Tecnologia e industria di fronte al terrorismo globale

Di Michele Nones Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

La globalizzazione della minaccia terroristica rappresenta senza dubbio l’elemento caratterizzante del nuovo scenario strategico. Rispetto al passato questa è la preoccupante novità di oggi, sia perché si muove autonomamente sulla base di proprie ideologie politiche e religiose, sia perché può saldarsi in alleanze tattiche con regimi autoritari che possono supportarne strumentalmente l’attività. In questo secondo caso ciò comporta che la sconfitta di tali regimi non elimini direttamente il fenomeno terroristico in quel territorio, ma che, anzi, lo faccia emergere, trasformando quello che era precedentemente un «santuario», utilizzato per l’addestramento, la gestione dell’attività, il supporto logistico e finanziario, il reclutamento e la residenza degli stessi terroristi in area di operazioni.

 

La globalizzazione della minaccia terroristica rappresenta senza dubbio l’elemento caratterizzante del nuovo scenario strategico. Rispetto al passato questa è la preoccupante novità di oggi, sia perché si muove autonomamente sulla base di proprie ideologie politiche e religiose, sia perché può saldarsi in alleanze tattiche con regimi autoritari che possono supportarne strumentalmente l’attività. In questo secondo caso ciò comporta che la sconfitta di tali regimi non elimini direttamente il fenomeno terroristico in quel territorio, ma che, anzi, lo faccia emergere, trasformando quello che era precedentemente un «santuario», utilizzato per l’addestramento, la gestione dell’attività, il supporto logistico e finanziario, il reclutamento e la residenza degli stessi terroristi in area di operazioni.

È stata questa l’esperienza dell’Afghanistan, ed è la stessa che sta vivendo l’Iraq adesso. E prima ancora la lezione del Medio Oriente, in particolare dei territori palestinesi. Uno degli errori dell’Occidente è stato di aver ritenuto quest’ultima un’esperienza localizzata, anche perché la minaccia terroristica ha coinvolto solamente Israele. In realtà bastava ricordarsi degli attentati alle sedi delle truppe americane e francesi a Beirut nell’ottobre 1983 (diciotto anni prima delle Twin Towers) per rendersi conto dei rischi connessi con qualsiasi intervento diretto in tutta l’area. La saldatura fra fondamentalismo islamico e terrorismo ha moltiplicato la micidiale potenza del fenomeno terroristico e ne ha allargato le capacità operative, finendo col coinvolgere: con l’attacco a New York e Washington dell’11 settembre 2001, il territorio e i cittadini degli Stati Uniti, identificato come il principale paese nemico; con gli attentati di Djerba nell’aprile 2002, di Bali nell’ottobre 2002 e di Istanbul nel novembre 2003, i cittadini dei paesi alleati degli Stati Uniti anche fuori dai loro confini; con quello di Madrid in marzo, il territorio e i cittadini dei paesi intervenuti in Iraq (seppur dopo la fine della guerra); con l’attacco alla sede delle Nazioni Unite a Baghdad dell’agosto 2003, anche le istituzioni internazionali accusate di aver avvallato l’intervento in Iraq.

In questo nuovo scenario lo stesso concetto di «difesa», intesa su un piano esclusivamente militare, è stato sostituito da quello di «sicurezza e difesa», in cui inizialmente il termine sicurezza caratterizzava un approccio più politico e meno militare, ma che oggi si è ormai esteso anche alla tutela della popolazione e del territorio contro le minacce non convenzionali. Tali minacce sono caratterizzate da una quasi totale imprevedibilità in termini di tempo, di luogo di provenienza e di esecuzione e di modalità di attuazione. Richiedono quindi la messa a punto di una nuova dottrina di difesa che rielabori l’impostazione dei sistemi di difesa e di gestione delle emergenze. Impongono anche dei cambiamenti nelle abitudini e negli stili di vita, con le inevitabili conseguenze giuridiche e istituzionali. Il fenomeno terroristico è purtroppo diventato una malattia endemica che richiederà molto tempo per essere debellata. Con esso dobbiamo imparare a convivere, anche se questo non deve significare la rinuncia a operare per eliminarne o, almeno, ridurne le cause e la capacità di attrazione.

