L'esperienza toscana

Di Enrico Rossi Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Sulla configurazione e sulle sorti del sistema sanitario si gioca una parte rilevante dello scontro politico, in Italia come in tutti i paesi sviluppati. Come pochi altri settori, infatti, la sanità è in grado di rappresentare le differenti scelte ideologiche, programmatiche ed economiche degli schieramenti in campo. Investe grandi interessi economici e professionali, assorbe una grande quota della spesa pubblica, interessa bisogni fondamentali della popolazione, è terreno di confronto continuo tra istituzioni e cittadino. I sistemi sanitari, inoltre, stanno attraversando in questi ultimi anni una fase critica che, sebbene dovuta a motivazioni complesse sia endogene che esogene, trova una sintetica rappresentazione nella crescente forbice tra risorse disponibili ed effettive necessità.

 

Sulla configurazione e sulle sorti del sistema sanitario si gioca una parte rilevante dello scontro politico, in Italia come in tutti i paesi sviluppati. Come pochi altri settori, infatti, la sanità è in grado di rappresentare le differenti scelte ideologiche, programmatiche ed economiche degli schieramenti in campo. Investe grandi interessi economici e professionali, assorbe una grande quota della spesa pubblica, interessa bisogni fondamentali della popolazione, è terreno di confronto continuo tra istituzioni e cittadino. I sistemi sanitari, inoltre, stanno attraversando in questi ultimi anni una fase critica che, sebbene dovuta a motivazioni complesse sia endogene che esogene, trova una sintetica rappresentazione nella crescente forbice tra risorse disponibili ed effettive necessità.

In realtà, una visione puramente finanziaria del problema rivelerebbe che non ci si trova dinanzi a una assoluta novità. Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da un analogo fenomeno, che venne sanato con un accordo tra Stato e regioni nel 2000: la contrazione relativa delle risorse assegnate al settore, pari nel periodo a circa l’1% del PIL, venne allo stesso attribuita per un importo superiore ai 20.000 miliardi di lire, a copertura dei fabbisogni espressi negli anni precedenti. L’ennesimo intervento a integrazione del fabbisogno, se consentiva alle regioni – divenute intanto titolari della responsabilità economica del sistema – di riequilibrare i conti, contribuiva al tempo stesso a perpetuare quella caratteristica propria del sistema sanitario che vedeva una non sufficiente attenzione ai costi, nella costante attesa di interventi a ripiano. Ne è prova che proprio il 2001 ha mostrato il massimo livello di crescita della spesa sanitaria, con tassi di incremento per molte voci superiori al 10% e una particolare e assolutamente inedita esplosione della spesa farmaceutica, cresciuta di oltre il 30%.

Il nuovo accordo sopravvenuto tra Stato e regioni nel 2001 ha tentato di mettere a regime il fabbisogno finanziario del sistema predefinendo il trend triennale delle risorse disponibili con un incremento annuo superiore al 3,5%, ma comunque ben al di sotto del 6% del PIL.

Il quadro di certezze predefinito e il riaffermarsi della responsabilità regionale sull’equilibrio del sistema – che ha visto già nel 2001 la necessità da parte di diverse regioni di far ricorso a un aumento della fiscalità e all’imposizione di ticket specifici – ha ottenuto per il biennio successivo (2002-2003) l’effetto di un forte raffreddamento della spesa, anche a seguito del dilazionamento degli oneri dei rinnovi contrattuali e convenzionali, che tradizionalmente nel sistema rappresentavano una componente determinante nell’andamento dei costi e che hanno sempre visto la copertura, totale o parziale, con specifici finanziamenti aggiuntivi.

Se in questo modo la situazione ha retto per gli anni 2002-2003, nel 2004 si prevede il ripresentarsi di una emergenza finanziaria del sistema. E la nascita di una situazione insostenibile per la maggior parte delle regioni italiane, con grosse ripercussioni sul versante delle disponibilità di cassa da parte delle aziende sanitarie. Quindi, il riacuirsi di quei fenomeni – tipici dei periodi precedenti – di grave ritardo nei pagamenti, accumulo di conseguenti maggiori oneri e ulteriore impulso all’aumento della spesa, in una spirale perversa che tende ad autoalimentarsi.

