L'America divisa

Di Carlo Pinzani Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

Le attuali condizioni del sistema delle relazioni internazionali, e in particolare di quelle tra le due rive dell’Atlantico, rendono necessario approfondire le motivazioni che sembrano ispirare la politica degli Stati Uniti d’America sotto l’Amministrazione di George W.Bush. E, si badi, quest’esigenza sussiste indipendentemente dalla vicenda dell’Iraq, dal momento che il problema della nuova politica americana continuerà a porsi quale che sia l’esito del prolungato dopoguerra e anche della stessa guerra al terrorismo.

 

Le attuali condizioni del sistema delle relazioni internazionali, e in particolare di quelle tra le due rive dell’Atlantico, rendono necessario approfondire le motivazioni che sembrano ispirare la politica degli Stati Uniti d’America sotto l’Amministrazione di George W.Bush. E, si badi, quest’esigenza sussiste indipendentemente dalla vicenda dell’Iraq, dal momento che il problema della nuova politica americana continuerà a porsi quale che sia l’esito del prolungato dopoguerra e anche della stessa guerra al terrorismo.

Da Toqueville in poi, è divenuto un luogo comune che l’eccezionalismo degli Stati Uniti trovi il suo principale fondamento nell’assenza di ogni residuo feudale e nella conseguente libertà di cui hanno goduto sia lo sviluppo del capitalismo, sia la potenzialità di ogni americano di ascendere ai più alti livelli della scala sociale.

In realtà, secondo Toqueville, questi tratti distintivi erano dovuti assai più alle straordinarie dimensioni geografiche del paese che alla sua struttura sociale. Ma dall’assenza dei condizionamenti feudali e dall’eccezionale sviluppo demografico ed economico degli Stati Uniti nel XIX secolo hanno preso forza tanto le teorie sull’eccezionalismo americano quanto le tendenze a considerarne la storia esclusivamente in una prospettiva di breve periodo. Di qui la prevalenza di interpretazioni fondate sui «cicli» della politica negli Stati Uniti, specialmente dopo la formazione dei grandi partiti tradizionali negli anni Trenta dell’Ottocento. A partire da questo periodo si è teorizzata un’alternanza più o meno regolare tra democratici e repubblicani nel governo del paese.

Già anteriormente all’indipendenza era possibile, nelle diverse colonie americane della Corona britannica, distinguere tra gli insediamenti costieri e i cosiddetti backsettlers, stabilitisi più all’interno. Mentre i primi disponevano del potere politico ed economico, i secondi si confrontavano direttamente con le popolazioni autoctone, attraverso il commercio e, gradualmente, l’acquisizione di terre.

Dopo l’indipendenza, gli Stati Uniti si sono sviluppati per tutto il XIX secolo attraverso un movimento di popolazione e di risorse da Oriente a Occidente in un territorio sterminato: da qui il valore fondante del mito della frontiera nella creazione dell’identità degli Stati Uniti, vero e proprio paradiso per i diseredati dell’Europa affamati di terra.

Anche dopo l’indipendenza, il potere politico ed economico era rimasto sulla East Coast, fino a quando i discendenti dei backsettlers trovarono in Andrew Jackson, uomo del Sud, un politico in grado di fungere da esponente a livello federale dei ceti sociali più demuniti e degli Stati meridionali, sempre più insofferenti all’egemonia esclusiva degli Stati costieri del Nord-Est. Nasceva allora il Partito democratico, partito del Sud, composto prevalentemente di ceti popolari e culturalmente populista, legato agli interessi agricoli e commerciali degli Stati ove prevaleva la proprietà schiavistica, avverso al potere finanziario delle banche e timoroso dello sviluppo industriale capitalistico. La nuova forza politica si caratterizzava marcatamente in relazione alla questione della schiavitù. Nel 1835, ancora Toqueville denunciava come «il più pericoloso dei mali che minacciano il futuro degli Stati Uniti» quello che «nasce dalla presenza dei negri sul loro suolo. Quando si ricercano le cause delle difficoltà attuali e dei pericoli futuri dell’Unione si arriva, da qualsiasi lato lo si consideri, a questo dato di partenza». Lo scrittore francese attribuiva questa pericolosità alla disuguaglianza derivante dalla mancata integrazione assai più che dalla discriminazione legislativa, e conseguentemente affermava che «l’eliminazione della schiavitù negli Stati Uniti non avviene nell’interesse dei negri bensì in quello dei bianchi».1

La crescente disponibilità di risorse finanziarie e di beni naturali favoriva lo sviluppo economico fondato sul lavoro salariato piuttosto che su quello schiavistico. Fu questa la spinta principale dell’abolizionismo, promosso dal Partito repubblicano, già allora collegato con la finanza e con la nascente grande industria e localizzato prevalentemente nel Nord-Est. Nonostante i solenni impegni costituzionalmente sanciti che avrebbero dovuto mettere al riparo gli Stati del Sud – i futuri confederati – da ogni tentativo di abolizione della schiavitù, i repubblicani spinsero la pressione tanto avanti che la secessione del Sud divenne inevitabile, dando luogo alla guerra civile. Questa, al pari di tutte le guerre civili, fu particolarmente aspra e crudele: la vittoria nordista lasciò gli Stati del Sud in condizioni gravissime di distruzione e di miseria per risollevarsi dalle quali furono necessari decenni.