La minaccia del terrorismo globale richiede anche la disponibilità di nuovi equipaggiamenti per contrastarlo e per gestire le emergenze che si possono verificare sul proprio territorio e a livello internazionale. La predisposizione di tali equipaggiamenti richiede, a sua volta, archi di tempo sufficientemente lunghi soprattutto a causa della complessità tecnologica insita in questi sistemi. Le fasi di ricerca, sviluppo, industrializzazione possono assorbire parecchi anni e lo stesso può valere per la produzione in quantità adeguate. Di qui la necessità della maggiore visibilità possibile su quella che potrà essere l’evoluzione del futuro mercato della sicurezza e difesa. Si tratta infatti di cominciare a lavorare oggi per risultati che potranno essere conseguiti solo nel medio periodo sia dal punto di vista operativo, sia dal punto di vista industriale.

Quello della sicurezza e difesa è destinato a rimanere un mercato sui generis. Due aspetti continueranno in particolare a caratterizzarlo: una domanda prevalentemente pubblica e una bassa standardizzazione degli equipaggiamenti.

Primo. La domanda militare è oggi quasi esclusivamente pubblica, anche se non sono mancati e non mancano in alcuni paesi esempi di organizzazioni private che offrono capacità militari (pur senza armamenti pesanti). Un tempo queste ultime intervenivano soprattutto nei paesi in via sviluppo a supporto dei rispettivi governi. Oggi, la generale tendenza alla «privatizzazione» sta coinvolgendo anche alcune «attività militari» nei paesi industrializzati. Lo testimoniano le esperienze americane nel trasporto e nel supporto logistico da parte di imprese private anche in zone limitrofe a quelle di operazioni militari, come nella guerra contro l’Iraq, e la nuova iniziativa inglese per affidare il servizio di aerorifornimento a una compagnia privata che sarà proprietaria dei velivoli tanker, un mezzo che fino ad ora è stato acquistato solo dalle Aeronautiche militari.

La domanda nel settore della sicurezza vede invece anche una crescente componente privata, legata alla sua più ampia diffusione e all’impossibilità degli organismi pubblici di gestirla in via esclusiva per ragioni finanziarie e di risorse umane, oltre che di flessibilità. Vi è, infatti, una necessità di rapido adattamento alle esigenze espresse dal mercato che mal si concilia con l’inerzia e la rigidità che caratterizzano i servizi pubblici. Basti pensare, ad esempio, al controllo degli accessi aeroportuali. La domanda è esplosa in pochissimo tempo e il servizio è caratterizzato da una fortissima variabilità rispetto all’orario giornaliero e al calendario. Essendo impossibile farvi fronte con dipendenti pubblici, in tutti i paesi industrializzati è stato affidato a società private in grado di assumere rapidamente il personale necessario e di utilizzarlo con contratti part-time. Oggi le attrezzature tecnologiche da loro utilizzate sono di proprietà delle società aeroportuali, che già costituiscono un’utenza privata o semi-pubblica; in futuro potrebbero essere sostituite direttamente dalle società di sorveglianza, che diventerebbero così proprietarie di sistemi anche complessi per il controllo degli accessi in modo da poter fornire un servizio «chiavi in mano».

In generale si deve però ritenere che la domanda sia destinata a mantenere un carattere prevalentemente pubblico. La sua evoluzione sarà quindi condizionata dalle limitazioni legate al livello di attenzione e disponibilità dell’opinione pubblica, alle scelte politiche dei governi, al reperimento di fondi nell’ambito della spesa pubblica e ai tempi necessari sul piano decisionale e operativo. Tutto questo si traduce in un maggiore grado di imprevedibilità rispetto ad altri mercati. Accelerazioni improvvise della domanda in seguito a situazioni di pericolo o di crisi, ma anche rallentamenti o diluizioni dei programmi di acquisizione in relazione alla presunta diminuzione del rischio sono un’esperienza diffusa sul mercato della difesa ed è probabile che caratterizzi anche il nascente mercato della sicurezza.

Secondo. Nel mercato della difesa la standardizzazione degli equipaggiamenti è stata in tutto questo dopoguerra un obiettivo perseguito all’interno dell’Alleanza atlantica (ma anche nel Patto di Varsavia).

Si sono ottenuti importanti risultati, ma non completi. Per scelte legate alla tradizione, per sfasature nei tempi di acquisizione di determinati mezzi, per volontà di difendere le industrie nazionali in molti campi la standardizzazione resta tuttora un obiettivo da perseguire. Non a caso in diverse sedi (NATO, WEAG, LOI, rapporti transatlantici bilaterali) si lavora sull’armonizzazione dei requisiti militari, individuati come base di partenza per un processo di effettiva standardizzazzione.

