Le vie della municipalizzazione

Di Fabio Merusi Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

In occasione dei centenari di accadimenti istituzionali si è soliti fare dei consuntivi, dei bilanci. Si esamina ciò che è vivo e ciò che è morto di determinati istituti. Ci si chiede quali furono le esigenze che spinsero a istituirli e se tali esigenze siano tuttora vive; se il loro mutare abbia prodotto anche mutazioni istituzionali effettive; se le mutazioni istituzionali siano o meno adeguate al mutare delle esigenze. Si individuano così gli istituti obsoleti e se ne suggeriscono di nuovi. O più semplicemente si ricostruiscono le modificazioni delle istituzioni nel tempo, modificazioni che possono essere normative o anche dipendenti da successive diverse interpretazioni di una normativa rimasta apparentemente immutata. Nel rispetto delle consuetudini possiamo provare a fare la stessa cosa per il centenario della municipalizzazione.

 

1. In occasione dei centenari di accadimenti istituzionali si è soliti fare dei consuntivi, dei bilanci. Si esamina ciò che è vivo e ciò che è morto di determinati istituti. Ci si chiede quali furono le esigenze che spinsero a istituirli e se tali esigenze siano tuttora vive; se il loro mutare abbia prodotto anche mutazioni istituzionali effettive; se le mutazioni istituzionali siano o meno adeguate al mutare delle esigenze. Si individuano così gli istituti obsoleti e se ne suggeriscono di nuovi. O più semplicemente si ricostruiscono le modificazioni delle istituzioni nel tempo, modificazioni che possono essere normative o anche dipendenti da successive diverse interpretazioni di una normativa rimasta apparentemente immutata. Nel rispetto delle consuetudini possiamo provare a fare la stessa cosa per il centenario della municipalizzazione.

Quali sono i tratti essenziali della legge giolittiana sulla municipalizzazione del 1903? Possiamo così sintetizzarli: 1) l’eliminazione degli effetti negativi dell’erogazione di servizi pubblici in regime di monopolio di diritto (come i tranvai che la legge 27 dicembre 1896, n. 561 attribuiva obbligatoriamente ai privati) o di fatto (per le caratteristiche tecniche del servizio determinanti la necessaria unicità dell’erogatore) da parte di privati concessionari attraverso la gestione diretta da parte dei comuni; 2) l’individuazione di una nuova forma giuridica di gestione diretta del servizio, l’azienda-organo; 3) l’attribuzione al consiglio comunale di definire che cosa fosse un servizio pubblico locale, se non rientrante in un elenco non esaustivo di servizi pubblici locali previsti dalla stessa legge.

Secondo le previsioni della legge, che recepiva esperienze di gestione dirette già in atto nel nostro come in molti altri paesi, l’eliminazione degli effetti negativi del monopolio del privato concessionario poteva avvenire attraverso la gestione del monopolio da parte dell’ente locale, di fatto o, in alcuni casi, anche di diritto prevedendo l’attribuzione di un diritto di esclusiva all’ente locale (come nei trasporti funebri, nei macelli e nei mercati pubblici). In un solo caso era prevista l’assunzione diretta di un servizio per introdurre la concorrenza nel mercato: nel caso dell’«impianto ed esercizio di farmacie» (articolo 1 n. 6), che veniva giustificato con la finalità di calmierare il prezzo della produzione dei farmaci (all’epoca il rilievo delle farmacie non stava tanto nella commercializzazione di farmaci, quanto nella produzione di medicinali).

