Rivisitando la Strategia europea di sicurezza: oltre il 2008 e oltre la PESD

Di Antonio Missiroli Giovedì 26 Giugno 2008 18:41 Stampa
Dal lancio della Strategia europea di sicurezza nel 2003 moltissimi cambiamenti sono intervenuti a complicare gli scenari europei. Fragilità nella periferia più ampia dell’UE, politiche di potenza a Est, instabilità a Sud e crescente competizione per le risorse a livello mondiale: è questo a grandi linee il quadro agli inizi del 2008. Alla luce di quanto avvenuto negli ultimi anni e delle nuove sfide che l’Unione europea ha di fronte, a che cosa dovrebbe o potrebbe servire la rivisitazione della SES prevista per la fine del 2008?

Il Consiglio europeo dello scorso dicembre ha, forse un po’ a sorpresa, «invitato l’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), di piena intesa con la Commissione e in stretta collaborazione con gli Stati membri, a esaminare lo stato di realizzazione» della Strategia europea di sicurezza (SES) adottata nel 2003, «con l’obiettivo di proporre al Consiglio europeo del dicembre 2008 elementi utili a migliorarne la messa in opera e, qualora occorrano, a farne da complemento» (paragrafo 90 delle Conclusioni della presidenza). In altre parole, a distanza di quattro anni dal dicembre 2003, viene ora chiesto a Javier Solana di rivisitare la SES allo scopo di pervenire a una valutazione complessiva. Le Conclusioni della presidenza non accennano alla necessità di un aggiornamento, e tanto meno di una riscrittura della Strategia: l’accento è messo tutto sulla sua realizzazione «alla luce di tutti gli sviluppi presentatisi da allora e in particolare delle esperienze tratte dalle operazioni». L’intero esercizio ha lo scopo di evidenziare gli «elementi di miglioramento» e possibilmente «di complemento» per la piena attuazione della Strategia, costituendo in tal modo un’eccellente opportunità per fare un bilancio di quasi un decennio di Politica europea di sicurezza e difesa (PESD).

Un buon lavoro

Tuttavia, sarà difficile evitare del tutto di rivedere il suo impianto analitico e le disposizioni in essa contenute. Né sarebbe corretto farlo, anche se la SES è un documento politico che ha insolitamente ben resistito alla prova del tempo. Lanciata ai primi di maggio del 2003, negli ultimi giorni della guerra in Iraq, come tentativo di superare i fossati creatisi sia all’interno dell’Unione europea sia con l’altra sponda dell’Atlantico, dopo le aspre divisioni dei mesi precedenti, la Strategia si è rapidamente trasformata in un banco di prova per la costruzione del consenso nell’Unione allargata.

La stesura è stata portata a termine in due fasi: una prima versione è stata presentata da Solana nel giugno 2003 al Consiglio europeo, che ne «prese nota» e chiese all’Alto rappresentante, per prima cosa, di allargare la discussione, tra l’altro attraverso una serie di seminari organizzati dall’Institute for Security Studies dell’UE (un’agenzia autonoma del Consiglio con sede a Parigi), e di pervenire poi a un testo finale. Quest’ultimo, che riportava gli adattamenti e gli emendamenti alla versione iniziale, è stato infine approvato nel dicembre 2003 con il titolo “Un’Europa sicura in un mondo migliore”.

Si può affermare che la SES sia uno dei documenti politici dell’Unione europea meglio redatti (probabilmente accanto alla Dichiarazione di Laeken del dicembre 2001): sintetico ma denso, conciso ma non superficiale, non troppo autocelebrativo né fondato sul minimo comune denominatore.1 È stato preparato da un gruppo di collaboratori vicini a Solana, prendendo in considerazione sia le osservazioni dei vari ministeri degli Esteri degli allora venticinque Stati membri, sia quelle degli esperti coinvolti nella discussione, ma senza mai essere sottoposto, neppure in bozza, al Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) o al Comitato politico e di sicurezza (CPS): in altri termini, la SES non è stata mai “negoziata” attraverso i normali canali intergovernativi.