Se la situazione è quella descritta, appare evidente come un intervento di riadeguamento delle disponibilità finanziarie del sistema sia assolutamente improcrastinabile. Portare il livello di finanziamento del sistema ad almeno il 6% del PIL – quota indicata come livello minimo dal confronto con altri paesi occidentali – o addirittura al 7% contribuirebbe sicuramente a riequilibrare i conti per la maggior parte delle regioni. Un intervento del genere sarebbe comunque sufficiente nel breve periodo, ma non garantirebbe la sostenibilità del sistema sanitario nel lungo periodo, dato che strutturalmente l’andamento dei costi, per quanto controllato, si attesta in tutti i paesi ben al di sopra di qualsiasi aumento prevedibile del prodotto interno.

È per questo motivo che il tema dell’assetto strutturale e organizzativo del sistema diventa centrale se si vuole evitare il costante ripresentarsi di periodiche crisi «fiscali». La centralità è altresì ribadita dalla presenza a livello politico di forze che, prendendo a spunto una sorta di ineluttabilità della crisi, rifiutano anche interventi minimi urgenti, con lo scopo più o meno dichiarato di accelerare i tempi per una modificazione radicale di natura istituzionale del sistema verso forme miste che vedano la presenza crescente di coperture assicurative private o categoriali e meccanismi privatistici e concorrenziali di accesso alle prestazioni. Molte forze economiche sono in attesa di tale mutamento, pronte a investire nel settore una volta che sia assicurata un’alta redditività dell’intervento, ottenibile solo mediante una privatizzazione di segmenti più o meno grandi del settore (quale ad esempio la diagnostica). È per questo motivo che anche una posizione che riaffermi la sacralità del sistema pubblico universalistico non può rifugiarsi dietro il semplice mantenimento dell’esistente, ma deve fare i conti con le necessità di adeguamento e orientamento del sistema.

In questo senso appare urgente e opportuna una riflessione sul futuro della sanità in Italia. Ci troviamo infatti al termine di un periodo in cui è aumentata considerevolmente la domanda e l’erogazione di prestazioni sanitarie, sia in termini di quantità che, soprattutto, di complessità, con inevitabili ripercussioni sulla sostenibilità economica dei sistemi sanitari. In risposta a tale fenomeno, nelle diverse realtà nazionali e internazionali si è operato soprattutto per migliorare l’efficienza e per controllare la domanda di prestazioni dal punto di vista quantitativo. Solo in pochi casi si sono intrapresi interventi sistematici dedicati a migliorare, in termini di «utilità» per la salute, l’organizzazione del sistema sanitario e del sistema sociale e ambientale in cui questo è inserito.

Le cause dell’aumento della spesa sanitaria globale sono complesse e generalizzate. Una è sicuramente rappresentata dall’invecchiamento della popolazione. Le persone anziane tendono ad essere «grandi consumatori» di prestazioni sanitarie. Secondo alcuni, l’invecchiamento comporterebbe di per sé l’insostenibilità, da parte della frazione di popolazione produttiva, dei costi relativi ai bisogni dei «troppi» anziani, e quindi l’ineluttabilità della crisi dei sistemi sanitari universalistici. È da notare, tuttavia, che all’allungamento della vita corrispondono oggi, sempre di più, anche guadagni di anni di vita liberi da malattie e invalidità. Ci sono quindi margini di intervento per fare sì che l’impatto dell’aumento degli anziani non sia necessariamente insostenibile in futuro.

Va inoltre considerato che un’ulteriore, sostanziale ragione della crisi di spesa è rappresentata dalla sempre maggiore «medicalizzazione» dei problemi di salute, accompagnata dalla crescente «tecnologizzazione» della medicina. Questi due elementi si aggiungono alla tendenza definibile come una «personalizzazione» della malattia e della cura. Ogni cittadino è diverso dagli altri e si presenta al sistema individualmente: la visione sociale dei problemi di salute è quindi caratteristica solo di pochi settori di carattere preventivo. A questa tendenza non si può rispondere con un’evoluzione non governata della sanità, dove vengano fornite risposte estemporanee e personalistiche, non garanti dei valori di equità e qualità e che possono risultare fuorvianti rispetto alle stesse ragioni portanti del sistema. Oggi si deve tornare a riconoscere sempre più nella promozione della salute il prodotto principale di tutto il sistema, che deve orientare i servizi sanitari. Se non si può rinnegare ciò che di buono la ricerca biomedica oggi ha raggiunto su questi temi, occorre al tempo stesso rivalutare – e aggiornare – uno dei presupposti di fondo della riforma del 1978, quello cioè di considerare lo stato di salute e di benessere come figlio di una collettività, delle sue caratteristiche di vita e di lavoro, della sua capacità di percepire culturalmente lo star bene non sempre identificabile con una specifica terapia.