Durante il periodo della ricostruzione del Sud, il predominio politico del Partito repubblicano fu abbastanza continuo e marcato fin quando, grazie al collegamento – già operante peraltro nell’epoca jacksoniana – dei poor white men della Confederazione con le nuove ondate d’immigrazione dall’Europa (irlandesi, ebrei, italiani), il Partito democratico tornò ad essere competitivo.

È a questo punto che assume pieno valore la teoria dei «cicli» della politica americana, caratterizzata da un prevalente ma non esclusivo bipolarismo e dalla presenza di formazioni politiche ideologicamente assai caratterizzate. L’alternanza di periodi di egemonia repubblicana con altri in cui prevalevano i democratici si è protratta dalla fine del XIX secolo agli anni Sessanta del XX. Cominciò allora a delinearsi un fenomeno di grande rilevanza ai fini del nostro discorso sulla lacerazione che oggi caratterizza la vita politica negli Stati Uniti.

Le spiegazioni fondate sull’andamento ciclico della politica americana hanno ripreso vigore nell’ultimo decennio del secolo XX. Significativo, da questo punto di vista, appare il lavoro di John Gerring sul ruolo dell’ideologia nella storia dei partiti americani.2 Questo autore inserisce l’attuale neoconservatorismo americano nella tradizione repubblicana, facendone risalire le origini addirittura agli anni Venti e confutando così le incipienti denunce di una pericolosa involuzione del conservatorismo americano, considerata una grande e pericolosa novità. A ben vedere, questa novità è il punto di approdo di una quarantennale evoluzione iniziata con il precoce e infruttuoso tentativo di uno sconosciuto senatore dell’Arizona, Barry Goldwater, di andare alla ricerca della «maggioranza silenziosa» contro la politica di integrazione razziale condotta da J.F. Kennedy e Lyndon Johnson. Da allora infatti si è assistito alla ripresa e all’intensificazione del fenomeno del trasferimento di popolazione e di risorse dal Nord-Est al Sud e all’Ovest del paese.

Sul piano demografico nel periodo 1960-2000 la popolazione complessiva degli Stati Uniti è aumentata dell’11,9%, ma per il Sud-Ovest il tasso d’incremento è stato del 15,7% e per il Nord-Est soltanto del 7,4%. Contemporaneamente, dal 1960 al 2002, il reddito medio pro capite degli Stati Uniti è aumentato di 21,19 volte, quello del Sud e dell’Ovest è cresciuto di 29,67 volte e quello delle grandi aree del Nord-Est e del Midwest solo di 17,52 volte.3

Gli indicatori di questo tipo potrebbero moltiplicarsi. Le cause di questo continuo, a tutt’oggi inarrestabile, movimento non vanno ricercate soltanto nella tradizione, ma anche in concrete politiche che, a livello federale e dei singoli Stati, hanno teso a incentivare gli investimenti nelle zone indicate, anche in risposta alla crisi dei settori industriali tradizionali, collocati prevalentemente sulla costa atlantica e nel Midwest. Questa evoluzione non riguarda soltanto l’incremento demografico derivante dall’afflusso in zone climatiche più temperate delle schiere di pensionati, rese più folte dalle tutele sociali e dall’allungamento della vita.

Con i pensionati sono arrivati nel Sud e nel West gli investimenti nei settori più innovativi, dalla produzione di semiconduttori a quella di energia, dai servizi informatici alle attività economiche collegate con la sicurezza, alle stesse installazioni militari collocate prevalentemente nello stesso spazio, la gigantesca area a forma di L, che corre ai due lati del continental divide, estendendosi verso Sud dalle Montagne rocciose alla costa atlantica. In quest’ambito geografico si è svolto nell’ultimo quarantennio un processo di straordinaria rilevanza politica: la formazione di un blocco sociale potenzialmente egemone orientato verso politiche conservatrici e di destra, che possono riassumersi in forme di liberismo antistatalista – che si ferma però di fronte alle esigenze del complesso militare-industriale – e di conservatorismo etico e giuridico contrario alla decadenza dei costumi nel campo della religione, della morale sessuale, della responsabilità individuale artificiosamente contrapposta alla protezione sociale e alla solidarietà. Di esso fanno parte ceti elevati e intermedi, ma la maggioranza è costituita da ceti popolari, in gran parte gli stessi che fino agli anni Ottanta costituivano il nerbo dei democratici meridionali. Pur confermando una precedente tendenza di lungo periodo, l’ascesa del Sud e dell’Ovest ha probabilmente caratteri di stabilità tali da eliminare o, comunque, rendere diversa dal passato l’alternanza di cicli nella politica americana.