Inoltre, dopo l’approvazione della Strategia, Solana ha opposto una resistenza ostinata agli appelli a tradurla in una serie di piani d’azione da mettere in atto in futuro: nella sua visione, la SES doveva rimanere un insieme di linee guida per eventuali azioni, non un documento operativo di carattere prescrittivo. Per un certo periodo di tempo, specie fino alla firma del Trattato costituzionale nell’ottobre 2004, la Strategia è stata persino citata occasionalmente nelle Azioni comuni della PESC come una sorta di base legale “soft” per il lancio di operazioni PESD il cui scopo andava oltre le originarie missioni di Petersberg racchiuse nell’articolo 17 del Trattato.

Tuttavia, la SES non riguarda solo la Politica europea di sicurezza e difesa. In un certo senso, non è neanche una “strategia” – termine spesso abusato nella pratica e nel linguaggio della UE – poiché è divenuta qualcosa di molto vicino a una dottrina europea per la politica estera e la sicurezza, che modella l’approccio dell’Unione verso una serie di situazioni differenti, e anche uno strumento efficace di diplomazia pubblica. Come dottrina, inoltre, ha conservato quasi tutta la sua attualità.

Cinque anni dopo

Difatti, se oggi l’introduzione alla SES può suonare forse un po’ sorpassata, le «minacce di fondo» e le «sfide globali» individuate nel 2003 non hanno conosciuto cambiamenti significativi, ma solo un marginale slittamento di enfasi. In merito al terrorismo globale, ad esempio, la SES è stata piuttosto previdente nell’affermare allora che la minaccia era già ben presente sul suolo europeo («L’Europa è al contempo un obiettivo e una base », vi si può leggere). Da allora, specialmente dopo gli attentati di Madrid (2004) e Londra (2007), siamo tutti molto più consapevoli che il terrorismo cresciuto in casa nostra è un fenomeno specificamente europeo, che richiede risposte mirate, compresa la ricerca di un equilibrio accettabile e sostenibile tra sicurezza e libertà, a livello sia personale sia collettivo.

La lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa è ora meno focalizzata sulla Corea del Nord (e ancor meno sull’Iraq, ovviamente) e molto di più sul programma nucleare iraniano e sull’effetto domino che questo potrebbe innescare a livello regionale. E mentre il rischio di loose nukes appare meno presente, la possibilità di una bomba “sporca” caricata con armi di distruzione di massa più leggere e “portatili” non è scomparsa del tutto. Vecchi e nuovi conflitti regionali sono tuttora ben visibili sui nostri schermi radar, dai Balcani al Medio Oriente, e altrettanto lo sono quelli congelati all’interno dell’Europa e ai suoi confini. Persino conflitti precedentemente a carattere interno ora rischiano di allargarsi alle aree limitrofe, dallo stesso Afghanistan al Darfur, fino al Corno d’Africa. Oggi si tende a parlare meno di fallimento degli Stati in quanto tale e più di una loro fragilità, una condizione abbastanza comune e ricorrente sulla scena internazionale e che permette, e anzi richiede – al contrario del fallimento, che è raro e spesso irreversibile – un «impegno preventivo» puntuale e costruttivo, come auspicato dalla stessa SES. Infatti, è possibile identificare facilmente gli Stati fragili, sia all’interno del nostro continente sia in aree sensibili dove sono in gioco interessi europei e globali.

Secondo i dati di Eurobarometro, il crimine organizzato è oggi indicato da un terzo dei cittadini europei come la principale priorità politica e di sicurezza, e la sua presenza viene percepita in un crescente numero di attività connesse al normale funzionamento delle nostre società, da quelle bancarie e finanziarie ai servizi di pubblica utilità. Inoltre, la totale dipendenza energetica dell’Europa è cresciuta tanto in termini di percezione quanto in termini reali, sottolineata da una serie di crisi regionali sullo stesso continente e dal drammatico aumento del prezzo del petrolio a livello mondiale. La sicurezza energetica, in altri termini, è divenuta uno dei principali problemi, destinato a condizionare in modo significativo le nostre politiche estere negli anni a venire.

In un mondo sempre più globalizzato, la sfida demografica europea sta facendosi ogni giorno più seria e viene anche percepita in maniera più diffusa, stimolando la richiesta di una gestione condivisa dei flussi migratori e di una migliore integrazione degli immigrati.

