La nazione condivisa

Di Gennaro Malgieri Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

Non è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un «plebiscito» di tutti i giorni. Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza ad una cultura e ad un sistema di valori civili ci fa cittadini di una nazione. Sembra – e forse lo è – una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mondialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale.

 

Non è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un «plebiscito» di tutti i giorni. Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza ad una cultura e ad un sistema di valori civili ci fa cittadini di una nazione. Sembra – e forse lo è – una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mondialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale.

È difficile qualificare queste tendenze come ideologie strutturate; ma è viceversa facile riconoscerle come «veicoli» dell’ulteriore messa in discussione della nazione che apre la strada al rifiuto del riconoscimento delle specificità e, dunque, ad una sorta di «totalitarismo morbido» avente la pretesa dell’ineluttabilità dell’omologazione culturale quale fine ultimo della «guerra» alle differenze condotta soprattutto dai gruppi di potere finanziario e mediatico.

È per questo che la difesa della nazione si configura non come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno al principio dell’intangibilità dei «sacri confini» e moralmente giustificato da una improponibile «volontà di potenza» declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico ed afferma il diritto alla sovranità per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati. Per tale motivo, soprattutto, non si giustifica la pretesa di esportare (magari con le armi) la democrazia «all’occidentale» in aree geografiche dove popoli animati da altre culture non sono in grado di governarla e considerano chi intende promuoverla alla stregua di un colonialista. Ritenere, in altri termini, che chiunque ed ovunque debba ragionare secondo i nostri schemi mentali, desiderare ciò che noi desideriamo, essere insomma come noi o quantomeno assomigliarci è democraticamente discutibile oltre che offensivo del principio stesso di nazionalità.

La nazione, dunque, è un’idea antica che si rinnova. Credere di poter evitare di riferirsi ad essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzioni pubbliche è come voler attraversare un deserto privi di generi di sostentamento. Purtroppo l’errore che spesso, e da più parti, viene commesso è quello di pensare che la nazione sia un’anticaglia sentimentale, un cascame retorico e non, com’è in realtà, un «organismo vivente» i cui elementi, se non armonizzati, rischiano di produrre conflitti difficilmente sanabili.

Questo errore, con tutta evidenza, è affiorato quando si è pensato di riformare il sistema costituzionale italiano senza tenere conto dei valori a cui ispirare tale lavoro che, mi sembra incontestabile, non possono che essere i valori dell’unità della nazione e dell’integrità dello Stato nazionale. L’ingegneria costituzionale, senz’anima e priva di prospettive comprensibili dai cittadini, può partorire soltanto progetti velleitari; le grandi Costituzioni sono tali quando i principi che affermano sono in sintonia con lo spirito dei popoli. Uno degli errori del costituzionalismo moderno è consistito nel ritenere di poter fare a meno della nazione: non a caso uno dei pochi esperimenti del Novecento riusciti è stato quello dal generale de Gaulle perché profondamente legato alle istanze del popolo francese.

Questa dimensione che esplicita il sentimento dell’appartenenza sopra richiamato, è possibile coltivarla, difenderla, affermarla? Credo che tutte le forze politiche autenticamente popolari ed innestate, sia pure a diverso titolo, nella storia nazionale abbiano il dovere di rilanciarla al fine di contrastare sia le spinte disgregatrici che dall’interno operano per una rottura della comunità nazionale, sia l’invadente relativismo etico che dall’esterno si propone il fine di recidere legami culturali grazie ai quali si tiene insieme il paese.

Lo scorso autunno i caduti di Nassiriya ci richiamarono improvvisamente e drammaticamente al principio pre-politico dell’appartenenza. Perciò ci stringemmo, senza distinzione di parte, a loro e tra noi per marcare, appunto, l’appartenenza a una comunità radicata in un patrimonio di valori morali e spirituali che definiscono un altro sentimento che per decenni non ha avuto cittadinanza in Italia: il patriottismo; sentimento che preesiste al riconoscimento della stessa idea di nazione.