Si tratta di un mercato pubblico, non solo perché la domanda è espressa dagli Stati (anche sotto forma di finanziamento della ricerca), ma perché le sue regole sono fissate dai governi in termini di possibilità di operare, autorizzazione sotto il profilo della sicurezza, controllo delle esportazioni. La sua standardizzazione è quindi legata a decisioni di carattere politico.

Ancora meno standardizzato è il mercato della sicurezza, per lo meno in questa fase iniziale. I requisiti in molti casi non sono ancora stati definiti o lo sono solo a livello nazionale. Poiché si tratta di un mercato in rapida evoluzione, soprattutto sul piano tecnologico, è più difficile poterli fissare. Non esistono organizzazioni sovranazionali e, di conseguenza, le scelte avvengono a livello nazionale. Pesa, inoltre, la molteplicità dei potenziali clienti (pubblici, semi-pubblici, privati) e degli organismi pubblici che esercitano una qualche competenza sul settore (nel caso italiano, Difesa, Interni, dipartimento della Protezione civile della presidenza del Consiglio, Autorità nazionale della sicurezza, Trasporti e Comunicazioni, Salute, più vari enti nazionali e locali).

Nel complesso resta una minore standardizzazione rispetto ad altri mercati dove la deregolamentazione e la globalizzazione portano tendenzialmente all’affermazione di standard comuni.

Al fine di prefigurare l’evoluzione della domanda nel campo della difesa e della sicurezza è necessario individuare i possibili scenari di utilizzo di tali equipaggiamenti.

Schematicamente possono essere così indicati: nel campo militare, difesa del territorio nazionale da attacchi militari dall’esterno con armi convenzionali e non convenzionali; operazioni fuori dai confini nazionali per la tutela degli interessi nazionali e per il ristabilimento e/o il mantenimento della pace. Nel campo della sicurezza, contrasto verso attacchi terroristici sul territorio nazionale con armi convenzionali e non convenzionali; prevenzione verso tali attacchi sul territorio nazionale e nelle zone di intervento; gestione delle emergenze nell’eventualità si verifichino attacchi sul territorio nazionale e nelle zone di intervento.

L’attuale grado di preparazione varia da paese a paese, ma sicuramente la maggiore, se non esclusiva, attenzione è stata data al campo militare e, in particolare, allo scenario della difesa del territorio nazionale da attacchi militari dall’esterno con armi convenzionali e non convenzionali. Solo alcuni paesi (Stati Uniti e Unione Sovietica, Francia e Regno Unito) si sono tradizionalmente attrezzati per far fronte allo scenario che riguarda operazioni fuori dai confini nazionali per la tutela degli interessi nazionali e per il ristabilimento e/o il mantenimento della pace, seguiti poi dall’Italia e, più recentemente, da altri.

Scarsa e limitata attenzione è stata data in passato agli scenari legati alla sicurezza. Ma anche dopo l’11 settembre la risposta è avvenuta, con l’esclusione degli Stati Uniti, in ritardo e limitata, come dimostrato dall’ormai lungo elenco di attentati terroristici condotti con successo sui territori nazionali e nelle zone di intervento contro militari e civili di tutte le nazionalità.

Profondamente diversi sono gli equipaggiamenti necessari per affrontare i diversi scenari. Scendendo dal primo all’ultimo, si passa, in generale: dai sistemi d’arma complessi a quelli meno complessi fino all’armamento di precisione; dall’esasperazione delle capacità di attacco a quelle di difesa; dalla difesa collettiva a quella individuale; dai sistemi e mezzi militari a quelli duali o civili.

Base comune di tutti questi scenari è una fortissima esigenza in termini di raccolta di informazioni e di capacità di comando, controllo e comunicazione.

La disponibilità di informazioni, quantitativamente e qualitativamente adeguate, rappresenta un primo fattore-chiave. Il contrasto della minaccia, militare o terroristica, passa attraverso la capacità di informazione.