Anche i timori legati al clima si sono materializzati con maggiore frequenza, a causa di fenomeni diversi come le inondazioni, la siccità, gli incendi. In prospettiva il cambiamento climatico e il riscaldamento globale possono inasprire la competizione per le risorse naturali ed energetiche (comprese le poche riserve ancora non sfruttate), impoverire le riserve di cibo e di pesce, e soprattutto destabilizzare ulteriormente regioni vulnera- bili e paesi mal governati, generando così nuovi conflitti e controversie, rafforzando la pressione migratoria e condizionando in generale le relazioni internazionali.

Di recente sono emersi anche altri motivi di allarme, come la SARS e l’influenza aviaria, lo tsunami del dicembre 2004 in Asia, gli attacchi telematici degli hacker e le crisi finanziarie causate dagli speculatori. In altre parole, all’orizzonte vi sono sempre più emergenze, causate dalla natura o dall’uomo, spesso innescate e diffuse al di là dei confini nazionali ed europei.

Vecchie e nuove difficoltà

Gli obiettivi strategici fissati nel 2003 rimangono validi, ma oggi siamo molto più consapevoli delle difficoltà da affrontare e superare per raggiungerli. Per quanto non sia formalmente o principalmente una sfida per l’Unione in quanto tale, l’Afghanistan si sta dimostrando tutt’altro che facile da gestire, e non solo in termini militari. Definire successo quanto raggiunto a Kabul è compito impegnativo. L’approccio quick in quick out che ha caratterizzato inizialmente le operazioni militari nel paese, infatti, non è più valido: dobbiamo tutti prepararci alla lunga distanza (quick in long in), ma è un approccio che non gode di grande popolarità presso l’opinione pubblica e che non è sostenibile con risorse limitate. Una exit strategy è più difficile da immaginare, dal momento che lo “stato finale” a cui puntare si è fatto più sfuggente.

«Costruire la sicurezza nei paesi vicini» è un obiettivo ancora da raggiungere. Nei Balcani, per esempio, la presenza soft (o “trasformativa”) dell’Unione non si sta rivelando così efficace come si è dimostrata in altri contesti. Ciò è in parte dovuto ai dubbi sollevati all’interno della stessa Unione sul processo di allargamento, che hanno indebolito la mano europea nella gestione delle relazioni con i paesi della regione: la politica di “condizionalità” nei loro confronti non funziona se non viene associata a un impegno credibile per una loro rapida integrazione nell’Unione. Allo stesso tempo, la condizionalità come l’abbiamo conosciuta va probabilmente rivista alla luce delle sfide particolari da affrontare di volta in volta – che si tratti dei Balcani o della stessa Turchia. Inoltre, la maggiore assertività della Russia (che a volte fa il paio con la disomogeneità dell’Europa nell’affrontarla) ha reso ancor più problematico fronteggiare i conflitti “congelati”, mentre le politiche mediterranee dell’Unione – nel quadro del Processo di Barcellona o della stessa Politica europea di vicinato – paiono essere giunte a un punto critico o, comunque, progrediscono a rilento. Fragilità nella periferia più ampia dell’UE, politiche di potenza a Est, instabilità a Sud e crescente competizione per le risorse a livello mondiale: è questo a grandi linee il quadro della sicurezza europea agli inizi del 2008, a cui va aggiunta la crescente interconnessione tra la dimensione internazionale e quella domestica della sicurezza, che rende questa sfera squisitamente intermestic.

Da ultimo, ma certo non per importanza, il «multilateralismo efficace» proposto dalla SES si sta dimostrando una vera e propria sfida, in parte perché viene visto allo stesso tempo come principio, come mezzo, e come fine a sé stante. L’Unione ha dato buona prova di sé in occasione della crisi nel sud del Libano nell’estate del 2006, ma il Kosovo appare quasi ingestibile nell’attuale contesto, poiché efficacia e multilateralismo sembrano difficilmente compatibili tra loro (seppure per ragioni che non dipendono necessariamente dall’UE). Dilemmi analoghi presenta anche l’azione per il Darfur. Inoltre, pur in ambito diverso, i negoziati di Doha sono bloccati e l’intelaiatura del commercio multilaterale appare sempre più sfilacciata.