Le origini di questo nuovo blocco sociale devono farsi risalire, come si è accennato, alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, all’apice della politica del progressismo democratico, quando sotto la guida di Kennedy e Johnson, il Partito democratico decise di affrontare i termini reali della questione razziale, facendo approvare, con il Civil Rights Act del 1964 e con il Voting Rights Act del 1965, due emendamenti alla Costituzione a tutela dei diritti degli afro-americani. Il problema individuato da Toqueville dell’integrazione delle comunità veniva per la prima volta concretamente affrontato dal governo federale. Fino ad allora la questione era stata rimossa dalla coscienza dell’America, nonostante il grande miglioramento delle condizioni di vita degli afro-americani.

E contro questo tentativo si appuntò la polemica di Goldwater. Per quanto sconfitto, egli lasciò un messaggio destinato a divenire sempre più popolare, quello della diffidenza nei confronti del big government, ora che questo mostrava l’intendimento di sradicare il diffusissimo pregiudizio dell’ineguaglianza razziale e di rendere uguale quello che, secondo molti, Dio aveva voluto diverso.

L’impatto delle iniziative dell’Amministrazione Johnson fu determinante negli Stati del Sud e nella California meridionale, ove i tentativi di promuovere il superamento della separatezza tra le comunità innescarono il processo di cui ci stiamo occupando.

L’effettivo esercizio del diritto di voto da parte degli afro-americani era necessariamente destinato, a scadenza più o meno lunga, a favorire il trasferimento di consensi dal Partito democratico a quello repubblicano. I nuovi elettori non avrebbero potuto, per le loro condizioni socio-economiche, che collocarsi tra i democratici, accanto a quei poor white men, che soltanto dal pregiudizio razziale avevano tratto da sempre la coscienza della loro superiore identità e che, quindi, non potevano condividere le scelte politiche con i blacks.

Inferiore doveva essere l’effetto di quelle stesse misure negli Stati dell’Ovest, dove maggior peso nella ripresa conservatrice ebbe, tra gli altri fattori, il riconoscimento del grande valore politico delle comunità intermedie contrapposte ai governi degli Stati e della federazione (teorizzato gia negli anni Cinquanta da R.A. Nisbet).

Il rilievo qui attribuito alla componente razziale come fattore scatenante della ripresa conservatrice, è collegato con l’impostazione interpretativa fondata sulla lunga durata e possiede anche una connotazione irrazionalistica e nazionalistica che ben si accorda con le caratteristiche dell’odierno neoconservatorismo. Altri, invece, tendono a ridurre il peso di questa componente, per porre l’accento sull’ondata di irrazionale estremismo che percorse il mondo occidentale in seguito alla cosiddetta rivoluzione culturale cinese e alla propaganda maoista. Questa, convincendo milioni di americani ed europei, per la più parte giovani, che la rivoluzione proletaria fosse a portata di mano, ebbe un ruolo determinante nel primo dei successi conservatori di quegli anni: l’elezione di Ronald Reagan a governatore della California nel 1966, dopo l’insuccesso di Richard Nixon nella stessa competizione elettorale di quattro anni prima.

Il rifiuto dell’estremismo e il bisogno di legge e ordine che esso ingenerava furono alla base della nascita del populismo conservatore che Reagan seppe suscitare con rara maestria. Già Goldwater si era avvalso nella sua campagna del più acceso anticomunismo, che era stato alla base del superamento dell’isolazionismo repubblicano dopo il secondo conflitto mondiale. Fin dagli inizi, dunque, il conservatorismo più acceso scendeva sul piano della politica internazionale per affermare con forza il ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

L’ascesa conservatrice doveva essere incoraggiata anche dalla tragedia della guerra vietnamita, con le gravissime lacerazioni introdotte nella società americana. L’estremismo degli studenti contestatori che occupavano gli edifici universitari e l’aggressività degli afro-americani nel cercare di far valere i loro diritti con scoppi insurrezionali (da Newark nel 1964, a Watts e a Detroit nel 1967) rendevano facile per i repubblicani scaricare sui democratici l’accusa di estremismo.

La guerra vietnamita e le difficoltà dell’Amministrazione Johnson di fronteggiarla furono alla base della resurrezione del coriaceo Nixon nelle elezioni presidenziali del 1968. Nella sua campagna elettorale, l’esponente repubblicano non mancava di dare grande evidenza alla formula «legge ed ordine», di difendere l’onore americano nell’arena mondiale, di condannare il big government e di attaccare i provvedimenti per l’integrazione scolastica di bianchi e neri e ogni forma di azione affermativa.

