La crisi della politica e lo sradicamento dei partiti

Di Angelo Ventrone Giovedì 26 Giugno 2008 19:10 Stampa
Per comprendere l’attuale crisi del partito di massa e l’ondata di antipolitica in atto fin dall’inizio degli
anni Novanta è utile analizzare l’esperienza del passato e il radicamento dei partiti popolari in Italia.
L’assenza di un reale radicamento sul territorio e la scarsa elaborazione di prospettive unificanti hanno
infatti prodotto l’incapacità da parte dei partiti di leggere i cambiamenti in atto nella società e una frattura tra politica e cultura. In tale contesto, particolarmente interessante è il caso della Lega Nord.

A partire dagli anni Novanta si è andata chiudendo una fase della nostra storia recente che può essere riassunta dall’efficace espressione di Pietro Scoppola: la «Repubblica dei partiti». Una Repubblica, cioè, che si è fondata su partiti dotati di forti identità collettive, di insediamenti territoriali stabili, di una vera e propria galassia di organizzazioni di massa attive nei campi più diversi (con l’obiettivo di prendersi cura dei propri iscritti «dalla culla alla tomba », come si diceva un tempo) e con una presenza ramificata in tutte le articolazioni della società civile.

La crisi e poi la fine del partito di massa sono sembrate a molti il logico corollario dell’evoluzione recente del nostro sistema politico. E, in effetti, l’attenuazione progressiva della contrapposizione ideologica, legata alla fine della guerra fredda, la riduzione delle disparità sociali provocata dalla società dei consumi, lo sviluppo economico, sociale e culturale del paese hanno messo in crisi alcune delle funzioni tradizionali che i partiti avevano ricoperto fino a quel momento.

Al partito di massa è subentrato un altro modello che gli studiosi hanno definito in vari modi (partito pigliatutto, partito d’opinione ecc.), ma che è sostanzialmente contraddistinto dall’attenuazione della carica ideologica, dall’obiettivo di non rivolgersi a specifici settori sociali ma a un elettorato il più ampio possibile, dal rafforzamento dei vertici decisionali e dalla progressiva marginalizzazione degli iscritti e dei militanti. Un modello che in Italia ha cominciato a vedere la luce già negli anni Ottanta con il partito socialista craxiano. Questa trasformazione si è peraltro collocata nel contesto di una svolta epocale che proprio in quel decennio ha radicalmente mutato l’essenza della politica nell’intero Occidente. Quest’ultima, infatti, ha rinunciato da allora a ogni proposito di costruzione di una nuova società alternativa a quella esistente, com’era invece stato per gran parte del Novecento con il mito della società so- cialista, cristiana o anche della civiltà fascista. L’amministrazione della transizione alla modernità è diventato il suo unico fine.

All’inizio degli anni Novanta, di fronte alla grave crisi che ha scosso le fondamenta della Repubblica, l’opinione pubblica ha dovuto prendere atto che i grandi partiti erano diventati dei “giganti dai piedi di argilla”: giganti per la loro pervasività nella vita pubblica nazionale, ma dai piedi d’argilla per l’impotenza a governare. Ciò ha aperto la strada ad una forte ondata di antipolitica che ha descritto la politica come un qualcosa di inefficiente ma molto costoso, di autoreferenziale e oligarchico, utile solo a riprodurre il potere dei politici di professione e quindi del tutto indifferente – se non ostile – alle esigenze di modernizzazione del paese. E il successo di Forza Italia, guidata da Silvio Berlusconi, è sembrato sancire definitivamente la modernità di quel modello. Un “partito del presidente”, con dirigenti provenienti dalla società civile più che dal mondo politico, funzionante, soprattutto nei primi anni, come una macchina elettorale volta a sostenere l’elezione del proprio leader attraverso uno stretto collegamento con i mass media e una struttura territoriale in cui gli organi periferici erano più simili a dei club culturali che a sezioni di partito, visto che non eleggevano rappresentanti né collaboravano alla definizione dei programmi.

