L'ascensione del proletariato. A proposito di Claudio Treves e del socialismo riformista

Di Federico Fornaro Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

Settanta anni orsono, l’11 giugno 1933, per un triste scherzo del destino un’ora dopo aver commemorato Giacomo Matteotti, moriva a Parigi all’età di sessantaquattro anni, Claudio Treves. A poco più di un anno di distanza dalla scomparsa di Filippo Turati, il socialismo italiano e l’Internazionale socialista perdevano una delle loro figure più rappresentative, un coerente riformista e un polemista di razza. Sul giornale di cui era direttore, «La Libertà», il settimanale della Concentrazione Antifascista, Giuseppe Saragat gli dedicò un appassionato ricordo tratteggiando i contorni di uomo con «Una vita interiore intensissima, che un’aristocratica finezza morale dissimula: un’eloquenza appassionata che attinge talvolta la potenza delle invettive profetiche; una coscienza temprata all’ascetica disciplina del dovere, una penna indomabile sono le sue armi».

 

Settanta anni orsono, l’11 giugno 1933, per un triste scherzo del destino un’ora dopo aver commemorato Giacomo Matteotti, moriva a Parigi all’età di sessantaquattro anni, Claudio Treves. A poco più di un anno di distanza dalla scomparsa di Filippo Turati, il socialismo italiano e l’Internazionale socialista perdevano una delle loro figure più rappresentative, un coerente riformista e un polemista di razza. Sul giornale di cui era direttore, «La Libertà», il settimanale della Concentrazione Antifascista, Giuseppe Saragat gli dedicò un appassionato ricordo tratteggiando i contorni di uomo con «Una vita interiore intensissima, che un’aristocratica finezza morale dissimula: un’eloquenza appassionata che attinge talvolta la potenza delle invettive profetiche; una coscienza temprata all’ascetica disciplina del dovere, una penna indomabile sono le sue armi».1

Nella storiografia socialista, la figura di Treves ha finito, però, per essere schiacciata dalla personalità di Turati, con il risultato di far passare ingiustamente in secondo piano il suo contributo originale nell’elaborazione della proposta politica e programmatica del riformismo italiano. Treves aveva aderito al PSLI, poi PSI fin dalla sua costituzione, nel 1892. Dopo aver diretto dal 1896 al 1898 «Il Grido del Popolo», il settimanale dei socialisti torinesi, si trasferì a Milano, dove strinse un sodalizio umano e politico con Filippo Turati destinato a durare un’intera vita. Pochi anni dopo averlo conosciuto ed apprezzato, lo stesso Turati, su «Critica Sociale», scrisse di lui che «Il Treves è una mente poliedrica e critica, naturalmente adattissima alle sane ribellioni non conformiste (…). Egli possiede, oltracciò, una forza speciale, che non è di tutti, che anzi, in quella stessa misura, è di pochissimi: una certa sorridente e quasi scettica indifferenza a ciò che altri può dire o inferire dalle sue opinioni, che sembra apatia, ed è equilibrio morale».2 Nel capoluogo lombardo, dal 1902 fino al 1910 diresse il quotidiano «Il Tempo», che divenne ben presto l’organo di stampa del socialismo riformista. Fu tra i principali fautori del dialogo con Giolitti che definì, con brillante sintesi, come «un uomo che ci ha capito. L’uomo può essere simpatico o antipatico, inspirare fiducia o diffidenza, può essere un furbo o un ingenuo; il movimento di ricomposizione dei partiti può averlo favorevole o contrario, alla testa od alla coda, tutte queste sono singolarità accidentali: l’importante che l’uomo abbia capito».3