Una visione esclusivamente medicalizzata ed efficientista del rapporto cittadino/sistema sanitario tende a orientarsi su meccanismi di funzionamento tipici del mercato, le cui caratteristiche più apprezzate sarebbero sia lo sviluppo della dinamicità del sistema, che l’aumento della sua capacità a indirizzare il cambiamento secondo le esigenze del consumatore. In realtà, un sistema di mercato assicura efficienza solo se vale l’assunto che il consumatore abbia la capacità di preferire con competenza specifica il produttore in grado di assicurargli il migliore servizio, scegliendolo in una platea non limitata: libertà di scelta e libertà di impresa.

In sanità, come in altri servizi di pubblica utilità, la presenza di condizioni di asimmetria tra il soggetto di erogazione del servizio e il fruitore stesso permette l’imposizione di modelli di consumo governati e filtrati dalle agenzie, che producono merci e servizi oggetto dei consumi stessi, mentre gli obiettivi di salute impallidiscono sullo sfondo. La natura stessa della domanda, sotto la spinta agguerrita dell’industria del settore, si modifica in modo non necessariamente appropriato verso soluzioni più complesse e a più alto costo, ma non sempre più efficaci. L’esito, già sperimentato, è quello di innescare una spirale inappropriata ed economicamente non sostenibile. E, in ultima istanza, una crisi «fiscale» del sistema, che peraltro tende a «mancare» l’obiettivo di salute.

Questa sembra essere la situazione dei sistemi, regionali o nazionali, che hanno maggiormente spinto verso una liberalizzazione del rapporto domanda/offerta. I dati disponibili a livello internazionale mostrano inoltre come non ci sia una correlazione stretta tra alta spesa sanitaria, in particolare privata, e guadagno di salute. La Germania e gli Stati Uniti, la cui spesa pubblica e privata raggiunge i più alti livelli percentuali sul PIL, presentano valori di speranza di vita alla nascita inferiori ad altri Stati, tra cui l’Italia.

Figura 1a

Figura 1b

Fino ad ora, in Italia, l’introduzione di logiche «di mercato» ha visto esperienze significative solo sul versante della spinta alla concorrenzialità e alla privatizzazione dell’offerta. C’è da attendersi che, dinanzi all’insostenibilità economica degli esiti di tale scelta, nell’impossibilità di tornare indietro, ci si avvii a questo punto anche verso una privatizzazione della domanda: l’ingresso cioè di soggetti singoli o associati rappresentativi di categorie o di individui a cui delegare la copertura finanziaria del fabbisogno in alternativa all’assicuratore pubblico. Una siffatta scelta porterebbe di fatto alla chiusura dell’esperienza del servizio sanitario pubblico, presentando una forte affinità con modelli del passato che si riteneva di aver superato alla fine degli anni Settanta e assumendo infine evidenti connotati ideologici e politici.

Se il cittadino è il fruitore e quindi il vero protagonista del servizio sanitario, solo apparentemente un sistema impostato sul mercato lo pone al centro dell’interesse: egli diventa di fatto un consumatore. Qualcuno arriva a esasperare i toni parlando di «cliente», in termini positivi di nuovo status acquisito. Collocare il cittadino al centro dell’azione, potenziarne i diritti, la consapevolezza e la partecipazione è, in realtà, una caratteristica che il mercato trascura.