Dai giorni della tragedia irachena che ha segnato anche il nostro paese ci siamo chiesti tante volte se il sentimento del patriottismo possa coniugarsi con la vita quotidiana. In altri termini, se un valore assoluto e condiviso possa costituire la base per attivare quel senso della nazione la cui caduta è il principio del cosiddetto «declino italiano» al quale, opportunamente, si è più volte richiamato il presidente Ciampi per stimolare la ricerca di unità di intenti al fine della realizzazione e degli obiettivi che attengono al futuro del paese.

Di fronte a tale questione non credo ci si possa ritenere appagati dal fatto che una circostanza luttuosa ci ha fatto sentire per una volta «più italiani ». È auspicabile, invece, che le strutture istituzionali, formative e culturali in primo luogo, esercitino la necessaria funzione di sensibilizzazione attorno alla questione della coesione comunitaria per offrire orientamenti, soprattutto alle giovani generazioni, che esaltino l’identità nazionale e la offrano come motivo di confronto (e non di sopraffazione o di rivendicazione di fantasiose superiorità) con altre identità riconosciute, accettate e rispettate.

Per lungo tempo questa prospettiva è stata resa impraticabile dalla divisione ideologica del paese, incancrenitasi a tal punto che gli avversari politici si sono considerati «nemici» con tutta la forza dirompente che tale visione implica. Oggi, con l’affermarsi di una classe dirigente consapevole che l’uso strumentale della storia conduce all’inevitabile imbarbarimento della lotta politica e al disfacimento di quel che resta della coesione nazionale, ci si è incamminati sulla strada del superamento delle devastanti divisioni affinché in Italia non si riproducano più odi barbari ed elementari il cui unico risultato è stato quello di far crescere la diffidenza e far maturare un clima di disagio permanente, premesse per la fine di ogni tentativo di pacificazione.

L’antifascismo è stato ideologicamente e per molti anni il più efficace strumento di divisione. Quasi mai, e soltanto in alcuni settori della vita pubblica è «passato» l’ammonimento di Norberto Bobbio secondo il quale la riconquista della libertà politica è stata determinata dalla Resistenza antifascista, ma che non tutto l’antifascismo è stato democratico. Il tempo di mettere le cose a posto è arrivato, sia pure con deprecabile ritardo, non, come è facile capire, perché si possa utopisticamente sperare di riconoscere una storia unanimemente condivisa, ma quantomeno perché ognuno, della più diversa estrazione, possa finalmente accettare tutte le storie senza demonizzarne nessuna. E soprattutto affinché le storie non vengano utilizzate come improprie armi di lotta politica.

Dopo le recenti dichiarazioni del leader di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, a Gerusalemme, sarebbe opportuno che il confronto politico in Italia si «normalizzasse» e la democrazia dell’alternanza non subisse più le convulsioni periodiche a cui siamo purtroppo abituati, nella considerazione che ogni soggetto politico è parte integrante e legittimo della nazione; una nazione da condividere, non da affossare.

Nella scintillante introduzione al volume «La lezione spagnola» di Victor Pérez-Dìaz,1 Michele Salvati ha scritto: «La Resistenza, nel caso italiano, ha avuto effetti ambigui che si vedono oggi con chiarezza, se conditi con dosi abbondanti di senno del poi. Da un lato essa testimonia e insieme genera un risveglio di partecipazione democratica, una reazione popolare contro un regime abbietto, che è giusto ricordare come momento alto della nostra democrazia, come merito della nazione italiana. Dall’altro, però, il modo in cui la Resistenza è stata celebrata ha ritardato un’assunzione di responsabilità piena, dell’intera nazione, per il fascismo, inducendo una distorsione della memoria non piccola, a cominciare dal semplice fatto che il fascismo è stato abbattuto dagli Alleati, non dalla Resistenza. E questo è andato insieme, inevitabilmente, al ribaltamento delle responsabilità su una parte della nazione e dunque ha condotto ad una spaccatura della comunità nazionale, quella che si è poi riflessa nella politica dell’arco costituzionale».