Tuttavia, oggi, dopo anni di esaltazione del mito della società civile come elemento di liberazione dal dominio dispotico della partitocrazia, è in atto un profondo ripensamento. Anzi, si avverte una certa nostalgia per un modello di partito che tutti – o quasi tutti – ritenevano ormai superato. Dopo il risultato delle elezioni politiche dello scorso aprile molti osservatori hanno infatti visto nella perdita del radicamento territoriale da parte della sinistra radicale e dello stesso Partito Democratico una delle ragioni della loro sconfitta. Cosa ci può dire di utile, ancora oggi, l’esperienza del passato? Forse conviene partire da alcune brevi considerazioni di carattere storico. Tutti i partiti popolari, pur se con modalità e obiettivi propri, nacquero con l’obiettivo comune di fornire tutela a quei ceti che la modernità aveva gettato in mezzo al guado e che poi aveva abbandonato, chiamandoli a partecipare alla vita del paese attraverso il loro inserimento nel sistema produttivo ma non riconoscendo loro alcun diritto. Per questo, essi iniziarono a radicarsi in primo luogo fuori dal Parlamento.

La forza principale, sia nel caso del Partito socialista e del movimento cattolico che, più tardi, di quello comunista, era rappresentata proprio dalla presenza sul territorio attraverso un’articolata rete associativa e, più tardi, dalla conquista elettorale dei municipi. Grazie al controllo delle istituzioni locali, infatti, le forze politiche popolari riuscirono ad assicurare ordine e tutela sociale, ampliando i servizi forniti dal proprio preesistente reticolo associativo: le cooperative, gli uffici di assistenza medica o legale, gli asili per i figli delle coppie lavoratrici, le colonie estive per i bambini delle famiglie povere, i corsi per imparare un mestiere e quelli di lingue per i lavoratori che si preparavano a emigrare, le università popolari, persino le società sportive (di calcio e ciclismo, innanzitutto) e quelle ricreative (come le filodrammatiche, le bande e i cori musicali). L’impegno in questo campo aveva uno scopo ben preciso: offrire ai cittadini quei servizi che lo Stato non era allora in grado di fornire e che essi non erano in grado di pagarsi. Ma i partiti di massa, così facendo, riuscirono a fare anche di più. Crearono comunità politiche caratterizzate da una ben definita identità che si nutriva, e nello stesso tempo alimentava, il loro radicamento territoriale.

La formazione e la crescita del senso di appartenenza, infatti, sono il frutto dell’aspettativa che la propria comunità – partito o Stato che sia – riesca a soddisfare le esigenze collettive di un’identità condivisa, tuteli gli interessi materiali dei propri membri e offra la possibilità, a questi ultimi, di partecipare attivamente ad essa. Senza la capacità di combinare queste dimensioni, la politica si riduce a pura tecnica: tecnica di conquista del consenso o anche, in un senso più nobile, tecnica amministrativa, volta a costruire ponti, strade, acquedotti, linee ad alta velocità, rigassificatori o quant’altro, ma niente di più.

L’aggravamento nel nostro paese della crisi economica ha riportato in primo piano tale questione. Ci eravamo convinti che in una società ricca fosse sufficiente – anzi, necessario – che la politica si limitasse ad amministrare. Ma come la politica non può essere solo competizione per la conquista del consenso, così non può ridursi neanche ad efficiente capacità amministrativa. Essa deve essere infatti molto di più: definizione di un progetto, di un percorso, ricerca di un’identità. Com’è stato scritto, si partecipa non solo per prendere parte, ma anche per sentirsi parte. La politica, per vivere, ha bisogno di convincere e di coinvolgere, di interessare ed emozionare, ha bisogno di passione. È nell’incontro tra un progetto credibile, capace di suscitare una mobilitazione non estemporanea, e una buona amministrazione che cerca di realizzarlo, che la politica può riuscire a costruire legami sociali duraturi.

Questo è stato probabilmente uno dei fallimenti principali del governo Prodi e della maggioranza che l’ha sostenuto. Non essere stati capaci di indicare né un progetto di società da perseguire, né il percorso, le tappe da raggiungere progressivamente nell’arco della legislatura. Aver dato cioè l’impressione di navigare a vista, senza sapere neanche bene in che direzione muoversi, con la speranza di riuscire ad evitare, magari all’ultimo momento, lo scoglio capace di mandare a picco l’intero equipaggio. Ma questa è pure la debolezza del Partito Democratico, ancora alla ricerca di una sua specifica identità. Le primarie per l’elezione del segretario del PD sono state un grande momento di coinvolgimento per milioni di cittadini, ma è mancata la capacità di valorizzare l’apporto di nuove energie che quell’esperienza era riuscita a suscitare. Svanito l’antiberlusconismo e chiusa la stagione delle primarie, il centrosinistra non è stato in grado di individuare altre questioni in grado di mobilitare il proprio elettorato. Indubbiamente, occorrerà dedicare più energie al contenuto (l’identità e il modo in cui darle corpo) che al contenitore (Partito Democratico sì o no), come invece è stato fatto a lungo. Perché per ora ciò che si vede, quanto meno a livello periferico, è che, in assenza di un nucleo di valori definito e condiviso, la fusione tra DS e DL viene spesso vissuta come una coabitazione forzata (presumibilmente, le stesse difficoltà diventeranno prima o poi visibili anche all’interno del PdL).