È da questi elementi – tracciati in maniera estremamente sintetica, anche a rischio di semplificare eccessivamente una realtà di per sé molto complessa – che la regione Toscana ha cercato di partire per affrontare un nuovo disegno del sistema sanitario regionale per i prossimi anni, che salvaguardi i principi portanti di un sistema pubblico efficiente e al tempo stesso attribuisca un ruolo portante al cittadino. In alternativa a modelli concorrenziali, la regione Toscana ha scelto di valorizzare e utilizzare pienamente gli strumenti di programmazione, al fine di orientare il sistema sanitario all’erogazione di prestazioni efficaci, appropriate, che rispondano a criteri di economicità, all’interno di ben identificati livelli essenziali di assistenza e percorsi diagnostico-assistenziali condivisi.

Due sono gli orientamenti fondanti della strategia toscana. Da un lato potenziare lo spazio e il ruolo dell’utenza, con la riorganizzazione dei servizi e dei processi di erogazione, tenendo presenti le esigenze dei cittadini e fornendo loro gli strumenti e le modalità per renderli soggetto protagonista, a tutti i livelli e nei diversi contesti del sistema. Dall’altro, rafforzare l’attenzione all’efficienza e alla gestione consapevole, responsabile ed equa delle risorse disponibili. In questo senso, la limitazione progressiva delle attività sanitarie di chiara e comprovata inefficacia e inutilità permette di liberare risorse da reinvestire in attività di provata utilità e nella riduzione delle liste d’attesa. Un atteggiamento «parsimonioso» verso i consumi sanitari è un valore etico, prima che economico, in quanto portatore di più salute per tutti.

La ricerca di maggior «appropriatezza» non è un fatto unicamente tecnico: deve diventare consapevolezza politica e collettiva. E così può essere solo se il sistema sanitario si radica maggiormente nella società, valorizzando gli elementi qualificanti delle comunità locali e i soggetti che producono servizi senza fini di lucro. Questi devono essere integrati nel sistema sanitario pubblico, rispettando la finalità dell’universalismo e dell’equità di accesso alle prestazioni.

Il sistema toscano storicamente si fonda su valori che nascono nelle comunità locali, dove i cittadini-utenti possono assumere un ruolo attivo nei confronti dei produttori, migliorando le proprie competenze e capacità. S’intende accelerare e promuovere questo processo attraverso lo sviluppo dell’informazione e della comunicazione e la promozione della rappresentanza. L’educazione sanitaria deve diventare parte integrante dell’educazione civica, della formazione del cittadino conscio dei propri diritti e degli strumenti adeguati per il loro raggiungimento. L’informazione e la comunicazione indipendente richiedono investimenti di risorse, economiche e umane, e costituiscono uno strumento di sviluppo della cittadinanza. La possibilità di affidare direttamente all’ente locale alcune tipologie di servizi, valorizzando le imprese sociali, permetterà di allargare il ventaglio delle opzioni, garantendo i nuovi bisogni dell’utenza e ottenendo un controllo, più efficiente perché più condiviso, dell’«appropriatezza».

Il cambiamento e il miglioramento continuo, che nei sistemi di mercato è frutto delle politiche tariffarie e competitive, diventa così un prodotto del controllo delle comunità locali e si fonda sulla programmazione strategica, sulla valorizzazione e responsabilizzazione delle risorse professionali, su strumenti appropriati di management. Occorre sì soddisfare gli interessi e i diritti individuali, ma attraverso l’organizzazione e la forza degli obiettivi della comunità nella quale gli individui agiscono, poiché la collaborazione attiva della popolazione è d’importanza vitale per il miglioramento della salute della comunità. Il diritto del cittadino alla libera scelta è promosso e valorizzato entro le diverse opportunità dell’offerta programmata e appropriata, nell’ambito territoriale di riferimento.

La scelta di orientare l’offerta attraverso percorsi assistenziali appropriati e condivisi ha tre implicazioni di rilievo: la definizione degli ambiti ottimali dell’analisi dei problemi e della programmazione degli interventi; la partecipazione diffusa del mondo delle professioni sanitarie, per attuare un vero governo clinico delle attività; e l’individuazione di nuove modalità di coinvolgimento del cittadino, attraverso l’attribuzione di un ruolo attivo della rappresentanza istituzionale.