Ma la lista dei servizi pubblici locali prevista dall’articolo 1 della legge era aperta e il consiglio comunale, una volta identificato un pubblico servizio, era evidentemente libero di assumere direttamente il servizio o per sostituire a un monopolio privato un monopolio pubblico, oppure per introdurre un fattore concorrenziale in un mercato caratterizzato da una situazione di monopolio o di oligopolio, come nel caso delle farmacie. Per l’assunzione diretta, oltre che giovarsi dell’elenco esemplificativo fatto dal legislatore, il consiglio comunale – con l’ausilio dell’intera comunità locale attraverso un referendum, salutato da tutti i commentatori dell’epoca come un ritorno alla democrazia diretta comunale – avrebbe dovuto accertare se una determinata attività aveva le caratteristiche del pubblico servizio. Dai lavori preparatori della legge, dalle relazioni al disegno di legge e dall’ampio dibattito che accompagnò l’approvazione della legge in entrambi i rami del parlamento, risulta che sotto la dizione «pubblico servizio» potevano rientrare ipotesi fra di loro diversissime, che avevano in comune soltanto la destinazione di una determinata attività alla collettività locale. Dal dibattito parlamentare e dai primi commentatori che ne riprendevano il linguaggio, risulta che, secondo l’opinione dell’epoca, quasi tutti i servizi pubblici locali avevano carattere «industriale» perché comportavano la produzione di beni o di servizi da destinare alla collettività locale. Mentre altri, pur avendo qualche rilievo economico, «non costituiscono una vera e propria industria», riducendosi all’erogazione di una prestazione a membri della collettività locale. Distinzione riferibile anche ai servizi individuati nell’elenco dei servizi pubblici sul quale si trovarono d’accordo, dopo un acceso dibattito, il governo e il parlamento. Quasi tutti i servizi ricompresi nell’elenco della legge avevano carattere industriale, mentre alcuni non avevano certamente tale carattere – come gli essiccatoi e i depositi di granturco, finalizzati alla lotta contro la pellagra; la costruzione e la gestione di asili notturni che rientravano nelle misure per alleviare il pauperismo – e altri ancora erano palesemente ai limiti del concetto di «industria» – come la costruzione e la gestione delle fognature. (Ma fino a che punto la costruzione di opere pubbliche produce anche un servizio pubblico? Non a caso, si discusse a lungo sulla questione se la costruzione di ponti realizzasse anche un servizio pubblico e potesse essere, di conseguenza, oggetto di «municipalizzazione»). Una distinzione che accompagnerà per un secolo la letteratura sulla municipalizzazione fino a trovare consacrazione in una monografia espressamente dedicata ai «pubblici servizi industriali» e, come vedremo, ritornata curiosamente di attualità a ridosso del centenario, senza che quasi nessuno ne ricordasse più l’origine.

Ma come è ben noto, la principale originalità della legge consiste nell’aver trovato un modo per combinare assieme l’organizzazione di una pubblica amministrazione con l’esigenza di gestire il servizio secondo moduli imprenditoriali, inserendo l’azienda, elemento costitutivo dell’impresa, nell’organizzazione amministrativa e attribuendole lo status di organo dell’ente.

Le altre disposizioni della legge, la complessa procedura prevista per l’assunzione diretta del pubblico servizio e i penetranti controlli dello Stato sulla vita dell’azienda, oggetto all’epoca di acceso dibattito per il loro affermato carattere ostativo della municipalizzazione, hanno perduto rilievo nel tempo. Mentre altre, come la procedura e la disciplina del riscatto delle concessioni in essere, avevano carattere prevalentemente transitorio, anche se non completamente recessivo; perché le concessioni non venivano eliminate dalla legge sulla municipalizzazione, ma rimanevano come possibile forma di gestione dei servizi pubblici locali – che sopravvivrà fino ai nostri giorni – soprattutto nei casi in cui la misura del necessario investimento iniziale esorbitava dalle disponibilità immediate dell’ente locale. Da questa sintetica illustrazione del contenuto della legge sulla municipalizzazione è possibile trarre almeno due considerazioni utili per un giudizio sulle problematiche attuali dei servizi pubblici locali.

La prima è che l’istituto amministrativo della concessione, presente all’epoca in quasi tutti i servizi municipalizzabili, non era riuscito a impedire gli effetti negativi di un monopolio determinato di fatto o di diritto dall’atto di concessione. Notava già acutamente il primo commentario della legge che, a proposito della municipalizzazione dei pubblici servizi, trattavasi «solo di decidere se sia preferibile quella forma d’intervento diretto, che consiste nella gestione diretta comunale, ovvero quella forma di intervento indiretto (...) mediante cui l’Amministrazione fissa i prezzi e pone dei limiti ai guadagni dei concessionari, ricorrendo, a tale scopo, per lo più, al sistema dei dividendi massimi e della partecipazione ai profitti, variamente combinati tra loro (...) ma anche qui l’esperienza di tutti gli Stati e di tutte le età dimostra che trarre le regolamentazioni e le limitazioni di tale genere riescono praticamente insufficienti; che, per quanto minuziose, per quanto previdenti e ingegnose siano le clausole introdotte nei contratti di concessione, e i controlli esercitati, gli espedienti immaginati dalle compagnie per eluderli, siano più ingegnosi ancora».