Ciò non significa che un multilateralismo efficace sia inattuabile o, peggio, che sia sbagliato in sé. Al contrario: per l’UE, infatti, rappresenta ormai tanto una necessità quanto una scelta. Dopo il 2003, tuttavia, l’ambiente internazionale si è fatto più complesso, con un numero superiore di attori chiave (vecchi e nuovi) di cui si deve tenere conto, e tutti fortemente orientati a difendere la propria sovranità e concentrati su obiettivi a breve termine. L’interdipendenza-competitivà che ne risulta lascia l’Unione europea in una posizione piuttosto vulnerabile: conseguire risultati diviene così sempre più arduo, anche quando gli obiettivi sono assolutamente ragionevoli e realistici, e anche quando l’Unione e gli Stati Uniti sono d’accordo fra loro – e il che non era affatto scontato nel 2003.

Ciò spiega anche perché sia necessario articolare meglio il legame tra la ricerca di un multilate- ralismo efficace e la cooperazione con i possibili partner strategici. La SES, in quella che si può definire come la sua sezione meno solida, menzionava tra questi il Giappone, la Cina, il Canada e l’India: una lista che, se proprio necessaria, richiede quanto meno alcuni aggiustamenti.

In realtà l’Unione e/o i suoi principali paesi membri partecipano attivamente a vari forum “mini- laterali” connessi a specifiche situazioni di crisi: dallo stesso G8 al Gruppo di contatto per i Balcani, dal Quartetto per il Medio Oriente al 5+1 per l’Iran. Alcuni di questi partner strategici hanno più importanza in certe crisi, mentre l’eventuale aggiunta di altri attori dipende dall’area o dal problema in discussione. Forse, pertanto, occorre saper tradurre in modo più esplicito e coerente il «lavoro con i partner», come definito nella SES, in uno strumento per ottenere soluzioni multilaterali efficaci e, inoltre, per dare all’Unione in quanto tale la visibilità e il peso necessari.

Opportunità e sfide

Anche le implicazioni politiche delineate dalla SES rimangono valide, soprattutto perché sono state prospettate in termini qualitativi, senza scadenze ultimative o parametri di valutazione troppo stringenti.

L’Unione europea è senza alcun dubbio divenuta più attiva sulla scena internazionale in generale e, in particolare, nella gestione delle crisi: quello che alla fine del 2003 era solo un inizio promettente si è concretizzato in iniziative diplomatiche di ogni genere e, soprattutto, in missioni all’estero sempre più numerose e frequenti. Se alcune di queste hanno avuto un carattere prevalentemente simbolico e sono state (comprensibilmente) intese anche come mezzo per piantare la bandiera della UE e costruirsi un primo acquis operativo, le più recenti – come la missione civile in Kosovo e, in minor misura, quella militare in Ciad – sembrano già appartenere a un’altra categoria.

Qualche anno fa Lawrence Freedman enunciò una famosa distinzione tra le «guerre per necessità », tipiche dell’Occidente del Ventesimo secolo e le «guerre per scelta» che sembravano invece caratterizzare l’epoca successiva alla guerra fredda e alla rivoluzione negli affari strategici allo- ra agli albori. La Politica di sicurezza e difesa dell’UE, e in generale le forze europee, sembrano invece allontanarsi dal loro carattere iniziale di operazioni per scelta e tendere verso un numero crescente di operazioni per necessità, in teatri differenti e sotto varie forme. Ma tutto ciò solleva anche seri interrogativi in termini di sostenibilità a medio e a lungo termine.

L’Unione europea sta anche diventando più coerente nella conduzione della propria politica estera. Ad eccezione di qualche piccolo sussulto (nella fase preparatoria della missione ad Aceh, in Indonesia, nel 2005 o nella controversia legale sulle armi leggere), il Consiglio e la Commissione sembrano ora aver trovato un modus vivendi e operandi accettabile specialmente all’interno del Comitato per la politica e la sicurezza (CPS). L’intuizione fondamentale che sta dietro alla SES, cioè l’idea per cui la gestione delle crisi deve essere integrata e globale e non basata esclusivamente o prevalentemente sulla dimensione militare e sull’uso della forza, è stata rafforzata dall’esperienza degli ultimi anni.