Un contributo assai rilevante all’affermazione di un populismo conservatore nel Sud venne dalle tre consecutive campagne presidenziali (1964, 1968 e 1972) condotte dal governatore dell’Alabama, George Wallace, un accanito sostenitore del segregazionismo. Anche se l’elettorato di Wallace era esclusivamente democratico, oltre che razzista, le sue impostazioni politiche erano apertamente ultraconservatrici; radicale era la critica dei politici di Washington; esagitatamene anticomuniste le sue posizioni di politica internazionale.

Quale che sia il peso che s’intende dare alla questione razziale, l’intervento di Wallace nella politica nazionale degli Stati Uniti segnò un momento di profonda crisi del Partito democratico, facendo emergere, non soltanto nel Sud, l’esistenza di un profondo malcontento dei ceti medi, degli operai e degli agricoltori nei confronti del liberalismo internazionalista dei gruppi dirigenti dell’East Coast.4 Erano i primi vistosi segni che il populismo si veniva facendo conservatore, perdendo così una delle sue principali giustificazioni, la solidarietà sociale, e divenendo strumento diretto di acquisizione del consenso da parte di successivi leader più o meno carismatici.

Il processo subì una provvisoria battuta d’arresto con lo scandalo del Watergate. Questo finì per travolgere Nixon, prima che avesse potuto consolidare l’egemonia conservatrice. La battuta d’arresto, tuttavia, non doveva avere conseguenze troppo profonde. Nelle elezioni del 1976 i democratici riuscirono a riprendersi la Casa Bianca soltanto facendo ricorso all’outsider  Jimmy Carter, governatore della Georgia, uomo del Sud abbastanza caratterizzato in senso conservatore. Questi, durante il mandato, subì costantemente le pressioni della destra, tanto all’interno del suo partito quanto da parte dei repubblicani.

Rinnovato vigore all’ascesa conservatrice venne dalle elezioni presidenziali del 1980 e dalla vittoria di Ronald Reagan che aveva saputo unificare le diverse componenti del partito, compreso il big business della Costa atlantica, e mantenere le sue caratteristiche marcatamente conservatrici.

Da molti punti di vista la figura di Reagan rappresenta uno snodo essenziale nell’evoluzione che si sta qui delineando. Una politica economica di successo immediato, ma di corto respiro (la cosiddetta economia voodoo), fondata su un liberismo assai spinto, la riduzione delle tasse e un massiccio rilancio della spesa militare. Una politica interna volta a fiaccare la forza dei sindacati, da sempre una delle componenti più valide del Partito democratico. Una politica internazionale fortemente aggressiva nel primo mandato e persistentemente contraria al multilateralismo. Tali furono i fattori attorno ai quali Reagan seppe mobilitare un consenso che andava ben oltre i bacini elettorali tradizionali dei repubblicani.

Ma la caratteristica più rilevante riguarda la connotazione etica che Reagan fornì alla propria politica, sia sul piano internazionale sia su quello interno. La caratterizzazione dell’Unione Sovietica come «impero del male» trasformava automaticamente il bipolarismo apparente che aveva caratterizzato il sistema delle relazioni internazionali postbelliche in conflitto universale tra il bene e il male. La conseguenza più importante fu quella di modificare il carattere del patriottismo americano. Tradizionalmente, questo era stato soprattutto un «patriottismo della Costituzione»: Reagan ne accentuò decisamente i caratteri di appartenenza etnica. Come scriveva anni dopo Martin Lipset: «Per appoggiare una guerra e mobilitare la gente a uccidere gli altri e morire per il loro paese, gli americani debbono definire la loro posizione nel conflitto trovandosi dalla parte d’Iddio contro Satana – per l’etica contro il male. In prima approssimazione gli Stati Uniti fanno la guerra contro il male e non, nella loro percezione, per difendere interessi materiali».5

Se a questo si aggiunge la condizione di enorme superiorità che con il dissolvimento dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti hanno raggiunto rispetto a tutti gli altri attori del sistema delle relazioni internazionali, è assai probabile che il patriottismo americano sia venuto trasformandosi in sciovinismo di grande potenza, specialmente se associato al populismo divenuto conservatore. L’evoluzione della situazione internazionale e l’intenso dialogo con l’Unione Sovietica di Gorbaciov, che caratterizzarono il secondo mandato di Reagan, ridussero nuovamente la funzione coagulante dell’anticomunismo, mettendo in crisi una serie di posizioni politiche, tra le quali quella di alcuni esponenti liberal, come il senatore Moynihan e J.Kirkpatrick – anticomunisti decisi, pur se in maniera assai più criticamente fondata dell’anticomunismo ufficiale. Secondo i già citati lavori di Gerring e di Lipset, è solo a questi esponenti di sinistra che si può correttamente applicare l’etichetta di neoconservatori. Moynihan valutava esattamente le intrinseche debolezze del comunismo, considerandolo destinato al fallimento soprattutto per cause endogene; attribuiva quindi all’ossessione per la segretezza delle Amministrazioni postbelliche l’inutile polemica sul maccarthysmo e le divisioni che ne erano derivate nella società americana, nonché l’ossessione riarmista.6