La seconda considerazione è che, trattandosi di una legge di «municipalizzazione», seguiva inevitabilmente le dimensioni territoriali del municipio in cui era inserita l’azienda- organo, con la conseguenza che il mercato di destinazione del servizio pubblico o produceva naturaliter un fenomeno monopolistico oppure escludeva la stessa configurabilità dell’erogazione del servizio per l’impossibilità di adeguare i costi di impianto all’esiguità del servizio erogabile. È vero che già la legge del 1903 prevedeva la possibilità di allargare il mercato dei servizi pubblici locali attraverso la costituzione di consorzi, ma è vero altresì che, tranne rare eccezioni, il consorzio – anche dopo i perfezionamenti normativi introdotti con il Testo unico del 1925 – non è mai risultato uno strumento idoneo per passare dalla circoscrizione amministrativa alla delimitazione di un mercato ottimale di un pubblico servizio. Così come si è rivelata sostanzialmente ininfluente l’estensione alla provincia, sempre nel Testo unico del 1925, della possibilità di gestire direttamente pubblici servizi. Le limitate competenze delle province e le loro modeste capacità finanziare non hanno permesso che si creasse anche un mercato provinciale di pubblici servizi. In sintesi, il riconoscimento da parte della legge Rattazzi, poi confluita nella legge di unificazione nazionale del 1865, del comune come società «naturale» risultante da regie patenti o da consimili atti dell’Ancien Regime, ha consentito la «municipalizzazione», cioè l’identificazione di un mercato dei pubblici servizi solo nei comuni medio grandi. Mentre la provincia e le aggregazioni consortili fra comuni anche di piccole dimensioni non sono risultati, per vari motivi, strumenti validi per identificare, se non in casi marginali, un mercato sovracomunale dei pubblici servizi.

 

2. Stabilito quali sono state le caratteristiche e i limiti della municipalizzazione, viene naturale chiedersi quali siano state le cause e le origini dell’attuale stato confusionale che caratterizza i servizi pubblici locali.

Per parecchi decenni, apparentemente, l’impianto della legge sulla municipalizzazione non venne modificato. Una legislazione che fu definita «occulta» (rispetto al fenomeno della municipalizzazione) in qualche caso indicò nuovi servizi da municipalizzare (le centrali del latte negli anni Trenta), più spesso sottrasse alla disponibilità dei consigli comunali servizi pubblici disciplinandoli diversamente (le fognature divennero un’opera pubblica di urbanizzazione; i telefoni furono statalizzati e dati in concessione a società operanti in aree sovracomunali; l’elettricità fu nazionalizzata). Mutava l’oggetto della municipalizzazione, ma il modello della municipalizzazione restava invariato. La crisi «generale» ha data recente. È grosso modo riferibile all’ultimo ventennio.

 

3. La crisi dell’originario modello della municipalizzazione delineato dalla legge del 1903, e definitivamente codificato dal Testo unico del 1925, ha cause diverse. E il sommarsi delle cause ha spesso prodotto delle riforme fra di loro difficilmente compatibili, anche quando non contraddittorie, e perciò caratterizzate da una accentuata instabilità.

Le cause della crisi della municipalizzazione imperniata sull’azienda-organo sono, in via di prima approssimazione, identificabili nelle seguenti: 1) cause endogene al modello dell’azienda speciale; 2) cause connesse alla crisi della finanza comunale; 3) cause riconducibili alla normativa comunitaria finalizzata all’individuazione di un mercato concorrenziale delle «pubbliche forniture» (impropriamente chiamata concorrenza per il mercato); 4) cause riconducibili all’indirizzo comunitario volto a introdurre in alcuni servizi pubblici, anche locali, forme di concorrenza «artificiale».

 

4. Le cause endogene al modello dell’azienda speciale sono da ricercare nella insofferenza dell’impresa pubblica locale nei confronti della sua configurazione di organo dell’ente pubblico comune. Le procedure amministrative che legavano l’azienda come organo dell’ente locale ne rallentavano l’azione imprenditoriale che, in più di un caso, non poteva avere quell’immediatezza richiesta alle decisioni imprenditoriali. Mentre il legame economico-finanziario con l’ente locale la privava di quell’autonomia finanziaria necessaria per una autonoma politica degli investimenti e dell’indebitamento.