Per superare questa impasse, i vertici del partito, che hanno il compito di fornire gli orientamenti generali, dovranno imparare a costruire un dialogo permanente con le istanze periferiche, a cui spetta invece l’onere di sperimentare nuove iniziative che fungano da esempio e da traino per l’intero partito. Ma queste ultime riusciranno nel proprio compito solo se sapranno essere dei terminali capaci di raccogliere informazioni, conoscenze ed esperienze provenienti da tutto ciò che si muove nel mondo esterno.

L’incapacità della politica di elaborare prospettive unificanti (compito certo arduo, in una società complessa e frammentata come quella attuale) dipende naturalmente da molti fattori, ma una delle ragioni principali è rappresentata dalla frattura che si è prodotta tra politica e cultura, forse mai così lontane come in questi ultimi anni.

Una delle conseguenze di questo allontanamento è l’incapacità di leggere i mutamenti della società contemporanea, com’è apparso evidente dall’insuccesso della Sinistra Arcobaleno. Quale Italia aveva in mente il candidato premier Fausto Bertinotti quando, criticando aspramente il Partito Democratico, parlava della contraddittoria presenza, nelle sue liste, di un operaio e di un imprenditore («Uno dei due è di troppo»), quando gli imprenditori tornavano ad essere definiti “padroni”, quando nei manifesti si festeggiava l’arrivo del momento del “risarcimento” sociale e si auspicava che i ricchi tornassero a piangere? Aveva in mente un’Italia della lotta di classe, legata a un’epoca fordista ormai morta e sepolta (senza dire della contraddizione di presentarsi, nello stesso tempo, come un partito postmoderno favorevole a ogni movimentismo, dai no global ai transgender).

Ma il rapporto con gli intellettuali, questa sorta di sensori sociali che hanno svolto storicamente il compito di leggere la realtà in trasformazione, di riflettere sui fatti e sul loro senso nel quadro generale della propria epoca, occupa un posto ormai marginale nell’ordine delle priorità di tutte le forze politiche, di destra, di sinistra e di centro. La frattura tra politica e cultura e l’irrilevanza degli intellettuali nella vita politica sono anch’esse legate, almeno in parte, alla perdita del radicamento territoriale dei partiti.

Se pensiamo al PCI e alla sua storia, bisogna riconoscere che uno degli antidoti più potenti per temperare la sua intensa carica ideologica è stata la lungimirante scelta di porre, come propria unità fondamentale, non la cellula di fabbrica, ma la sezione territoriale, radicata nei quartieri o nei piccoli paesi, aperta a tutti, donne e giovani compresi, e quindi costretta ad affrontare i problemi in un’ottica più ampia e spesso interclassista. A ciò si aggiungeva il fatto che nella sezione confluivano tutte quelle esperienze che il lavoro sul territorio permetteva di raccogliere e nello stesso tempo di produrre.

In questo modo, il partito riusciva ad ascoltare la società nel profondo perché era permanentemente in contatto con una cerchia della popolazione molto più vasta dei propri militanti e coinvolgeva nelle proprie attività non solo i simpatizzanti, cioè coloro che partecipavano alle iniziative del partito senza esservi iscritti, ma persino le loro famiglie. La stessa cosa si potrebbe dire, naturalmente, della Democrazia Cristiana.

Il contributo degli intellettuali era particolarmente prezioso proprio perché si innestava su questa mole di informazioni e di conoscenze che il radicamento sociale permetteva di raccogliere, tanto che non era difficile trovare chi tra di loro era in grado di discutere con competenza di letteratura e di economia, dei problemi del lavoro in fabbrica e di agricoltura. Il loro ruolo, quindi, non si riduceva, come capita sovente oggi, a semplici consiglieri del principe. L’allentamento dei legami con il territorio ha provocato invece sia la perdita di interesse per l’analisi delle trasformazioni sociali, sia l’annullamento di quegli anticorpi organizzativi che moltiplicavano i soggetti attivi e quindi i punti di vista diversi, sollecitando a leggere la realtà con uno sguardo ben più ricco di quello dei soli dirigenti e militanti. Ciò ha accresciuto quell’autoreferenzialità che gran parte dell’opinione pubblica rimprovera oggi ai partiti; un’autoreferenzialità peraltro difesa con le unghie e con i denti, come ha mostrato l’infelice cancellazione delle preferenze dalla legge elettorale con cui si sono affrontati gli ultimi due turni elettorali. Per capire in che direzione muoversi va tenuto conto che, negli ultimi anni, i timori di fronte ai processi di globalizzazione sono notevolmente cresciuti. La globalizzazione, infatti, spaventa per la sua capacità di mutare drasticamente il panorama economico, sociale e culturale a cui siamo abituati, attraverso la concorrenza dei paesi emergenti, l’arrivo di grandi masse di lavoratori stranieri portatori di culture a volte avvertite come estranee e incomprensibili, le tempeste finanziarie iniziate in paesi lontani ma potenzialmente capaci di devastare il sistema economico nazionale.