Eletto per la prima volta deputato a Milano nel 1906, Treves, nel rispetto della tradizione che voleva in quella posizione l’esponente più rappresentativo della corrente maggioritaria, assunse nel 1910 la direzione de «L’Avanti!», che divenne a poco a poco sotto la sua guida uno dei migliori giornali italiani dell’epoca.4 Incarico che fu costretto ad abbandonare – gli subentrerà Benito Mussolini – dopo l’ascesa al potere nel partito dell’ala rivoluzionaria, una vittoria che coincise con la contemporanea espulsione, nel congresso di Reggio Emilia (1912) degli ultra-riformisti capitanati da Bissolati, Bonomi e Cabrini. Fu tra i primi socialisti a cogliere la pericolosità del nascente nazionalismo, indicando nelle velleità espansioniste, che culminarono nella guerra di Libia (1911), un vero e proprio attentato al progresso materiale e intellettuale del Paese. Treves si trovò ben presto a combattere una dura battaglia su diversi fronti: contro l’estremismo rivoluzionario – rimase famosa la sua dura critica alla «teppa» durante le agitazioni popolari della «settimana rossa» del 1914, unita all’esortazione a non cadere nel tranello delle provocazioni tese dalla borghesia, lasciando troppo spazio ad un’irrazionale esplosione della rabbia popolare –, ma anche in difesa della neutralità italiana di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, in coerenza con la tradizione internazionalista e antimilitarista del socialismo italiano. Nel 1917, dopo la sconfitta di Caporetto, in un discorso alla Camera che gli costò la dura reprimenda della maggioranza del PSI, egli, in piena sintonia con Turati, non esitò ad affermare che il proletariato dovesse difendere la patria, quando era in gioco l’indipendenza nazionale. Anche dopo la rivoluzione russa, Treves rimase fermo nella convinzione che la conquista del potere da parte delle organizzazioni del proletariato passasse per una massiccia educazione delle masse ed un’entrata a pieno titolo dei socialisti nelle istituzioni.

Nella tragica stagione delle scissioni (Livorno, gennaio 1921) e delle espulsioni (Roma, ottobre 1922), Treves restò fedele alla corrente minoritaria di «Critica Sociale», fedele interprete del riformismo. L’articolo che riproponiamo, «Dopo il Congresso della scissione», fu pubblicato proprio sulla rivista milanese all’indomani della cacciata dei riformisti dal Partito socialista ad opera dei massimalisti guidati da Serrati.5 In esso ritroviamo l’orgogliosa difesa dei tratti fondativi della cultura politica riformista, di un socialismo legalitario nemico della sterile violenza rivoluzionaria, che si pone l’ambizioso obiettivo di parlare non soltanto al proletariato, ma anche a quei ceti medi, che gli errori dei massimalisti stavano tristemente gettando «nelle braccia del nemico», ovvero del fascismo. Egli rivendica anche il carattere di scissione e non già di espulsione di quanto era accaduto al Congresso di Roma dell’1-4 ottobre 1922, indicando nel PSU, il partito appena costituito dai riformisti, segretario Giacomo Matteotti, l’erede legittimo della tradizione socialista, in contrapposizione ad un PSI massimalista, sempre più legato alle direttive impartite dall’Internazionale comunista. Nonostante la ferita fosse ancora fresca, Treves, però, ricorda ai compagni di un tempo, sia ai massimalisti che ai comunisti, l’importanza dell’unità nelle organizzazioni della sinistra (sindacato e cooperative) nella difficile lotta contro il fascismo: Mussolini di lì a pochi giorni avrebbe celebrato il suo trionfo con la «marcia su Roma». Quella di Treves è un’analisi lucida e non rancorosa delle ragioni ideali e politiche delle divisioni esistenti nella sinistra, che vedevano i riformisti ancorati ad una visione progressiva di quella che egli definisce, con una immagine quasi mistica, l’«ascensione del proletariato». Un obiettivo, da conquistarsi giorno dopo giorno, che non poteva – a suo giudizio – essere raggiunto attraverso le scorciatoie violente proposte dagli pseudo-rivoluzionari italiani, ma proseguendo con ferma e costante determinazione sulla «via maestra» dell’organizzazione e dell’educazione delle masse: un socialismo gradualista, riformista, che non rinnega però in alcun modo il marxismo, pur lasciando su di uno sfondo atemporale la trasformazione socialista della società italiana. Costretto ad emigrare, nel novembre 1926, Treves si trasferì a Parigi, dove divenne ben presto una delle figure più rappresentative non solo degli esuli socialisti, ma dell’intero schieramento antifascista. Dalle colonne de «La Libertà» diede un fondamentale contributo sia alla attività di propaganda tra gli emigranti in terra di Francia che alla non facile azione di convincimento dell’opinione pubblica internazionale sui gravi pericoli di «contagio» dell’avventura fascista, che nella sua prima fase era visto fuori dai confini italiani come un fenomeno autoctono, non esportabile nel vecchio continente. Fu tra i fautori della riunificazione dei due tronconi del socialismo (Parigi, 1930), trovando il modo anche per polemizzare, insieme con Saragat, contro le tesi eterodosse espresse da Carlo Rosselli nel suo Socialismo Liberale.