Le risposte dell’ordinamento a queste esigenze furono due. Innanzitutto l’approvazione con D.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902 di un nuovo regolamento sostitutivo di quello, ormai obsoleto, del 1904 «irto di burocratici formalismi e di vincolanti prescrizioni», ma sopravvissuto al Testo unico del 1925, che semplificava le procedure amministrative e i controlli dell’ente locale aumentando così l’autonomia operativa dell’azienda. E, di lì a poco, la legge 8 giugno 1990, n. 142 sul nuovo ordinamento delle autonomie locali, che attribuì alle aziende speciali la personalità giuridica trasformandole in «enti strumentali dell’ente locale». Le aziende municipali venivano così trasformate in enti pubblici economici. L’innesto giolittiano veniva reciso e l’impresa prendeva il sopravvento sull’organizzazione amministrativa, realizzando così una costante aspirazione «endogena» delle aziende municipalizzate. L’azienda-organo veniva conservata, con il mutato nome di «istituzione», per l’erogazione dei servizi sociali, cioè per quei servizi che, non avendo carattere «industriale», non potevano venir gestiti da un’impresa.

Ma era ormai troppo tardi. Da decenni ormai si assisteva al fenomeno della «fuga dalla municipalizzazione» verso la società per azioni. Una volta ammesso che i comuni nella loro generale capacità di diritto privato potevano partecipare a società per azioni, essi avevano ben presto constatato che la costituzione di una società comportava un procedimento più semplice di quello della assunzione diretta di un pubblico servizio attraverso la costituzione di un’azienda speciale. E che non esistevano ostacoli neppure per le valenze pubblicistiche dell’organizzazione e dell’erogazione del servizio, perché l’autonomia statutaria concessa dal codice alle società per azioni permetteva di collegare organizzativamente la società all’ente locale, mentre per le valenze pubblicistiche dell’erogazione del servizio si poteva vincolare con atti convenzionali la società al rispetto di obbligazioni di pubblico servizio. Il modello della società per azioni a partecipazione dell’ente locale era diventato competitivo nei confronti dell’azienda municipalizzata anche perché, a differenza dell’azienda-organo, poteva permettere di stabilire rapporti anche con altri soggetti eventualmente interessati alla gestione dell’impresa di pubblico servizio (altri enti pubblici, anche locali, privati fornitori, dipendenti e simili, a seconda delle opportunità). Comprensibile pertanto che la maggior parte delle nuove iniziative di servizio pubblico fossero realizzate mediante società per azioni e che l’azienda speciale fosse ormai relegata al ruolo storico di testimone della municipalizzazione, dal quale tentava di liberarsi rivendicando anch’essa una piena autonomia imprenditoriale.

 

5. La sistemazione fissata negli articoli 22 e 23 della nuova legge sulle autonomie locali sembrava una felice e armoniosa codificazione del sistema, e invece fu solo l’inizio del caos. La nuova legge dava autonomia imprenditoriale alle aziende speciali staccandole dall’ente locale e trasformandole in enti economici strumentali del comune; stabiliva che l’azienda speciale era ancora utilizzabile per i servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale e riconosceva la possibilità, alternativa, di esercitare servizi pubblici imprenditoriali «a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico, qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati».

La società per azioni era ammessa, ma era limitata ai soli casi in cui si rendesse opportuna la collaborazione con soggetti terzi, pubblici o privati, e doveva comunque rimanere «a prevalente partecipazione pubblica».

Ma la codificazione non aveva tenuto conto di un fenomeno già allora in atto: la necessità di riequilibrare un debito pubblico abnorme che minacciava di travolgere l’economia italiana con effetti che andavano ben al di là del contenimento della spesa pubblica imposta a tutti i paesi occidentali dalla generale crisi fiscale dello Stato. Poiché la finanza locale era quasi interamente una finanza derivata, la riduzione del debito pubblico e il contenimento della spesa significavano anche riduzione e contenimento della stessa. Come è noto, uno dei modi per far fronte a questa situazione è la privatizzazione di beni pubblici e di imprese pubbliche. E anche le imprese pubbliche erogatrici di pubblici servizi degli enti locali furono coinvolte nel generale processo di privatizzazioni finalizzate al risanamento della spesa pubblica. Ma privatizzare una società per azioni è, almeno giuridicamente, facile: basta alienare in tutto o in parte il pacchetto azionario di proprietà dell’ente locale. Per una azienda speciale, anche se trasformata in ente pubblico strumentale, ciò non è possibile. Bisogna prima «privatizzarla», cioè trasformarla in società per azioni per poi procedere alla privatizzazione «effettiva».