In tema di ambiti di programmazione, è ormai consapevolezza acquisita che in gran parte dei percorsi assistenziali, e soprattutto in quelli ospedalieri, la dimensione aziendale è insufficiente a garantire le esigenze di funzionamento «in rete» dei servizi, di stretta integrazione funzionale dell’offerta, di crescita armonica e diffusa delle competenze. La scelta è stata pertanto di individuare un livello interaziendale di programmazione e orientamento dell’offerta, definita di «Area vasta», che costituisca il luogo del superamento della programmazione aziendale, di natura eminentemente gestionale, per affermare il contributo delle aziende stesse alla programmazione regionale integrata. Le tre Aree vaste individuate rappresentano realtà sub-regionali di grandi dimensioni (mediamente superiori al milione di abitanti), nel cui ambito si risponde a oltre il 90% della domanda ospedaliera della popolazione di riferimento e nel cui bacino sono presenti la quasi totalità delle competenze professionali necessarie. A tale livello si colloca la programmazione regionale dei percorsi, delle scelte di sistema relative alla crescita organizzativa e tecnologica, della allocazione delle nuove attività. E a tale livello è inoltre possibile individuare le forme appropriate di crescita professionale, attribuendo un ruolo trainante e determinante alle tre università. In questi anni, il ruolo e la funzionalità delle Aree vaste sono fortemente cresciuti, su impulso della regione, fino ad arrivare alla predisposizione di veri e propri atti di programmazione o piani ospedalieri di Area.

Naturalmente, un’operazione del genere può trovarsi a fare i conti con le resistenze del mondo degli operatori, che nella dimensione sovraziendale intravedono il rischio di una limitazione della propria autonomia professionale, dei propri spazi decisionali, di una egemonia da parte delle aziende ospedaliere di riferimento, sede della maggior parte delle attività di alto livello. Nella realtà, perché la programmazione di Area vasta non rappresenti una pura operazione di ingegneria organizzativa, occorre che su di essa si coaguli il massimo della partecipazione delle forze operative aziendali. Tale è stata la scelta operata e occorre dire che la risposta del sistema, per certi versi anche sorprendente, è stata positiva, grazie alla condivisione e all’impegno dei professionisti e delle direzioni sanitarie aziendali. Il ruolo attivo e propositivo e il livello di integrazione raggiunto sono stati tali da indurre un consolidamento dell’esperienza attraverso l’attivazione di strumenti organizzativi stabili di coordinamento interaziendale per settori omogenei, che diventino veri protagonisti di un efficace governo clinico dell’attività.

Allo sviluppo del livello sovraziendale di programmazione ospedaliera ha fatto riscontro una valorizzazione del ruolo delle istituzioni locali e del cittadino nel governo dei servizi extraospedalieri di base. È il livello di distretto infatti (circa 100.000 abitanti) che costituisce il punto nevralgico delle strategie di governo della domanda, di crescita di una cultura della salute, della definizione di obiettivi qualificanti di benessere. A questo fine appare insufficiente un ruolo di mero indirizzo e controllo attribuito dal legislatore all’ente locale, singolo o associato. Il comune, come soggetto della rappresentanza istituzionale del cittadino, deve essere fortemente coinvolto nel governo dei servizi, in modo da garantire una piena capacità di affrontare i bisogni di salute non solo in termini di prestazioni necessarie, ma anche e soprattutto come individuazione dei determinanti del bisogno, delle politiche di rimozione delle cause di malessere riguardanti in genere ambiti operativi che con la sanità hanno apparentemente poco a che fare e che solo un soggetto unitario come l’ente locale può contribuire ad affrontare. L’apporto dei soggetti istituzionali di base e della società civile, rappresentata dal mondo dell’associazionismo e del volontariato, consente in sostanza di far sì che la sanità diventi parte integrante di una politica di crescita equilibrata di una comunità locale con forte integrazione tra interventi sanitari e azioni sociali, tra politiche dei servizi e sviluppo economico e ambientale.

Tutto questo è per certi versi una sfida. Una sfida alla innegabile forza del mercato, una sfida alla capacità di partecipazione e responsabilità del mondo delle professioni; ma anche e soprattutto una sfida alle comunità locali. Assumere un ruolo di rappresentanza del bisogno della cittadinanza significa anche farsi carico dei livelli di domanda inappropriata che a volte il bisogno può esprimere, della sostenibilità di sistema della domanda stessa, dei vincoli esistenti. Significa assumere il ruolo di soggetto attivo dei cambiamenti del sistema e non di semplice osservatore delle azioni di mantenimento e di potenziamento dell’esistente.