A cambiare sono evidentemente gli strumenti perché un complesso e completo sistema di sorveglianza satellitare è indispensabile in campo militare, ma poco efficace nel campo della sicurezza, dove è invece più utile un sistema di intercettazione delle comunicazioni civili o di video-sorveglianza delle aree a rischio o di sospetto utilizzo (anche se questo pone altri problemi sul terreno della tutela della privacy e della libertà individuale). La minore complessità di questi ultimi è però accompagnata dalla necessità di una loro più massiccia diffusione. Questo, a sua volta, comporta una produzione adeguata sul piano industriale e lo sviluppo di una capacità di raccolta e selezione delle informazioni sul piano gestionale e, quindi, la disponibilità di sistemi in grado di trasformare i dati in informazioni e queste in «conoscenza». L’obiettivo è di eliminare il rischio di inaffidabilità dei dati, della presenza di dati non pertinenti e di dati fuori tempo e di arrivare a un quadro caratterizzato da dati affidabili, rilevanti e tempestivi. Da questo punto di vista è indispensabile mutuare l’esperienza acquisita in campo militare travasandola nel campo della sicurezza.

Sul piano tecnologico la sensoristica ha compiuto nell’ultimo ventennio passi da gigante diffondendosi in più direzioni. Sono oggi disponibili o si stanno sviluppando sensori radar, satellitari, ottici, video, termici, elettromagnetici, acustici, biometrici, ambientali. Ma operano prevalentemente in modo indipendente, oltretutto separati fra applicazioni militari e di sicurezza. Il primo obiettivo è quello della loro interconnessione, il secondo è quello del loro inserimento in un sistema integrato.

Al centro di questo sistema integrato vi deve essere lo sviluppo di una efficace capacità di supporto alle decisioni e di comando, controllo e comunicazione delle operazioni. La disponibilità di informazioni adeguate deve trovare sbocco in decisioni conseguenti e nella loro esecuzione. La maggiore imprevedibilità degli scenari legati alla sicurezza rispetto a quelli militari impone una maggiore flessibilità della risposta in modo da poterla adattare alla loro più rapida evoluzione. La definizione di modelli di risposta attraverso la simulazione è diventata più difficile per l’imprevedibilità e la potenziale estensione della nuova minaccia terroristica. La complessità dei sistemi destinati a questi compiti è, di conseguenza, maggiore e richiederà una loro continua implementazione per gestire le crescenti capacità dei sensori e l’accumularsi delle informazioni disponibili nel tempo.

Qui si presenta, tuttavia, un’ulteriore difficoltà d’ordine istituzionale perché mentre la minaccia militare è di competenza dei ministeri della difesa e delle Forze armate, la minaccia terroristica coinvolge, come si è detto, organismi diversi ed è più difficile una raccolta centralizzata delle informazioni e una loro interiorizzazione in termini di conoscenza. Interessante, da questo punto di vista, è la decisione americana di dare vita a un nuovo dipartimento federale, quello della Homeland Security, un organismo che ha ben poco in comune con i tradizionali ministeri dell’interno europei perché il suo obiettivo è specificatamente quello del contrasto della minaccia terroristica. Ci si può domandare se questo tipo di problematica non dovrebbe comportare qualche cambiamento anche nel nostro paese, per lo meno attraverso la costituzione di un Consiglio per la sicurezza nazionale in grado di coordinare più efficacemente l’attività delle diverse amministrazioni sia sul piano della prevenzione, sia su quello dell’analisi dei rischi, sia su quello della gestione delle eventuali emergenze. È un problema emerso in occasione di tutte le crisi in cui siamo stati coinvolti, ma che è sempre stato accantonato superata l’emergenza. Oggi si ripropone a partire proprio dalla necessità di gestire e utilizzare la grande massa di informazioni disponibili o acquisibili.

L’industria italiana della difesa può vantare una significativa capacità tecnologica e produttiva per far fronte ai nuovi scenari individuati. Oltre ai necessari sistemi d’arma per contrastare la minaccia, l’industria italiana ha maturato una lunga esperienza nel campo della sicurezza e controllo del territorio, dove ha realizzato o sta realizzando: il sistema di sorveglianza satellitare militare/civile Cosmo Skymed, basato su una costellazione di satelliti radar e ottici in grado di operare ognitempo; sistemi aerei di sorveglianza basati su velivoli ad ala fissa (ATR 42 MPA) e rotante; sistemi di sorveglianza aerea e costiera basati su radar a terra; sistemi di sorveglianza navale; sensori di diverso tipo; sistemi di comando, controllo e comunicazione. Altrettanto importante è l’esperienza acquisita nel campo della sicurezza e controllo dello spazio aereo: sistemi di sorveglianza basati su radar a terra; sistemi per la gestione del traffico aereo; sistemi di comando, controllo e comunicazione. Non deve, inoltre, essere sottovalutato il fondamentale apporto che può venire dai mezzi militari di trasporto sia per l’intervento nelle Peace Support Operations, sia per l’evacuazione di civili (italiani e non) e l’invio di mezzi e materiali nelle aree di crisi (anche in soccorso della popolazione civile): il velivolo da trasporto tattico C 27 J; l’elicottero pesante EH 101 e quello medio AB 139, oltre a quelli leggeri A 109 e A 119; i mezzi blindati Dardo (cingolato) e Puma (ruotato) e il veicolo da trasporto VM 90 e quello leggero VTLM; le navi per operazioni anfibie classe San Giorgio.