Ne risultava stravolta la normativa prevista nella legge n. 142. La partecipazione dell’ente locale non era più necessariamente solo prevalente: poteva oscillare dalla totalitarietà del dopo trasformazione dell’azienda speciale, in attesa della privatizzazione effettiva, alla partecipazione di minoranza. Ne derivarono una serie di problemi variamente risolti dalla giurisprudenza in un frequente contenzioso derivante dal contrasto tra il vecchio e il nuovo (se e quando fosse necessaria una concessione di pubblico servizio per il nuovo soggetto privato e come si potesse valutare l’azienda pubblica e trasformarne in capitale la consistenza patrimoniale, tanto per citare gli esempi più vistosi), che hanno indotto il legislatore a intervenire con correzioni suggerite dai problemi emersi.

Dopo dieci anni dalla legge di riforma degli enti locali, il modello alternativo della società per azioni esercente pubblici servizi locali risultava così mutato nell’articolo 113 del Testo unico degli enti locali approvato con D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267: al modello della società per azioni era stato aggiunto, per ragioni fiscali, quello della società a responsabilità limitata e alla società per azioni, costituita o partecipata dall’ente locale, titolare del servizio ma a prevalente capitale pubblico, era stata aggiunta la società per azioni «senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria». Mentre un apposito articolo, il 116, disciplina analiticamente il procedimento di privatizzazione delle aziende municipalizzate sulla falsariga dei procedimenti previsti per la privatizzazione degli enti pubblici economici statali.

Ma questo ulteriore tentativo di codificazione dei modi di gestione dei servizi pubblici locali ha avuto vita ancor più breve del lapidario elenco contenuto nella legge del 1990. Sul processo di privatizzazione dei servizi pubblici locali e sulla gestione di questi servizi incombe l’ombra comunitaria.

 

6. Per capire che cosa è successo nel 2001 e nel 2003 e che cosa probabilmente accadrà in futuro bisogna tener nettamente distinti due indirizzi normativi comunitari: 1) l’indirizzo della comunità inteso a realizzare un mercato concorrenziale delle «pubbliche forniture», impropriamente ricompreso nella cosiddetta concorrenza per il mercato, perché non sempre la contendibilità di una pubblica fornitura si conclude con un atto di abilitazione a entrare in un mercato; 2) l’introduzione della concorrenza anche nei pubblici servizi, attraverso la creazione di una concorrenza artificiale determinata con provvedimenti amministrativi.

Il primo indirizzo ha investito anche i procedimenti di privatizzazione dei servizi pubblici locali. La concessione di un servizio pubblico conseguente alla privatizzazione di una società deve essere contendibile e così pure la scelta di un eventuale socio privato. L’esigenza di creare un mercato concorrenziale delle pubbliche forniture non fa che ripristinare il principio della gara nei rapporti contrattuali con i terzi, già previsto nella legge comunale e provinciale in tutte le sue successive versioni, così come nella legge sulla contabilità dello Stato, ma in passato progressivamente disatteso facendo leva su una discutibile nozione di concessione o sulla presunta particolarità del contratto di società. La gara può servire per perseguire finalità diverse – l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione in un caso, la concorrenza in un particolare mercato economico e quello delle pubbliche forniture, nell’altro – ma in apparenza si tratta solo di ricondurre gli atti rilevanti di un procedimento di privatizzazione di pubblici servizi alla normale disciplina dei rapporti della pubblica amministrazione con i privati.