Per parte sua, il Trattato di Lisbona crea una nuova architettura per l’elaborazione della politica estera, da cui ci si aspettano maggiore coerenza e maggiore efficacia sia a Bruxelles sia fuori dall’Unione, principalmente mediante la costruzione di un arco, per così dire, tra i pilastri già esistenti della UE – la nomina di un unico Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che coprirebbe il ruolo svolto finora da Solana, come pure quello di un vicepresidente della Commissione preposto alle relazioni esterne, e supportato da un apposito Servizio europeo di azione esterna – e l’affermazione di un approccio molto più integrato alla sicurezza. L’attuazione del trattato, comunque, potrebbe richiedere tempo e aver bisogno di un alto grado di cooperazione interistituzionale per conseguire gli effetti auspicati.

La coerenza, tuttavia, non dipende e non dipenderà solo dai due lati di Rue de la Loi a Bruxelles. Anche il comportamento degli Stati membri deve essere tenuto d’occhio, per esempio quando vendono equipaggiamento militare a certi paesi. E lo stesso vale per altri attori a livello internazionale – partner o organizzazioni – coinvolti accanto all’Unione europea nella gestione delle crisi.

La PESD fra approfondimento e allargamento

Se l’Unione europea sia diventata anche più capace – per concludere l’esame dei tre imperativi fissati nella SES – rimane invece una questione aperta. Le capacità istituzionali sono migliorate se paragonate a quelle del 2003, e lo stesso si può dire per quelle operative: molte lezioni sono state apprese e applicate a nuove situazioni, e un numero crescente di Stati membri appare ora più disposto che in passato e anche più capace di impiegare le proprie forze in operazioni comuni. Eppure, l’ammontare complessivo delle capacità dell’UE è aumentato solo in misura marginale, e alcuni paesi stanno arrivando a un punto critico in termini di impegni all’estero e overstretch militare.

La disponibilità a fare uso della forza, nelle operazioni di sostegno della pace, resta inoltre diseguale tra i paesi dell’Unione. Ciò potrebbe determinare alla fine un sistema a due piani e velocità che, a sua volta, potrebbe sollevare delicati interrogativi in termini di solidarietà interna e condivisione degli oneri. Di per sé, ciò potrebbe anche non minare alla base le politiche comuni (la NATO ha vissuto abbastanza bene per decenni in condizioni simili), posto che vengano prese misure appropriate in ambito decisionale e in merito ai finanziamenti. Nell’Unione, in altre parole, è necessaria una maggior solidarietà, e non solo perché è prevista da una nuova clausola del Trattato di Lisbona.

Più in generale, si può affermare che dal 2003 la PESD si sia nei fatti allargata, in termini di membri (ogni allargamento porta con sé nuovi interessi e posizioni), di funzioni (ben oltre le missioni di Petersberg) e di raggio geografico (al di là dell’area europea in senso lato). Si è anche approfondita, e lo ha fatto dal punto di vista sia dottrinale (la SES, appunto) sia istituzionale (il Trattato di Lisbona). E si è pure “indurita”, a cominciare dalla gestione delle questioni relative alla non proliferazione e al terrorismo.

Valutare le capacità europee, pertanto, significa anche confrontarsi su quali e quante siano necessarie e per quali scopi: e, su questo punto, le opinioni variano notevolmente. Le aspettative e le ambizioni tendono a essere o troppo alte o sempli- cemente troppo diverse, rendendo così impossibile mantenerle tutte e più difficile pianificare le forze. La PESD è e resterà solo una fra le opzioni possibili a disposizione dei paesi europei per la gestione delle crisi internazionali. Per talune operazioni, la NATO giocherà probabilmente ancora un ruolo centrale; per altre, potrebbe essere preferibile la veste delle Nazioni Unite (come in Libano); anche mix temporanei restano concepibili, come è stato nel caso della Bosnia, del Kosovo e della Repubblica Democratica del Congo; mentre le “coalizioni dei volenterosi” continueranno a rappresentare un’ulteriore scelta nel menù. La PESD da sola, del resto, appare ancora insufficiente a fronteggiare alcune minacce di fondo quali terrorismo e crimine organizzato. A questo fine, una risorsa cruciale può rivelarsi il ricorso ai nuovi strumenti disponibili nel campo della giustizia e degli affari interni – il che implica però, appunto, un grado maggiore di coerenza tra i pilastri e le politiche della UE.