Operare nella direzione della programmazione a livello sovraziendale e al tempo stesso della partecipazione e del decentramento dei poteri significa indubbiamente assumere consapevolezza della criticità e insufficienza della mera dimensione aziendale della sanità, così come impostata dalla normativa in vigore dal 1992. Si tratta di fatto di sottoporre tale realtà a una opportuna critica che trova nella sua autoreferenzialità e nella sua larga autonomia le coordinate di riferimento non per eliminarla, ma per riattribuirle il ruolo più appropriato.

L’Azienda sanitaria resta, e probabilmente lo resterà anche in futuro, l’asse portante del sistema, ma occorre che si apra per alcune funzioni al mondo esterno – si è parlato dell’ente locale, ma anche le altre aziende e, perché no, anche la regione – e che ridefinisca la propria missione, che è in ultima istanza quella di assicurare la gestione efficiente ed efficace dei servizi sanitari di propria competenza. Ciò vuol dire in primo luogo sviluppare tutti gli strumenti noti del controllo operativo e gestionale. Non è stato facile riuscire ad affermare nel mondo della sanità un concetto così innovativo come quello introdotto più di dieci anni fa, in un universo professionale e organizzativo refrattario a logiche privatistiche e produttivistiche, ma il risultato è stato, almeno nella realtà toscana, largamente positivo. Quando nel 2002 si è effettuata una ricognizione delle situazioni finanziarie dei diversi sistemi regionali, la Toscana si è collocata su valori notevolmente migliori della maggior parte delle altre regioni italiane, con un deficit pro-capite di circa 139 euro contro i 341 euro della media nazionale.

Si può oggi dire che le Aziende possono realmente considerarsi tali e hanno contribuito fortemente a sviluppare tutti gli strumenti propri del mondo delle aziende di produzione. Ne è testimonianza l’aver dimostrato la possibilità, anche in momenti di grande difficoltà economico-finanziaria, di poter pervenire alla certificazione del bilancio di una azienda, non tanto per il risultato economico, quanto per la testimonianza del grado di efficienza raggiunto nelle procedure interne di gestione e di controllo. È proprio perché questo risultato si può considerare ormai acquisito che si può operare per una sua evoluzione, per quella che in Toscana è stata definita come una «seconda fase dell’aziendalizzazione». Il processo vede tra l’altro la riallocazione di alcune funzioni di supporto e amministrative in strutture di supporto di natura consortile sovraziendali, al cui livello raggiungere gradi di ottimizzazione delle professionalità presenti nel sistema e di esercizio delle funzioni (si pensi agli acquisti e alla gestione logistica), esaltando il ruolo dell’azienda nel governo delle attività sanitarie e nella capacità relazionale di ricondurre ad unità, in un territorio di riferimento di medie dimensioni, input provenienti da livelli superiori (regione e Aree vaste) e inferiori (distretti).

In conclusione, non si può non sottolineare come il processo delineato richieda anche uno sforzo di riadeguamento della regione come istituzione titolare delle competenze e delle responsabilità, economiche e politiche, in materia sanitaria. Tutte le regioni stanno affrontando tale nodo del problema, anche in modo differenziato, in una fase in cui tra l’altro alcune tendenze neocentralistiche del livello statale contribuiscono a confondere, anziché chiarire. Ma sono rintracciabili coordinate comuni fondate su una riaffermazione del ruolo e degli strumenti dell’indirizzo e delle direttive verso il sistema. Così come la definizione di regole al cui interno i soggetti trovino un comune riferimento, l’affinamento degli strumenti del controllo di risultato, in campo economico e di qualità dei servizi, da utilizzare soprattutto con funzione di servizio ai soggetti del sistema e di confrontabilità degli stessi. La capacità, infine, in corrispondenza delle politiche locali di forte integrazione territoriale, di saper essa stessa esprimere un governo complessivo e intersettoriale del sistema regionale in cui la sanità assuma il ruolo pieno di risorsa e non solo, come spesso è stato in passato, di mero costo.