 

Claudio Treves

Dopo il Congresso della scissione

Il sacrificio è compiuto. La vecchia casa si è divisa. Forse era giusto anche se il partire fu doloroso; la vecchia casa non conteneva più i suoi figlioli che erano cresciuti troppo e non più si intendevano. Non rammarichiamo; non accusiamo. Non cerchiamo quanto sia amaro ed improvvido scegliere proprio cotesto tempo, che i nemici sono più accaniti sopra di noi, per dare loro gloria incomposta di questo trionfo: la nostra divisione. Constatiamo – senza ombra di rimprovero – l’inesorabile mandato e la fredda decisione nel compirlo, onde una frazione alle dirette dipendenze di Mosca impose il fatto che si è compiuto (…). I comunisti coi comunisti; i socialisti con i socialisti. Il taglio lascia da una parte il programma socialista del Congresso fondatore di Genova (1892) e dall’altra le sovrapposizioni comuniste di Bologna,6 preludio della costituzione del Partito comunista. Se la divisione ci ha indebolito, nessun dubbio però che abbia portato tra noi della chiarezza. Il manifesto del nostro partito – il Partito socialista italiano unitario – illustra ampiamente il fondo del contrasto, l’antagonismo tra il metodo democratico del socialismo e il metodo dittatorio del comunismo. Il comunismo ama rappresentarsi a se stesso come un esercito in marcia verso una battaglia definitiva ed assume spiriti e disciplina di guerra (…). Quanto a noi socialisti, che riprendiamo dopo le fluttuazioni socialcomuniste, la via maestra del socialismo per continuare la politica di progressiva ascensione del proletariato attraverso la propaganda, l’educazione – politica sindacale, cooperativa, intellettuale e morale – della classe lavoratrice; i metodi gerarchici e assolutistici del militarismo, rivoluzionario quanto si vuole, ci sono affatto estranei, perché diametralmente opposti al fine che noi ci proponiamo. Noi abbiamo bisogno di libertà di movimento, di agnosticismo tattico e di autonomia di direzione conforme alle circostanze nostre e ai bisogni del proletariato in confronto dei nostri partiti borghesi. Noi non possiamo delegare la nostra coscienza, che è fatta del senso di responsabilità, ad altri, per quanto illustri e benemeriti della rivoluzione, ma da noi distanti e con interessi particolari importantissimi che essi debbono mandare innanzi ad ogni considerazione degli interessi dei singoli raggruppamenti nazionali del proletariato. Messa la scissione su tale terreno, non esitiamo a riconoscere che essa fosse, più che benefica, necessaria. Ma appunto noi credevamo tal terreno superato, noi avevamo diritto di credere che a Livorno fosse stata detta a riguardo l’ultima parola (…). Ciò osserviamo, come detto, senza alcuna intenzione di accusa o rampogna, ma soltanto per confermare che a Roma fu una scissione e non una espulsione, che quelli ligi ai principi ed alla tradizione socialista siamo stati noi, i destri unitari. Le pretese «deviazione collaborazioniste» nostre non furono mai deviazioni dallo spirito metodico del socialismo, ma dallo spirito metodico del comunismo. Ci hanno «espulso» come «traditori» di un programma e di un metodo che non fu mai quello del nostro partito che ha la sua costituzione autonoma (…). Il nostro metodo democratico è pieno di deferenza per le minoranze. Il nostro metodo democratico non può far a meno della discussione; esso fonda l’unità sulla collaborazione feconda dei temperamenti e delle idee diverse (…). Consci, socraticamente, di sapere questo solo, che ne sappiamo tutti troppo poco, invochiamo dal partito ricostituito, e che ha ritrovato sé stesso, la forza e l’energia di tutte le revisioni teoretiche e di tutte le azioni pratiche suggerite dall’esperienza. Ribevendo alle fonti pure del marxismo, vogliamo che il partito e tutti i singoli compagni ridiventino «coscienti», nell’alto senso marxistico della parola; scrutare, analizzare, approfondire la realtà dei rapporti tra le classi per adeguarvi i mezzi della politica proletaria, ecco il supremo compito che noi prefiggiamo al partito nell’ora presente. È compito che richiede coraggio ed alacrità, e respinge ogni viltà, ogni pigrizia. C’è una fossilizzazione «rivoluzionaria» pericolosissima, la quale noi dobbiamo fronteggiare arditamente, che consiste nel meccanizzare le formule estremiste, recando ad esse come appoggio un denominatore unico, la violenza. Il marxismo non è una dottrina francescana, ma ancor meno è il salvacondotto per tutti gli ossessi che non sanno vedere e distinguere. Il marxismo non è un soggettivismo che assolva gli sfoghi di tutti i sentimentali, di tutti i violenti. C’è da distinguere tra le dottrine della forza al servizio dei potenti al potere e le dottrine della forza al servizio dei deboli oppressi che si vogliono rivendicare a libertà. Una somma di debolezze, procedendo per le vie della norma prescritta, diventa forza, restando diritto. Guai ad equivocare su questi termini! Guai a sminuire nella coscienza degli offensori il senso dell’iniquità dell’offesa perché la possono esercitare! Guai a credere che per tal via sia armino più efficacemente gli offesi! Ogni guerra ha i suoi neutri, che sono i naturali giudici del campo. Nell’attuale crisi italiana, le classi medie, poste tra il proletariato e la reazione della plutocrazia che aizza il fascismo, sono i neutri che non bisogna cacciare nelle braccia del nemico. Il Partito socialista ha troppo trascurato i neutri; bisogna che si riconcili con loro; che, vuol dire, li converta con la sua propaganda al di là di quello che possono essere i più sordidi, i più egoistici interessi immediati (…). Il socialismo non è operaismo (…). Quanto è possibile, manteniamo salde le grandi unità politiche, le grandi unità economiche del proletariato. Ciò è necessario per tutti i compiti immanenti: la resistenza alla offensiva padronale e dei grandi intermediari contro le otto ore e le cooperative, la restaurazione delle libertà democratiche, le rivendicazioni delle grandi amministrazioni locali rapinate dalla violenza fascista con l’acquiescenza dello Stato. Ciò è necessario per la stessa incombente difesa dello Stato, in quanto sia di costituzione liberale e democratica, contro le mene, le insidie, le aggressioni e i colpi di Stato che si macchinano contro di esso, per colpire con più legittimità di movimento il proletariato. Oh! Davvero! Non siamo usciti dal Congresso di Roma e dalla costituente del PSI unificato, con principi di intransigenza, né verso la destra, né verso la sinistra. Presentiamo doveri comuni indeclinabili fra tutti gli uomini del proletariato, per tutti gli uomini di libertà, per porre in salvo alcuni elementi fondamentali della civiltà umana, che sono la premessa storica necessaria per tutte le costruzioni e rivendicazioni dell’avvenire. E sentiamo vivamente che, per tutti i socialisti che hanno senso di responsabilità, questa non è più l’ora delle polemiche intestine – ma del lavoro!