Dal punto di vista strettamente militare, le disposizioni del trattato sulla cooperazione strutturata permanente offrono un’opportunità da non perdere per superare alcune delle differenze appena segnalate e per fissare obiettivi condivisi e raggiungibili. Ciò che resta ancora da stabilire è fino a che punto la partecipazione allo schema sarà determinata dalla volontà politica e/o dalle capacità operative. I criteri elencati nel Protocollo relativo allegato al Trattato di Lisbona comprendono infatti: a) il raggiungimento di una forte capacità di mobilitazione e dispiegamento militare, attraverso il contributo di forze a carattere nazionale o quali componenti di forze multinazionali, e attraverso il raggruppamento e/o la specializzazione dei mezzi e delle strutture di difesa; b) la partecipazione ai «principali programmi comuni europei in materia di equipaggiamento» e a quelli gestiti dall’Agenzia di difesa europea; c) una maggiore cooperazione in vista di obiettivi concordati riguardanti «il livello delle spese per gli investimenti in materia di equipaggiamenti».

Esposti così, dunque, i criteri lasciano molto spazio all’interpretazione: non ci sono cifre né scadenze, e neppure una gerarchia più o meno esplicita. Molto dipenderà perciò dal modo in cui saranno formulati e sviluppati: il loro grado di inclusività – basato su una combinazione di valutazioni funzionali esplicite (ma non quantificate) e incentivi politi- ci impliciti (il farne parte) – determinerà anche l’articolazione effettiva e il fine ultimo dell’intero progetto. Sarà pertanto cruciale individuare i criteri più opportuni per raggiungere gli obiettivi desiderati e, da questo punto di vista, la semplice indicazione di un target generale di spesa pubblica per la difesa (il 2% del PIL, per esempio) appare allo stesso tempo poco utile e poco realistica. La spesa per investimenti e la spesa per operazioni di pace – soprattutto se in comune – sembrano invece molto più pertinenti, possibilmente associati a eventuali meccanismi di compensazione in materia di burden-sharing. Sul versante civile e diplomatico, invece, le cose sono per il momento meno chiare. Eppure, per l’UE, dedicare congiuntamente più risorse (politiche, umane e finanziarie) alle relazioni con il mondo esterno dovrebbe diventare una priorità assoluta, vista anche la rilevanza decrescente che il nostro continente rischia fra una decina o ventina d’anni. Allora, infatti, l’Unione europea semplicemente non sarà in condizione di potersi permettere un atteggiamento introspettivo e/o di spendere oltre due terzi del suo budget comune per politiche puramente interne (a cominciare dall’agricoltura), dato che il suo peso rispetto al resto del mondo – in termini di popolazione, quote commerciali e prodotto interno lordo – sarà solo una frazione di quello attuale. Per l’Europa, l’unica possibilità di tenuta strategica poggia su una presenza molto più estesa ed efficace a livello globale. E anche i possibili elementi di complemento della PESD che Solana è stato chiamato a proporre dovrebbero tenere conto di questa prospettiva.

Dicembre 2008 e oltre

Alla luce di queste riflessioni, dunque, a che cosa potrebbe o dovrebbe servire la rivisitazione della SES prevista per la fine del 2008? Il Rapporto di Solana andrà essenzialmente a coincidere con il decimo anniversario della Dichiarazione di Saint-Malo (3-4 dicembre 1998), con la quale Francia e Gran Bretagna lanciarono quella che è poi è stata chiamata PESD. A quella data, sperabilmente, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown si sentiranno pronti a calcare le orme dei propri predecessori e a conferire nuovo slancio alle ambizioni europee in materia di gestione delle crisi. Se ci sono pochi dubbi sulla volontà di Parigi – la Francia potrebbe utilizzare l’occasione anche per annunciare la sua piena reintegrazione nelle strutture militari dell’Alleanza atlantica, dissipando così una volta per tutte le paure e i sospetti di chi (all’interno come all’esterno della UE) vede nella PESD un fattore potenzialmente destabilizzante per la NATO – la posizione di Londra appare ancora incerta. Le attuali difficoltà del primo ministro e del New Labour, d’altra parte, possono giocare in entrambi i sensi: in direzione di un ulteriore ripiegamento politico rispetto agli ultimi anni di Blair, ovvero (una volta conclusa la ratifica parlamentare del Trattato di Lisbona) di un parziale rilancio della difesa europea in chiave transatlantica e forse perfino globale, che permetterebbe alla Gran Bretagna di ripresentarsi con un ruolo di leadership in almeno una delle politiche comuni europee. È comunque prevedibile che il futuro della PESD verrà determinato nei prossimi anni dall’evoluzione della posizione di Londra, vista anche la prospettiva sempre più realistica di un prossimo ritorno al potere dei conservatori.

