Per la desantificazione di Gerusalemme

Di Meir Shalev Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Ogni volta che Gerusalemme viene definita «la città eterna della pace», non posso fare a meno di sorridere in silenzio, dissentendo. Perché io, come abitante di Gerusalemme, so che si tratta di una bugia. Questa non è, né è mai stata, la città della pace. È una città che non apprezza le persone che vi vivono oggi. Quando lo scrittore Herman Melville centocinquanta anni fa la visitò, solo dopo una settimana di soggiorno, affermò: «Gerusalemme è circondata da cimiteri e i morti sono la confraternita più forte». Aveva perfettamente ragione.

 

Ogni volta che Gerusalemme viene definita «la città eterna della pace», non posso fare a meno di sorridere in silenzio, dissentendo. Perché io, come abitante di Gerusalemme, so che si tratta di una bugia. Questa non è, né è mai stata, la città della pace. È una città che non apprezza le persone che vi vivono oggi. Quando lo scrittore Herman Melville centocinquanta anni fa la visitò, solo dopo una settimana di soggiorno, affermò: «Gerusalemme è circondata da cimiteri e i morti sono la confraternita più forte». Aveva perfettamente ragione.

Ogni volta che vengo a Roma penso che a differenza di questa città, dove gli imperatori di duemila anni fa riposano in pace nelle loro tombe, gli imperatori, i profeti e i generali di Gerusalemme sono sempre vivi e attivi. Nessuno di loro è mai morto veramente. Forse sono nelle loro tombe, ma sono ancora attivi: siedono in parlamento, nei palazzi comunali, sono gli artefici della politica attuale e decidono cosa succederà domani agli abitanti di Gerusalemme.

Non come religioso, ma come ebreo, credo che spetti anche alla religione ebraica determinare il destino di Gerusalemme. Poiché noi siamo stati i primi a fare di questa città un luogo sacro, e a farne un luogo sacro per le altre religioni. Gesù Cristo non sarebbe mai venuto a Gerusalemme se non vi fosse stato il Tempio Sacro dove egli venne a pregare e dove intendeva correggere l’ebraismo. Personalmente, mi rammarico che non siano state accettate le sue proposte di correzione. E non ci sarebbe mai stata una visita notturna del Profeta Maometto.

Spetta dunque alla nostra religione, la più antica religione monoteista, fondatrice della santità di Gerusalemme, fare qualcosa contro la sacralità distruttiva di questa città, con l’aiuto di una supervisione internazionale. Si tratta di un suggerimento irrealizzabile al momento, che deve tuttavia essere introdotto e discusso affinché si inizi una sorta di «desantificazione» di Gerusalemme. Per renderla una città che, al pari di Atene e Roma, sia fonte di spiritualità, orgoglio e storia e non una fonte di conflitto e guerra. Gerusalemme non ha mai conosciuto un’era di pace, in primo luogo a causa della religione. Dovremmo forse dichiarare le zone sante della vecchia città di Gerusalemme uno spazio internazionale sotto supervisione internazionale. In questo momento Gerusalemme ricorda più uno un sito nucleare impazzito o un buco nero nello spazio che impedisce qualsiasi forma di vita attorno ad esso.

Voglio provare ad essere concreto anche senza usare la parola «dialogo». Esiste un’unica soluzione al conflitto israelo-palestinese, nota ormai a tutti. Israele deve evacuare tutti i territori occupati nel 1967, lasciare che i palestinesi costruiscano il loro Stato indipendente, la linea verde deve costituire il confine tra Israele e la Palestina, entrambi devono riconoscere la sovranità e la sicurezza reciproca. Si tratta di una soluzione difficile, ma più si aspetta, più sarà difficile con il passare degli anni. Oggi assomigliamo a un gruppo di matematici che fingono di non vedere la banalità di una somma perfetta, cercando di trovare alternative della cui inesistenza sono perfettamente consapevoli, senza ottenere alcun risultato.

Mi è sovente capitato di scontrarmi con una sorta di «impazienza» degli europei verso il processo di pace. Sembra che in Europa si voglia ottenere un risultato più velocemente possibile, che ebrei e palestinesi si abbraccino immediatamente davanti agli europei. Ma la pace non potrà essere una riconciliazione fatta di baci e abbracci. Sarà invece una pace che, nella migliore delle ipotesi, potrà vederci come buoni vicini di casa. Almeno per i primi anni.

Forse, col tempo, potremo dare agli europei la gioia di vederci abbracciare i nostri vicini. Ma adesso, l’invito che deve esserci rivolto è «fate la pace!» e non «amatevi!». Questo sarà il processo a cui auspico di poter assistere in un futuro prossimo. Questo è un conflitto che si protrae da cento anni. L’Europa ha impiegato mille anni per raggiungere sulla propria terra la pace di cui voi oggi beneficiate. Negli ultimi mille anni tutti i paesi europei si sono combattuti a vicenda. Non ci vorrà un millennio per raggiungere la pace nella Terra Santa. Dobbiamo tuttavia essere pazienti; apprezzeremo ogni aiuto dall’America e dall’Europa, ma non si tratterà comunque di un processo veloce.