Le tesi di Moynihan, per quanto strumentalmente utilizzate dalla destra più estrema, confermavano il declino dell’anticomunismo come forza coagulante durante gli anni Ottanta. Nello stesso torno di tempo, peraltro, venne chiaramente alla luce lo straordinario processo che nei due decenni precedenti aveva caratterizzato l’evoluzione della società americana: l’eccezionale diffusione delle sette protestanti evangeliche, il moltiplicarsi dei «cristiani rinati». Ora, nel quadro di un più vasto movimento che investiva tutte le grandi religioni monoteistiche, anche negli Stati Uniti si assisteva a quella che lo studioso francese Gilles Kepel ha definito la «rivincita d’Iddio» e che si è caratterizzata con la nascita del fondamentalismo religioso e con la sua diffusione ben oltre i confini sociali degli strati più demuniti e arretrati del Sud e dell’Ovest, per attrarre gruppi rilevanti dei ceti medi suburbani e contribuire massicciamente al consolidamento del populismo conservatore.

Oltre al motivo generale del rifiuto della laicità delle società economicamente avanzate, la rinascita religiosa di questo periodo negli Stati Uniti fu alimentata dalla polemica conservatrice su una serie di questioni che implicavano rilevanti aspetti etici, dall’opposizione alla legalizzazione dell’aborto, alla condanna della pornografia come espressione di un’eccessiva e anarchica dilatazione delle libertà al controllo dell’educazione sessuale nelle scuole (temi che saldavano il conservatorismo cattolico con quello protestante). Di non minore importanza dovevano essere la questione della riduzione delle imposte, un cavallo di battaglia universale del populismo, e quella del busing, cioè dell’azione positiva intrapresa dalle autorità per promuovere effettivamente la desegregazione nella scuola.

È a questo punto dell’evoluzione storica degli Stati Uniti che ascese alla ribalta la famiglia Bush, dal momento che uno dei suoi esponenti fu eletto nel 1988 per succedere a Reagan, dopo esserne stato il vicepresidente, direttore della CIA e uomo d’affari di successo, sia nel settore del petrolio sia nell’industria degli armamenti. Così Bush senior seguiva non solo le tradizioni di famiglia, ma anche un percorso geografico, sociale e politico perfettamente conforme alle tendenze strutturali sin qui individuate.7

Mentre il padre aveva un’origine personale e culturale radicata nel Nord-Est e si era trasferito in Texas per motivi professionali, legati ai settori produttivi in ascesa nel Sud-Ovest, il figlio risulta invece profondamente radicato nella società del Sud da tutti i punti di vista, compreso quello religioso, dal momento che nel 1986 abbandonò la rigida confessione episcopale del New England per aderire a quella più emotiva dell’evangelismo texano. Secondo Phillips la conversione, promossa da uno dei pastori più militanti del conservatorismo religioso, Jerry Falwell, pur configurandosi come una vera e propria «rinascita in Cristo», non era priva di risvolti politici: G. W. Bush doveva svolgere un ruolo di collegamento con la destra religiosa nella campagna presidenziale del 1988. Un collegamento assai efficace, che portò a Bush senior il 70% del voto evangelico. Questi aveva tuttavia mantenuto saldi collegamenti con il conservatorismo tradizionale e la sua Amministrazione, per quanto fortemente caratterizzata in senso liberista nella politica economica, animata da prospettive egemoniche nel sistema delle relazioni internazionali, e rigidamente conservatrice nelle questioni sociali, appariva nel complesso meno ideologizzata delle due precedenti. Il crollo del comunismo non determinò immediatamente l’assoluta prevalenza del liberismo più spinto; il multilateralismo non fu immediatamente abbandonato (Bush senior si spinse fino a evocare un nuovo ordine internazionale e la guerra del Golfo fu condotta sotto l’egida dell’ONU). E, per quanto continuo, il dibattito sulle questioni sociali con implicazioni etiche non raggiunse le punte di asprezza fatte registrare con Reagan.

In questo contesto si spiega anche come le due elezioni presidenziali successive siano state appannaggio dei democratici. Inizialmente, Bill Clinton apparve come una riedizione di Jimmy Carter: un governatore del Sud, sufficientemente conservatore per non esser confuso con la cultura del Nord-Est. A differenza di Carter, tuttavia, Clinton riuscì a resistere alle pressioni conservatrici, anche se queste si spinsero fino alle soglie dell’impeachment.