Il decimo anniversario di Saint-Malo e il Rapporto di Solana, inoltre, cadranno proprio fra le elezioni presidenziali e l’inaugurazione della nuova amministrazione americana. Non potrebbe esserci occasione migliore per inviare oltre Atlantico alcuni messaggi politici precisi, con l’intento di riconfigurare le relazioni tra Europa e Stati Uniti su nuove basi dopo la burrascosa era Bush. Difficile prevedere, in questo momento, quali orientamenti prevarranno nel confronto in atto a Washington, ma non c’è dubbio che gli americani ora sanno che possono ancora go it alone, ma anche che non sono in grado di do it alone.

La rivisitazione della SES potrebbe svolgersi in parallelo o comunque precedere di poco la possibile riscrittura del Concetto strategico della NATO. Quello attuale, infatti, risale addirittura al marzo 1999, cioè prima dell’Iraq, prima dell’11 settembre e perfino prima della guerra in Kosovo. Se l’Alleanza decidesse di procedere a una revisione strategica complessiva – magari in occasione del suo sessantesimo anniversario, nella prossima primavera – sarebbe utile e opportuno collegare in qualche modo l’esercizio a quello condotto dall’UE, a condizione ovviamente che nessuna delle due organizzazioni rivendichi un primato sull’altra. Da ultimo, ma non per importanza, il Rapporto di Solana precederà di pochi giorni la probabile entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Potrebbe pertanto rappresentare l’inizio, piuttosto che la fine, di una più vasta revisione degli obiettivi e degli strumenti della politica estera europea nel suo complesso, estendendosi al 2009 e all’attuazione delle clausole del Trattato.

In questo caso, potrebbe costituire un buon banco di prova per la nuova dirigenza europea che sarà scelta nel corso del prossimo anno. Un eventuale secondo round nella revisione della SES potrebbe così coinvolgere più direttamente anche i servizi della Commissione, che sono di cruciale importanza sia per la politica estera più in generale – comprese le varie ramificazioni esterne delle altre politiche comuni – sia per una politica di sicurezza più integrata, compresa la sua dimensione interna (homeland). Il Rapporto finale, possibilmente in giugno o ottobre 2009, potrebbe così diventare un compito regolare di fine mandato per l’Alto rappresentante e vicepresidente della Commissione, da ripetersi anche nel 2014. In conclusione, la rivisitazione della SES può condurre a un parziale aggiornamento dell’analisi e a qualche aggiustamento degli obiettivi, a cui si potranno aggiungere elementi di complemento per la futura attuazione della PESD (che il Trattato di Lisbona rinomina PCSD, Politica comune di sicurezza e difesa, sottolineandone la dimensione comune). Il titolo potrebbe utilmente essere corretto in “Un’Europa più forte in un mondo migliore”, enfatizzando la necessità di un approccio meno difensivo, autoreferenziale e introspettivo. Come hanno compreso negli ultimi anni anche i più “sovranisti” fra gli Stati membri, a cominciare da Francia e Gran Bretagna, si è tutti più deboli quando si agisce da soli, e ancora più deboli se si agisce divisi. Insomma, l’Union fait la force.

Detto ciò, al legame tra valori e interessi comuni andrebbe dedicata maggiore attenzione: troppo spesso vengono presentati e articolati in modo disgiunto, e non solo tra livello europeo e livello nazionale. I nostri valori comuni devono intrecciarsi con i nostri interessi condivisi: i valori devono fare da guida al perseguimento degli interessi, senza sostituirli, mentre gli interessi dovrebbero contribuire ad affermare i valori.

Per la stessa ragione, occorre adattare meglio i processi in vista del raggiungimento di risul- tati, piuttosto che vederli quasi come fini in sé: che riguardino il livello europeo, transatlantico, multilaterale o mini-laterale, devono portare a risultati tangibili e misurabili entro un lasso di tempo ragionevole.

Infine, l’accresciuta presenza dell’Unione europea nel mondo dovrebbe tradursi più chiaramente in altrettanta influenza, il che non sempre è accaduto. A esigerlo è il mondo di domani, ma anche l’Europa di oggi.