Innovativa è invece l’idea di introdurre la concorrenza dentro ai servizi pubblici, idea che il legislatore comunitario ha derivato da note esperienze inglesi in materia. Ma come introdurre la concorrenza anche in pubblici servizi? Scorporando la parte demaniale del servizio, quando il monopolio è determinato dal mezzo di produzione e di erogazione del servizio, e aprendo poi alla libera concorrenza la gestione del servizio (si può scorporare la rete ferroviaria per poi far correre sui binari treni di diverse compagnie o la rete di distribuzione dell’energia elettrica per poi farvi correre l’elettricità di diversi produttori fra di loro in concorrenza). Ma anche quando il monopolio non è determinato dalla «demanialità» del mezzo di produzione è sempre possibile introdurre la concorrenza nei pubblici servizi affidando a un regolatore neutrale di simulare artificialmente, con strumenti giuridici, gli effetti della concorrenza. Un regolatore che ha il compito istituzionale di simulare gli effetti della concorrenza e di condurre un mercato di per sé non concorrenziale verso la realizzazione di una effettiva concorrenza.

Come è facile constatare, si tratta di una soluzione completamente diversa da quella che è alla base della legge sulla municipalizzazione del 1903: ovviare agli effetti negativi del monopolio nei pubblici servizi locali prevedendo la possibilità di una gestione diretta del monopolio da parte dei comuni.

Ma è possibile introdurre la regolazione concorrenziale anche nei pubblici servizi locali, anziché reintrodurre il monopolio del concessionario privato, risultato al quale sembra tendere la pura e semplice privatizzazione delle aziende municipalizzate? Senza la concorrenza i servizi pubblici locali sembrano dover regredire al monopolio privato che caratterizzava i servizi pubblici locali alla fine di due secoli fa. Il legislatore ha tentato di rispondere a questo quesito, o meglio sta tentando di rispondere per aggiustamenti progressivi. Ha preso atto che il territorio dei singoli comuni (tranne forse quello delle grandi aree metropolitane) è troppo esiguo per poter identificare un mercato rilevante nel quale introdurre la concorrenza. Alla naturale tendenza al monopolio dei mercati ristretti si aggiunge il fatto che il costo della regolazione può anch’esso essere sopportato solo da mercati di grandi dimensioni. La concorrenza può essere creata artificialmente con strumenti giuridici, ma le autorità di regolazione non sono moltiplicabili se non per mercati idonei a sopportarne i costi e quasi nessun mercato dei servizi pubblici locali ha queste caratteristiche. Il legislatore ha preso atto che il mercato rilevante non può essere comunale e ha fatto rinvio alle normative di settore, cioè a normative che identificano mercati rilevanti per singoli servizi pubblici, anche erogati in sede locale.

Il riferimento è alla legge Galli, con le sue procedure per l’identificazione di aree ottimali per l’erogazione del servizio idrico, e alla legge istitutiva dell’Autorità di regolazione per l’energia e il gas, che attribuisce a una autorità nazionale di regolare l’erogazione del servizio del gas anche in sede locale. Se si è ben capito l’idea è che, estendendo progressivamente le discipline di settore, esse finiranno per regolare, creando così una concorrenza artificiale e – in prospettiva e quando è possibile – effettiva anche nei servizi pubblici locali, gestiti direttamente dai comuni o privatizzati.

Meno comprensibile, o se si vuole ancora non perfezionata, è la normativa generale che dovrebbe essere integrativa della regolazione dei mercati di settore. La nuova normativa prevede la dissociazione, quando prevista da normative di settore, fra proprietà «demaniale» delle reti, degli impianti e delle dotazioni (termine di difficile interpretazione e forse meramente residuale rispetto agli altri due) ed erogazione del servizio. La proprietà rimane demaniale, degli enti locali o delle loro articolazioni meramente organizzative rappresentate da società per azioni in pubblico determinante, mentre la gestione... E qui sta il punto maggiormente problematico. La dissociazione fra proprietà ed erogazione del servizio dovrebbe servire, se la proprietà «demaniale» è un ostacolo alla possibilità di configurare più gestori del servizio fra di loro in concorrenza e se è possibile spostare la concorrenza sull’erogazione del servizio. Il binario rimane pubblico, ma più imprese ferroviarie possono far correre i loro treni sul binario pubblico. E, ritornando all’esempio locale, sullo stesso binario di una ferrovia metropolitana è possibile immettere treni di diversi gestori del pubblico servizio. La norma, infatti, dopo aver previsto la dissociazione fra proprietà delle reti e degli impianti ed erogazione del servizio, stabilisce che è garantito l’accesso alle reti a tutti i soggetti legittimati all’erogazione dei relativi servizi. Dal che sembrerebbe di capire che la concorrenza nell’erogazione del servizio sarebbe possibile solo nel caso di reti e non di impianti di produzione. Ma a parte tale differenziazione fra impianti e reti, che è forse frutto di una cattiva redazione della norma, il problema è poi di stabilire chi sia legittimato ad accedere ai beni demaniali per poter erogare il servizio con altri.