La violenza delle polemiche svoltesi durante il secondo mandato di Clinton resero particolarmente accesa e drammatica l’elezione presidenziale del 2000. Soltanto l’intervento in extremis della Corte Suprema pose fine alla verifica dei dati elettorali della Florida, sanzionando la vittoria del candidato repubblicano su quello democratico. Un intervento del tutto legittimo, ma di natura solo formalmente giurisdizionale, che valse a porre fine alle polemiche già nel corso della transizione.

La ricomposizione dei contrasti interni agli Stati Uniti non poteva che essere effimera. Essa ricevette, tuttavia, un impulso decisivo con i terribili attentati dell’11 settembre 2001. Questi la trasformarono in un’effettiva coesione nazionale, che valse a stemperare le caratteristiche originali della nuova Amministrazione. L’immediata e discutibile decisione di trasformare la guerra al terrorismo in guerra all’Afghanistan ricevette un unanime consenso interno e una generalizzata approvazione internazionale, anche perché la guerra presuppone necessariamente due soggetti, mentre il terrorismo è soltanto un metodo. L’onda emotiva unitaria e incline ad accettare la prevalenza degli aspetti militari di quella che correttamente sarebbe stato opportuno fin dall’inizio definire lotta al terrorismo si è sufficientemente protratta nel tempo per influire sulle elezioni parlamentari di mezzo termine del 2002, che hanno dato ai repubblicani la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Col passare del tempo, i contrasti nella società americana si sono riproposti con intensità ancora maggiore di quella registrata in occasione della campagna elettorale del 2000, specie a partire dalla decisione di proseguire la guerra al terrorismo spostandola contro l’Iraq. A questa conclusione giungeva nel novembre 2003, all’inizio del nuovo ciclo elettorale, l’autorevole «The Pew Research for The People & The Press», che intitolava il suo rapporto annuale sul panorama politico degli Stati Uniti nel 2004: «Spaccati a metà e sempre più contrapposti».

È evidente che le cause immediate di questa accentuata contrapposizione sono da ricercarsi nello svolgimento della guerra irachena e nelle ambiguità e incertezze che l’hanno caratterizzata fino dall’inizio. Occorre tuttavia tener presente che, praticamente fino alla conclusione delle ostilità nella primavera del 2003, l’opposizione democratica non si era di fatto ripresa dalle due successive sconfitte elettorali e l’Amministrazione poteva avvalersi anche del rapido successo bellico.

L’improvvisa scoperta che gli avvenimenti in Iraq dopo la presa di Bagdad e il crollo della dittatura di Saddam Hussein non prendevano la prevista piega verso la pacificazione e la nascita della democrazia, rilanciarono con grande forza la necessità di spiegare le cause effettive della guerra all’Iraq. Il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa indusse ad approfondire altri aspetti che potessero giustificare la prima pratica attuazione della dottrina della guerra preventiva nei confronti di ogni minaccia reale o potenziale agli interessi degli Stati Uniti, formulata nell’autunno del 2002 dall’Amministrazione Bush, in piena conformità con l’acceso nazionalismo conservatore.

Si è quindi passati ad altre giustificazioni che vanno dai collegamenti tra il regime baathista iracheno e l’organizzazione terroristica Al Qaeda – collegamenti che non si è riusciti a provare e che, semmai, sono sorti o si sono intensificati dopo la sconfitta del regime di Saddam Hussein – alla natura spietatamente dittatoriale dello stesso regime, ora parzialmente rinnegata con il ricorso a elementi militari del regime nel tentativo di sedare la componente sunnita della rivolta irachena. E, se è incontrovertibile che il mondo sia migliorato per effetto di quella sconfitta, rimane lo spiacevole dettaglio che questa conclusione non è apparsa finora condivisa dalla maggioranza degli iracheni. Questi sembrano convinti di essere caduti dalla padella della dittatura nella brace dell’occupazione straniera. È rimasta dunque soltanto la giustificazione di volere diffondere la democrazia, ma lo scandalo del diffuso ricorso a metodi di repressione di inusitata crudeltà ha sollevato dubbi anche su questa giustificazione.

La ricerca sulle reali motivazioni della guerra irachena ha indotto dunque ad affrontare il nodo di fondo della giustificazione della guerra al terrorismo e, quindi, a sottoporre ad approfondita analisi il fondamento di questa, gli attentati dell’11 settembre. Si sono così manifestati indizi sufficientemente chiari di una volontà della stessa Amministrazione, precedente agli attentati dell’11 settembre, di procedere alla guerra contro l’Iraq, indipendentemente da ogni responsabilità di questo paese nell’offensiva terroristica.8

A questo punto, le divisioni precedenti la tragedia di New York sono riaffiorate con forza. Poi, grazie anche all’atmosfera elettorale, improvvisamente scaldatasi in coincidenza con le primarie del Partito democratico, la spaccatura del paese si è fatta più evidente e rischia non solo di accentuarsi con l’approssimarsi delle conventions, ma anche di divenire un elemento strutturale della politica americana. Quel che rileva oggi negli Stati Uniti, non è tanto l’andamento dei sondaggi ai fini delle prossime elezioni presidenziali, quanto la valutazione dei cambiamenti profondi che si è cercato di porre in evidenza nella società americana e, soprattutto, se un’Amministrazione così fortemente segnata dal neoconservatorismo possa essere considerata normale alla stregua del pur forte tasso ideologico della lotta politica americana.