Ricomporre questa frattura vuol dire incamminarsi sulla via del rinnovamento della nazione e respingere, con più forza e maggiori possibilità di successo, gli attacchi portati alla sua integrità da una quantità non trascurabile di «nemici» interni ed esterni a cominciare da quanti – e non soltanto nei confronti della nazione italiana – svolgono una costante e sottile opera di demolizione innanzitutto culturale.

In questo senso vanno lette le parole del presidente del Senato Marcello Pera, il quale ha sostenuto, nel dicembre scorso, come il «mito incapacitante» dell’antifascismo non avesse più ragione d’essere se utilizzato come motivo di divisione tra gli italiani e di conflitto politico. In margine alla presentazione del libro di Giampaolo Pansa «Il sangue dei vinti»,2 Pera ha affermato: «Non dobbiamo più dire che la Repubblica e la Costituzione sono antifasciste, ma che la Repubblica e la Costituzione sono democratiche».

Anche per liberare la democrazia da ogni tipo di pregiudizio escludente, a quasi sessant’anni dalla fine della guerra civile, forse è giunto il momento di mandare in soffitta, come auspica Pera, la «vulgata tolemaica resistenziale» e non certo per negare una parte della storia non secondaria del nostro paese, ma semplicemente perché è nei fatti il riconoscimento dell’etica e della pratica democratiche da parte di tutti i cittadini che si riconoscono nella Repubblica e nella Costituzione senza avvertire il bisogno di continuare a definirle contro qualcosa e contro qualcuno, posto che la migliore difesa delle stesse è l’accoglimento indiscutibile dei valori che le ispirano.

Se, come si sta facendo, si consegna il fascismo alla storia; se si prendono le distanze in maniera inequivocabile e perfino clamorosa dalle aberrazioni del «secolo delle idee assassine», come Robert Conquest ha definito il Novecento, dal razzismo al totalitarismo; se si scrivono pagine di storia a lungo misconosciute e finalmente si porta a conoscenza del grande pubblico il fatto che la Resistenza fu anche una storia di eccidi ingiustificati e di umane miserie, è naturale che si svestano la Repubblica e la Costituzione dei panni del «mito» resistenziale per affermare che esse sono soltanto democratiche, vale a dire di tutti gli italiani che tanto più si sentono liberi di riconoscersi nelle istituzioni quanto più queste vengono sottratte a definizioni storiche che significano poco o nulla, soprattutto quando sono generiche.

È un fatto che la Repubblica nasce dall’antifascismo, ma è altrettanto vero che in esso, come hanno sottolineato studiosi di estrazione e di sentimenti antifascisti, si manifestarono forme di violenza e di prevaricazione soprattutto in quel luogo noto come «triangolo della morte», che fecero vittime non soltanto nel campo fascista, ma molto più estesamente anche in ambiti del resistenzialismo che si opponevano all’egemonia dei comunisti nella liberazione.

Su questa pagina della nostra storia a lungo è stato vietato indagare proprio perché si temeva che venisse scalfito il «mito» della Resistenza. E così gli italiani sono stati indotti a ritenere che il movimento antifascista fosse costituito da tutti i paladini dell’ideale democratico, cosa che non fu. In esso la presenza dei comunisti che guardavano all’Unione Sovietica di Stalin come a un faro ispiratore è incontestabile. E sono stati gli stessi che hanno fatto passare in secondo ordine l’apporto dato dall’antifascismo democratico alla nascita della Repubblica. Anche per questa via la nazione si è perduta e per molto tempo abbiamo disperato di ritrovarla.

