formazioni minori. Contrariamente all’opinione condivisa da molti, l’Ulivo è stato dunque danneggiato, come lo è stato anche il centrodestra, anche se, in tutti e due i casi, i danni non sono grandi. Perché si è verificato questo effetto che a molti lettori potrà sembrare forse paradossale e certamente contro-intuitivo? Ansolabehere e Iyengar dicono che gli elettori indecisi esposti a messaggi negativi tendono a non votare, perché perdono fiducia nella politica in quanto tale. Non possiamo testare sino in fondo questa tesi, ma i nostri dati mostrano un fenomeno che va nella stessa direzione.

 

Figura 2

 

N.B. I valori indicano il cambiamento medio a livello individuale tra i giudizi su un gruppo di leader di centrosinistra espressi nella settimana prima delle elezioni e i giudizi sullo stesso gruppo di leader espressi nel novembre 2000.

La figura 2 suggerisce che coloro che hanno cambiato in peggio il loro giudizio su Berlusconi hanno anche modificato in peggio il giudizio sui più importanti leader di centrosinistra. Infatti, come si può vedere, tra coloro che hanno peggiorato la loro opinione su Berlusconi, il cambiamento medio tra il giudizio espresso su un gruppo di leader di centrosinistra una settimana prima del voto e quello espresso sullo stesso gruppo nel novembre 2000 ha un valore negativo. L’andamento è lo stesso, con piccole differenze, per tutti gli elettori. Anche in questo caso le dimensioni del fenomeno non sono grandi, anche se sono significative. Il che vuole dire che qualunque sia stata la causa del cambiamento in peggio del giudizio su Berlusconi essa ha probabilmente attivato anche una sorta di distacco emotivo dalla politica e dai suoi principali attori, o almeno dalle opzioni politiche offerte dalle due coalizioni principali.

Questi risultati non vanno presi come oro colato. Sono evidenti i loro limiti. Tuttavia essi fanno intravedere una realtà più complicata delle tesi che si sono sentite in questi mesi sulla campagna elettorale. Se non altro, essi dovrebbero suggerire maggiore cautela a chi sostiene che sia sempre e comunque elettoralmente remunerativo attaccare un personaggio come Berlusconi. Il fatto è che esistono elettori che magari sono disposti ad accettare che Berlusconi non sia la figura immacolata che alcuni ritengono sia, ma ciò non sembra loro un buon motivo per credere che lo siano anche gli altri leader politici. Questo accade perché la ricezione dei messaggi comunicativi è profondamente influenzata dalle caratteristiche e dagli atteggiamenti degli elettori, tra i quali cruciale al riguardo è il loro elevato livello di cinismo e di disaffezione dalla politica.13 Un’informazione che nelle intenzioni di chi la comunica dovrebbe essere di denuncia puntuale di un crimine individuale rischia di essere intesa come l’ennesima prova che tutta la categoria cui appartiene l’accusato è, più o meno, incline agli stessi misfatti. Ciò è un bel problema. I sentimenti che tanti italiani nutrono nei confronti della politica sono stati una delle condizioni che hanno favorito la nascita del fenomeno Berlusconi. Forse, ora, quegli stessi sentimenti gli fanno anche da paracadute, rendendo ambigua e incontrollabile la comunicazione di massa che adotta al suo riguardo toni e contenuti negativi.

 

Bibliografia

1 Itanes, Perché ha vinto Berlusconi?, Il Mulino, Bologna 2001; R. Mannheimer, Le elezioni del 2001 e la mobilitazione drammatizzante, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», 3/2001; L. Ricolfi, L’effetto D. sulla cosiddetta demonizzazione, in L. Ricolfi e S. Testa (a cura di), Che cosa è successo il 13 maggio? Dati e analisi sulle elezioni politiche del 2001, mimeo, Torino; G. Sani, Il fattore B, in M. Caciagli e P. Corbetta (a cura di), Le ragioni dell’elettore, Il Mulino, Bologna 2003.

2 G. Legnante e G. Sani, La campagna più lunga, in R. D’Alimonte e S. Bartolini (a cura di), Maggioritario finalmente, Il Mulino, Bologna 2002.

3 S. Ansolabehere e S. Iyengar, Going Negative: How Attack Ads Shrink and Polarize the Electorate, The Free Press, New York 1995.

4 Cfr. contributi di M. Wattemberg e C.L. Brians, di S. Ansolabehere, S. Iyengar e A. Simom, K.F. Kahn, P.J. Kenney in «American Political Science Review», 4/1999.

5 D. Sanders e P. Norris, Advocacy versus Attack: The impact of Political Advertising in 2001 UK General Election, paper presentato al workshop ECPR su «Media e Democrazia», Torino 2002, p. 16.

6 R. Lau, L. Sigelmann, C. Heldman, P. Babbit, The Effects of Negative Political Advertising: a metaanalytic assessment, in «Americal Political Science Review», 3/1999. Si veda anche l’utile rassegna di M. Barisione, Gli effetti delle comunicazioni politiche di massa sul voto: un panorama delle ricerche, in G. Sani (a cura di), Mass media ed elezioni, Il Mulino, Bologna 2001.

7 I dati sui quali abbiamo lavorato provengono dal panel Cra-Nielse Ispo. Il panel è costituito da interviste ripetute nel tempo a degli stessi individui facenti parte di un campione rappresentativo. In particolare, il nostro studio riguarda dieci ondate di interviste, dal novembre 2000 al maggio 2001, di cui nove pre-elettorali e una post-elettorale. Ringraziamo Renato Mannheimer per la sua generosità nel consentirci di esaminare questi dati.

8 G. Sani e P. Natale, Calma piatta o rush finale?, Pubblicazioni del Dipartimento di Studi politici e sociali, Università di Pavia, Pavia 2001.

9 Rimandiamo il lettore interessato ad un’analisi più estesa a H.M.A. Schadee e P. Segatti, Gli effetti di una campagna lunga, in M. Caciagli e P. Corbetta (a cura di), Le ragioni dell’elettore, op. cit.

10 Il fatto che il saldo tra mobilitazione e smobilitazione abbia dimensioni abbastanza simili tra il centrosinistra e il centrodestra è una conferma che nell’area dell’astensione effettiva e potenziale convivono, senza grandi differenze, vari orientamenti. Non è dunque vero che gli astensionisti siano prevalentemente di sinistra. Su questo punto si veda anche R. Mannheimer e G. Sani, La conquista degli astenuti, Il Mulino, Bologna 2000 e G. Legnante e P. Segatti, L’astensionista intermittente, in «Polis», 3/2001.

11 Per esempio, il 90% di quelli che abbiamo chiamato «costanti» di centrosinistra ha poi votato per il centrosinistra e altrettanto hanno fatto i «costanti» di centrodestra.

12 A causa della limitata numerosità dei casi, abbiamo incluso nella stessa categoria sia gli intervistati che hanno dichiarato di non avere votato, sia quelli che hanno detto di avere votato per le formazioni minori. Perciò da qui in avanti, quando parliamo di smobilitazione intendiamo sia la scelta di non votare sia quella di votare per le formazioni minori, definiti gli Altri. Per rendere più chiara la presentazione abbiamo escluso dalle due figure i valori relativi a chi migliora il proprio giudizio su Berlusconi. Chi fosse curioso di esaminarli, li trova nel volume che abbiamo citato.

13 Si veda a questo proposito G. Pasquino, Una cultura poco civica, in M. Caciagli e P. Corbetta (a cura di), Le ragioni dell’elettore, op. cit.