Sembra che sia iniziata una sorta di “guerra tra poveri” che ci sta riportando in una fase storica, che credevamo superata, di grande incertezza sociale, attraverso la radicale divaricazione di interessi tra lavoratori preoccupati della propria pensione e giovani precari, tra lavoratori italiani con l’incubo della concorrenza cinese o della delocalizzazione delle proprie aziende, e lavoratori e clandestini extracomunitari. Su questo terreno, in particolare su quello della sicurezza, le forze politiche del centrodestra, favorite anche dal fatto di avere le questioni dell’identità nazionale (regionale, nel caso della Lega Nord) e dell’ordine sociale nel proprio DNA, hanno dimostrato di essere maggiormente attrezzate.

D’altronde, compito tradizionale dei partiti popolari, anzi loro vera e propria ragione genetica, come abbiamo visto, è stato offrire protezione dalle brutalità del mercato e del cambiamento troppo rapido, evitando di far sentire il singolo solo di fronte alle dure leggi dell’economia. Il fatto che il centrosinistra abbia vinto le elezioni del 2006 e poi le abbia perdute nel 2008 mostra come questa richiesta di tutela sociale possa oggi spostarsi facilmente, nel caso resti disattesa, da destra a sinistra. Ormai da anni si parla di un diffuso senso di insicurezza dovuto, più che alla realtà, al bombardamento mediatico di cui siamo tutti vittime. Ma la paura, reale o percepita, è pur sempre paura. E come tale può diventare una forza storica di tutto rilievo. La priorità, in questo caso, non è combatterla sul piano della razionalità astratta, del dover essere o del moralismo (dire, ad esempio, che il razzismo è un male). Come una volta i partiti sapevano bene, in politica l’intervento per ripristinare le condizioni di sicurezza, per tranquillizzare chi si sente minacciato, deve essere contemporaneo alla battaglia sui valori. Altrimenti si passa per ipocriti, per coloro che, non toccati direttamente dalla minaccia, si permettono di dispensare consigli di equilibrio e tolleranza agli altri, ottenendo però come unico effetto quello di provocare irritazione e fastidio in chi li ascolta.

Eppure, la sinistra è stata a lungo capace di intervenire in questi ambiti. Basti pensare alla sua capacità di controllo del territorio, talmente elevata da spingere lo Stato, durante gli Anni di piombo, a individuare proprio nel PCI il sostegno fondamentale – e la fonte di informazioni più capillare e attendibile – nella lotta contro il terrorismo. La presenza sul territorio era infatti anche un modo di presidiarlo, di conoscerlo e controllarlo, di costituire un punto di riferimento per la popolazione.