Uno degli elementi più rilevanti da prendere in considerazione è la composizione del gruppo dirigente della Casa Bianca di G.W.Bush. La caratteristica politica principale è che nei posti chiave dell’Amministrazione si collocano uomini, come Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, tutti legati alle correnti più intransigenti del conservatorismo, reduci da precedenti Amministrazioni, nelle quali peraltro avevano operato in posizione tendenzialmente subordinata rispetto a indirizzi politici che recepivano la tradizione del conservatorismo moderato. Mentre Rice, oltre che dall’università, proviene anche dall’industria petrolifera e Ashcroft è uomo di punta della destra religiosa. D’altra parte, l’Amministrazione gode dell’appoggio massiccio del lobbying, che ha raggiunto livelli mai toccati in precedenza: anche se è eccessivo definire l’Amministrazione attuale come the Enron Halliburton Administration – come fa Phillips – è certo che l’intervento degli interessi organizzati nelle attività dell’esecutivo, pur inserendosi in una consolidata tradizione, «è divenuto più incisivo e diffuso»,9 come più diffusa è divenuta la privatizzazione di attività connesse con la sicurezza nazionale. In realtà, gli attentati dell’11 settembre avevano dato luogo a una mobilitazione tale che, fino allo scandalo della tortura sui prigionieri in Iraq, aveva impedito forme d’opposizione vivaci, anche se erano state introdotte pesanti limitazioni alle garanzie dei cittadini. Non è qui possibile valutare analiticamente se queste limitazioni siano correttamente commisurate alla portata dell’innegabile minaccia terroristica e se, più in generale, l’atmosfera di guerra che si avverte nel dibattito politico americano e anche nell’opinione pubblica, valga a giustificare il fatto che il potere presidenziale sia oggi superiore a quello goduto da Roosevelt durante il secondo conflitto mondiale.10 La domanda da porsi, però, è diversa. La relativa rapidità con la quale l’Amministrazione Bush è riuscita, finora, a superare lo scandalo della tortura sostituendo le dimissioni del segretario alla difesa Rumsfeld con quelle del direttore della CIA Tenet, è indicativa dell’intendimento di considerare l’esigenza di sconfiggere il terrorismo preminente sulla difesa dei valori americani, nella convinzione che non solo il sostegno del conservatorismo più intransigente non verrà meno, ma che neanche i conservatori moderati abbandoneranno il gruppo dirigente attuale.

Questo può certamente avere caratteristiche di limitatezza e di specificità culturale (è stato notata, ad esempio la forte riduzione del numero di alti burocrati provenienti dalle università dell’Ivy League rispetto agli standard ordinari delle Amministrazioni precedenti di entrambi i partiti), 11 e si può anche giungere a definirlo – come fanno i critici più accesi – come una conventicola ristretta, fortemente ideologizzata e legata da interessi assai corposi. Il fatto è che essa si pone in perfetta sintonia con tutta l’evoluzione che si è qui cercato di delineare e che, quale che possa essere il risultato delle elezioni presidenziali di novembre, l’attuale blocco conservatore è destinato a durare e, quindi, a condizionare a lungo la lotta politica negli Stati Uniti.

C’è addirittura chi sostiene che se i democratici non ricreano un movimento fortemente animato dai valori della tradizione rooseveltiana e continuano a non affrontare con durezza il conservatorismo populista sarà per loro assai difficile riprendersi l’egemonia culturale e politica nel paese. Si tratta probabilmente di un’ipotesi troppo pessimistica. Ma il semplice fatto che sia stata formulata aumenta le probabilità che i cicli della politica americana possano essere durevolmente interrotti e, comunque, avere per il futuro un terreno di applicazione assai più spostato in senso conservatore tanto nella politica interna quanto in quella internazionale.