Seguendo la logica della creazione di un sistema concorrenziale la risposta in astratto è semplice: se l’accesso al bene demaniale è generalizzabile, è sufficiente prevedere una abilitazione autorizzativa che accerti la presenza di determinati requisiti in chi vuole entrare nel mercato di erogazione del servizio; se l’accesso, per ragioni tecniche, è possibile solo per pochi, l’accesso diviene un bene scarso da immettere a sua volta nel mercato concorrenziale delle pubbliche forniture. Il provvedimento amministrativo che abilita all’utilizzazione della rete o dell’impianto pubblico dovrà essere contendibile fra più operatori fra di loro in concorrenza (cosiddetta concorrenza per il mercato).

Dopo questa «testa di capitolo» non si disciplina però né una soluzione né l’altra. L’erogatore del servizio sembra uno solo, come nelle normali concessioni di pubblici servizi. Si è disciplinato con variazioni fra un testo e l’altro, succedutisi fra una finanziaria e l’altra, soltanto le possibili ipotesi nelle quali il provvedimento di concessione all’erogazione del servizio diventa una pubblica fornitura, e perciò contendibile fra più concorrenti del mercato delle pubbliche forniture. La cosiddetta concorrenza per il mercato, del tutto irrilevante per la concorrenza nel mercato quando nel mercato al quale si accede con l’atto contendibile la concorrenza non c’è.

Il regime della «contendibilità» è il punto sul quale si è maggiormente accentrata l’attenzione dei commentatori e della Comunità europea. Ma, come abbiamo visto, è anche un punto irrilevante per l’eventuale introduzione della concorrenza nei servizi pubblici locali.

Il punto determinante, pur in presenza di un concessionario monopolista nell’erogazione di un pubblico servizio, sarebbe stata l’individuazione di una regolazione e di un soggetto regolatore che, ovviamente, non può essere l’ente pubblico concedente, e che non può essere un terzo neutrale, interessato alla sola concorrenzialità di un mercato. La normativa in questione non affronta il problema, che è forse quello centrale, se si vuole introdurre la concorrenza nei pubblici servizi locali, confidando nelle discipline di settore e limitandosi a indicare degli «stimolatori» di efficienza di tipo regolativo che le amministrazioni concedenti potrebbero introdurre nel contratto di servizio che accompagna la concessione. Un palliativo transeunte, se si considera che già i commentatori della legge del 1903 avevano sottolineato che i malefici effetti del monopolio non venivano scalfiti dai tentativi delle amministrazioni concedenti di imporre ai concessionari degli oneri imitati dai «benefici effetti» della concorrenza. I centenari sono anche un’occasione per ricordare, non solo perché determinate istituzioni sono state create, ma anche perché non hanno funzionato altre soluzioni.

In conclusione, risulta difficile capire la logica della dissociazione fra proprietà demaniale del bene ed erogazione del servizio quando non serve a creare un mercato concorrenziale dell’erogazione. Se serve soltanto ad addossare alla mano pubblica il costo delle reti e degli impianti e a immettere i privati concessionari (dentro una società mista o da soli) in condizione di gestire una attività imprenditoriale produttiva di utili, siamo fuori della problematica della «concorrenza artificiale nei pubblici servizi». Ma il giudizio, come si accennava all’inizio, va sospeso. La nuova normativa è solo integrativa di quella delle discipline di settore, serve solo a disciplinare quel che verosimilmente non prevedono le normative di settore e a unificare la normativa di situazioni presumibilmente simili. Sono dunque le discipline di settore ch e per ogni tipo di servizio dovranno identificare il mercato rilevante anche per i servizi pubblici locali. Nonché l’autorità regolatrice che, di necessità, non potrà coincidere con gli enti pubblici locali, qualunque sia la tipologia di individuazione e di gestione dei servizi pubblici locali.

Come dire che è dalla disciplina di settore che dovrà scaturire in futuro la «regolazione» anche dei servizi pubblici locali. A meno che, naturalmente, non si voglia continuare in inutili logomachie che con la concorrenza non hanno nulla a che fare...