È anche su questo piano che il centrodestra e la Lega Nord hanno costruito il loro successo. Ma è il caso della Lega ad essere particolarmente interessante. Questa forza politica, un po’ come socialisti, cattolici e comunisti di un tempo, ha infatti deciso di partire dal radicamento sul territorio, attraverso la nascita di associazioni femminili, giovanili e sportive, per l’assistenza ai disabili e agli anziani, per la tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio artistico, per la donazione di sangue (solo padano?), per la difesa degli animali abbandonati o delle tradizioni del corpo degli Alpini, persino per gli appassionati di collezionismo. Da una parte, dunque, la Lega è stata capace di accogliere in sé anche iniziative e proposte che di politico hanno ben poco, nate molto probabilmente in modo spontaneo fuori delle sue strutture, dall’altra ha dimostrato di saper alimentare e omogeneizzare questo associazionismo con parole d’ordine – identità padana, immigrazione, sicurezza, federalismo fiscale, semplificazione burocratica – che incontrano ed esprimono la richiesta di protezione e di solidarietà comunitaria avanzata da vasti strati sociali. È grazie a questa sua capacità che la Lega Nord si è trasformata in un “partito comunità”, in grado di proporsi come rigeneratrice di un mondo messo in crisi dai processi di modernizzazione. Ed è per questo che, senza snaturarsi, è riuscita disinvoltamente a cambiare più volte i propri obiettivi – federalismo o secessione – e i pericoli da cui difendersi: prima i “terroni”, poi gli immigrati slavi o musulmani. Per questi motivi, essa è la forza politica più simile ai partiti di massa del Novecento ma, per altri versi, è anche la più moderna, perché si è dimostrata in grado di capire prima di tutti che l’“età dell’oro”, cioè dell’espansione economica e dell’ascesa sociale garantita, si stava chiudendo. Infatti, la prospettiva da lotta di classe novecentesca, così cara a una parte, anche se ormai minoritaria, della sinistra, è inadeguata a rappresentare la realtà anche perché il timore dell’impoverimento è ormai generale e non più limitato alla sola classe operaia. Prendiamo il caso delle discusse e discutibili ronde padane. Basta avere un minimo di conoscenza della realtà meridionale per sapere che da anni, nel silenzio delle forze politiche e delle istituzioni, nelle aree più a rischio molti genitori si organizzano per seguire a distanza, in auto, i propri figli adolescenti che trascorrono la serata fuori casa. Non è quindi sorprendente che, nel momento in cui le aree a rischio si moltiplicano, si moltiplichino anche i gruppi di volontari dai nomi (“Milano sicura”, “Genova sicura”, “Veneto sicuro”) e dagli obiettivi estremamente chiari: combattere lo spaccio di droga, la prostituzione per le strade, le occupazioni abusive di case, la microcriminalità.

Una sorta di «sicurezza partecipata », com’è stata definita da qualcuno, che si aggiunge al lavoro svolto dai tanti militanti formatisi nell’ampio reticolo associativo della Lega, sulle strade, nei mercatini, nei bar, attraverso la raccolta di firme, i picchetti per difendere gli interessi e l’identità locale (ad esempio, nelle lotte contro le quote latte), i cortei anti stupro.

È per l’insieme di queste ragioni che il radicamento di questa forza politica appare ormai un fenomeno stabile, mentre gli altri partiti, anche se con un elettorato molto più consistente, appaiono ciclicamente sull’orlo del collasso interno e del rapido declino; così era per Forza Italia qualche mese fa, così è per il PD dopo la sconfitta elettorale.

C’è infine un’ultima questione che va richiamata. A chi è demandato, oggi, il compito di formare e selezionare la classe politica? Un tempo, le organizzazioni di massa e le articolazioni territoriali dei partiti costituivano il luogo in cui i giovani svolgevano il loro apprendistato e si preparavano a diventare i dirigenti del futuro. Ma negli ultimi decenni, forse con l’eccezione delle aree dove le antiche tradizioni partecipative conservano una propria vitalità, l’emersione di competenze e capacità dal basso è stata sostituita molto spesso dalla cooptazione dall’alto. Tutto ciò, inevitabilmente, ha gravemente ridotto sia la dialettica interna che il ricambio generazionale, con dirigenti centrali e periferici inamovibili (quanto meno dai centri di potere effettivo) e un paio di nuove generazioni tenute ai margini.

Come recuperare allora un rapporto proficuo con il territorio? Quando pensiamo ai partiti di massa del Novecento, è come se avessimo sempre in mente il PCI, che si caratterizzava per la volontà del vertice di promuovere la colonizzazione della periferia attraverso la sua omogeneizzazione alla direttive centrali. Ma un modello alternativo, e oggi più attuale, è stato rappresentato dalla Democrazia Cristiana. Un partito “policefalo” – non troppo lontano da quella struttura a rete di cui si parla oggi, ma più concreto – che tendeva a costruire un dialogo permanente con l’ampio reticolo dell’associazionismo cattolico già preesistente sul territorio e che costruiva proprio sulla base di questo confronto, che non era sovrapposizione né espropriazione, le sue politiche. In assenza di un’ideologia forte capace di produrre una stabile mobilitazione, come poteva essere quella di classe o com’è quella etnico-comunitaria della Lega, e di fronte a una società civile spesso più vitale di quanto si creda, come mostrano le centinaia di migliaia di italiani coinvolti nelle attività di volontariato, il Partito Democratico non potrebbe trarre motivi di riflessione proprio da questo modello?