È evidente che decisiva risulterà la misura di questo spostamento. Se non si manterrà un equilibrio adeguato tra le esigenze della lotta al terrorismo e quelle delle libertà civili si rischia di alterare profondamente il modello americano sul piano della politica interna. Conseguentemente, anche il patriottismo americano non sarà più prevalentemente, com’è stato sinora, un patriottismo della costituzione e dei suoi valori, ma si caratterizzerà per il senso di appartenenza etnica. Il che, per un melting pot, costituisce una contraddizione insanabile. Ed è per questo che l’unilateralismo fondato sulla potenza – hard o soft che sia – è incompatibile con il ruolo che gli Stati Uniti hanno sinora esercitato nel sistema delle relazioni internazionali Per quanti nel mondo sono convinti che il superamento dell’attuale disordine internazionale non possa avvenire senza il contributo degli Stati Uniti, quest’evoluzione è assolutamente deprecabile e occorrerà che queste componenti, specialmente in Europa, facciano ogni sforzo per evitare di favorire l’evoluzione che si è qui cercato di descrivere. E poiché le posizioni estremistiche hanno la consuetudine per loro natura di favorire le evoluzioni che deprecano, il pericolo maggiore è quello rappresentato dall’antiamericanismo preconcetto e dall’insufficiente coscienza che il terrorismo, di qualunque natura, compreso il terrorismo di Stato, sono il miglior alimento del conservatorismo nazionalistico americano.

Bisognerà, tuttavia, che le forze democratiche – progressiste o conservatrici – in tutto il mondo seguano con molta attenzione questi processi e siano pronte, ove non si modifichino o addirittura s’intensifichino le tendenze in atto, a perseguire un ordine internazionale sempre meno fondato sulla forza e sempre più giuridicizzato, nella direzione indicata nel XX secolo dagli Stati Uniti e, soprattutto, da Franklin Delano Roosevelt.

 

 

Bibliografia

1 A. de Toqueville, De la démocratie en Amerique, prima edizione storico-critica rivista e argomentata da E. Nolla, vol. I, Parigi 1990, pp. 263 e 265.

2 J. Gerring, Party Ideologies in America 1828-1996, Cambridge University Press, New York 1998.

3 Fonti: U.S. Census Bureau, Decennale Censuses, Council of the Economic Advisors, Bureau of Economic Analysis, Regional Economic Accounts.

4 In questo senso va la ricostruzione Geodfrey Hodgson, che condivide anche le preoccupazioni generali di chi scrive in merito alla natura complessivamente aberrante del neoconservatorismo. Cfr. G. Hodgson, The World Turned the Right SideUp. A History of the Conservative Ascendancy in America, Houghton Mifflin, Boston 1996, pp. 139-143.

5 Cfr. M. Lipset, American Exceptionalism: A Double-edged Sword, W.W. Norton & Company, New York-Londra 1995, p. 20.

6 Si veda l’introduzione di R.G.Powers a: D.P. Moynihan, Secrecy. The American Experience, Yale University Press, New Haven-Londra 1998, pp. 14-17.

7 Si veda: K. Phillips, American Dynasty. Aristocracy, Fortune And the Politics of Deceit in the House of Bush, Viking Books, New York 2004. Nonostante la veemenza delle sue critiche Phillips è un conservatore moderato e ha militato tra i repubblicani.

8 Cfr. B. Woodward, Plan of Attack, Simon & Schuster, New York 2004, pp. 9-23. Secondo la testimonianza di Paul O’Neil, ex-ministro del tesoro nell’Amministrazione Bush, già dopo 10 giorni dall’inaugurazione in una riunione del governo apparvero evidenti segni dell’orientamento a fare dell’invasione dell’Iraq un obiettivo della politica americana in Medio Oriente. Cfr: R. Suskind, The Price of Loyalty. Gorge W.Bush, the White House and the education of Paul O’Neil, Simon & Schuster, New York 2004. Nello stesso senso anche la testimonianza di: R.A. Clarke, Against All Enemies. Inside America’s War on Terror, Free Press, New York 2004, pp. 243-246.

9 Cfr. D. Callahan, The Cheating Culture. Why More Americans Are Doing Wrong to Get Ahead, Harcourt, Orlando 2004, p. 166.

10 Secondo la Pew Research tra il 1997 e il 2003 c’è stato un notevole incremento nelle risposte positive alla domanda: «Sarà necessario rinunciare alle libertà civili per sconfiggere il terrorismo?». Da sottolineare il fatto che la questione è una di quelle che meno dividono la società americana, essendo il consenso abbastanza equamente diviso a seconda dell’appartenenza politica. Per il resto tuttavia le posizioni sono assai divergenti: basti pensare che mentre il 71% dei repubblicani concorda con l’asserzione «Sono molto patriottico», soltanto il 48% dei democratici lo fa.

11 In questo modo, nel decisivo settore della sicurezza, «grazie anche alle scarse inclinazioni teoriche del Presidente» George W. Bush resta «al pari di un altro presidente texano coinvolto in una guerra, alla mercé d’intellettuali di secondo piano, che, questa volta, hanno cambiato i gessati grigi delle fondazioni conservatrici con le toghe del Pentagono». Cfr. Phillips, op.cit, p. 247.