Le nuove esigenze di sicurezza possono quindi rappresentare per l’industria italiana anche un importante mercato di sbocco per le proprie capacità. Questo presuppone che lo Stato intervenga tempestivamente per finanziare l’acquisizione degli equipaggiamenti necessari e fissi i requisiti che devono essere soddisfatti in modo da assicurare l’interoperabilità di sistemi e sensori a livello nazionale ed evitare una frantumazione del mercato che sarebbe deleteria per la gestione integrata dei mezzi e per lo sviluppo dell’attività industriale.

Per cogliere questa opportunità l’industria deve però attrezzarsi opportunamente, risolvendo i problemi sul tappeto. Il primo problema è quello di non illudersi che tutti i programmi in corso o appena avviati nel campo militare possano essere mantenuti secondo le previsioni iniziali. La lunghezza di tali programmi e il cambiamento dello scenario strategico-militare, oltre all’indisponibilità di adeguate risorse finanziarie, impongono una loro ridefinizione che va rapidamente e coraggiosamente affrontata insieme alle Forze armate. Il secondo problema è «culturale». Abbandonare il mercato della sicurezza per inseguire le parti più sofisticate del mercato aerospaziale e della difesa, se non in pochissime aree dove l’industria italiana può già vantare posizioni di eccellenza tecnologica, rappresenterebbe un gravissimo rischio di affermazione dei competitori esteri che diventerebbero poi imprendibili. Così avvenne negli anni Ottanta nel campo delle Fast Patrol Boat dove la nostra industria cantieristica non entrò per inseguire l’obiettivo dei molto più sofisticati aliscafi col risultato che solo gli altri cantieri europei conquistarono commesse per centinaia di unità, mentre l’unico cliente degli aliscafi restò la Marina. Solo oggi, con grande fatica, si può cominciare a puntare sul mercato internazionale. Così avvenne negli stessi anni Ottanta nel campo dei lanciatori, inseguendo il sogno di una base italiana (Malindi) e di un lanciatore tutto italiano. Oggi, a parte qualche anacronistico ritorno di fiamma, il programma è diventato europeo e la base utilizzata sarà quella europea di Korou.

Il terzo problema è quello della razionalizzazione e dell’efficientamento del sistema industriale. In numerosi segmenti il processo è già stato portato a termine come testimoniano i successi sul mercato internazionale (elicotteri e velivolo da trasporto C 27 J, radar, sistemi di controllo del traffico aereo, sistemi di comunicazione). In altri segmenti il processo deve ancora svilupparsi ed è indispensabile farlo rapidamente sia per poter rimanere sul mercato della difesa dove l’apertura del mercato è ormai alle porte (e non si può più sperare di nascondersi dietro presunte esigenze di sicurezza nazionale) e dove la partecipazione ai programmi internazionali non può più basarsi solo sul meccanismo del cost sharing/ work sharing, sia per poter entrare nel nuovo mercato della sicurezza.

Infine, un quarto problema è legato alla natura del mercato della sicurezza. Le barriere all’ingresso che caratterizzano il mercato militare non sussistono per quello della sicurezza. È quindi inevitabile che le industrie tecnologicamente avanzate presenti sul mercato civile intervengano anche su quest’ultimo. Hanno già molte delle competenze necessarie e il vantaggio di essere abituate a operare in un mercato competitivo. In alcuni casi potrebbero non assicurare il massimo livello tecnologico, ma potrebbero farlo a costi molto più bassi. L’industria dell’aerospazio e difesa si dovrà, di conseguenza, misurare anche con nuovi concorrenti esterni: una sfida che può essere affrontata positivamente solo da quelle imprese che sapranno essere veramente competitive.