da «Critica Sociale», 16-31 ottobre 1922

 

Chi è Claudio Treves?

Nato a Torino nel 1869, dopo una breve esperienza negli ambienti democratico-radicali, aderisce nel 1892 al Partito socialista. Laureatosi in giurisprudenza, dal 1894 al 1896 è a Berlino, nel 1897 in Svizzera, Olanda, Belgio e Scandinavia. Tornato in Italia, nel 1898, si trasferisce a Milano, dove, nel 1906, viene eletto per la prima volta deputato. Tra il 1910 e il 1912 dirige l’«Avanti!», quotidiano del psi. Nel 1922 è tra i fondatori del Partito socialista unitario, di cui dirige il giornale «La Giustizia».Costretto nel novembre 1926 ad emigrare in Francia, l’anno successivo è nominato direttore de «La Libertà», l’organo di stampa della Concentrazione Antifascista. Nel 1930 è tra i fautori della riunificazione socialista. Muore nella capitale francese l’11 giugno 1933.

 

 

 

Bibliografia

1 G. Saragat, Il compagno, in «La Libertà», 15 giugno 1933.

2 R. Monteleone, Turati, Utet, Torino 1987, p. 276.

3 G. Manacorda (a cura di), Il socialismo nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 276-277.

4 Il giudizio è di Zeffiro Ciuffoletti in Z. Ciuffoletti, M. Degl’Innocenti, G. Sabbatucci, Storia del Psi, vol. I «Le origini e l’età giolittiana», Laterza, Roma-Bari 1992, p. 398.

5 Per la posizione dei massimalisti vedi G. Menotti Serrati, Massimalismo senza popolo, in «Italianieuropei», 5/2002 pp. 241-248.

6 Il riferimento è al Congresso del PSI di Bologna (1919).