Oggi c’è necessità di rileggere la storia del Novecento per riconoscerci in valori e istituzioni democratiche, senza altre aggettivazioni, al fine di dare vita, possibilmente, a un nuovo patto costituzionale che risponda adeguatamente ai pressanti interrogativi del presente senza che nessuno possa dire che si tradisce lo spirito originario della Repubblica. Perciò il rigetto di tutti gli «anti» è indispensabile poiché sulla negazione non si edifica nulla di duraturo e di stabile.

Se ciò vale per l’antifascismo, non vedo perché non debba valere per l’anticomunismo. Quest’altra «religione» della delegittimazione non ha senso se strumentalmente applicata ad un soggetto che, almeno nelle forme rilevanti assunte nel passato, nel nostro paese non c’è più. È necessario, nel quadro della nazione da condividere, che si abbia rispetto di avversari che rivedono la loro storia alla luce della conoscenza acquisita e dei risultati devastanti cui sono pervenute le esperienze del socialismo reale. L’articolo di Piero Fassino, in questo senso, che «l’Unità» ha pubblicato a fine dicembre sulla tragedia delle foibe,3 è indicativo, come indicative furono una quindicina d’anni fa le non dimenticate rivelazioni di Otello Montanari sui crimini del dopoguerra. Ciò non vuol dire rinunciare all’anticomunismo per opporsi ai regimi totalitari che ancora si rifanno all’ideologia del terrorismo classista.

Insomma se una storia condivisa che fondi una comunità coesa non è pensabile, l’accettazione delle storie e il rispetto che verso di esse si impone, apre la strada, come ho accennato, a una nazione condivisa, da conquistare giorno per giorno nella prospettiva di dare un senso concreto al sentimento che sorregge l’idea stessa di nazione: il patriottismo. Com’è facile dimostrare, esso non può essere quello della Costituzione, come pure qualcuno ha sostenuto, né quello astratto pronto a farsi supporto ideologico a scopo di sopraffazione. Il patriottismo è il vincolo comunitario tra elementi reali che fanno parte della vita; non è escludente ma inclusivo; non è la suprema forma dell’egoismo collettivo, ma la prova di generosità di un consapevole aggregato umano conscio che la sua sovranità finisce laddove comincia la sovranità di altri; è il rispetto che si deve alle altre culture, a tutte le culture perché manifestazioni dello spirito dei popoli e che sarebbe delittuoso cancellare.

Patriottismo e democrazia, dunque si tengono, poiché, come osservava Lucien Febvre, il grande storico francese fondatore della scuola degli «Annales», la patria «è una parola astratta, presa in prestito, una parola classica, certo; ma che ben presto si è riempito di sostanza umana, di sostanza individuale, di sostanza vissuta». È questa «sostanza» che la legittima, in un certo senso. Perciò l’amor di Patria, per come storicamente si è incarnato, può dirsi un’estensione dell’ «amor proprio». I moralisti francesi del Settecento dicevano che ci si ama veramente soltanto amando la Repubblica e alla fine si arriva ad amarla più di se stessi.

Mi chiedo con Henry Jean-Baptiste d’Anguesseau, che scriveva di politica nel Diciottesimo secolo, se davvero il patriottismo che giustifica la passione nazionale, «questo amore pressoché connaturato all’uomo, questa virtù che conosciamo attraverso il sentimento, che acquisiamo attraverso la ragione, che dovremmo seguire per interesse, davvero possiede delle radici profonde nei nostri cuori?» Per quanto possa sembrare strano al debutto dell’arido Ventunesimo secolo, la risposta è assolutamente affermativa. E le radici profonde del patriottismo sono in tante cose che riassumono la nostra identità, ma soprattutto nel sacrificio di chi ha portato e continua a portare nel mondo una certa idea dell’Italia. Come i morti di Nassiriya.

 

 

Bibliografia

1 V. Pérez-Diaz, La lezione spagnola, Il Mulino, Bologna 2003.

2 G. Pansa, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo aprile il 25, Sperling & Kupfer, Milano 2003.

3 P. Fassino, L’Italia dei fratelli Cervi, in «L’Unità», 28 dicembre 2003.