Una rivoluzione conservatrice e religiosa

Di Pierangelo Giovanetti Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

In un paese invischiato in una guerra di cui non si vede via d’uscita, con un’economia bloccata, la disoccupazione crescente, una continua perdita di potere d’acquisto da parte della classe media, un quarto degli abitanti privi di assistenza sanitaria e in allarme costante contro il terrorismo, la questione che ha avuto più interesse per gli elettori americani delle presidenziali 2004 è stata la difesa dei valori morali. Interrogati all’uscita dei seggi, il 22% degli elettori ha posto in testa alla propria decisione di voto i cosiddetti «Moral values». L’80% di quanti ritengono la difesa dei valori morali la questione più rilevante da fronteggiare ha votato per George W. Bush.

 

In un paese invischiato in una guerra di cui non si vede via d’uscita, con un’economia bloccata, la disoccupazione crescente, una continua perdita di potere d’acquisto da parte della classe media, un quarto degli abitanti privi di assistenza sanitaria e in allarme costante contro il terrorismo, la questione che ha avuto più interesse per gli elettori americani delle presidenziali 2004 è stata la difesa dei valori morali. Interrogati all’uscita dei seggi, il 22% degli elettori ha posto in testa alla propria decisione di voto i cosiddetti «Moral values».1 L’80% di quanti ritengono la difesa dei valori morali la questione più rilevante da fronteggiare ha votato per George W. Bush.

Secondo l’indagine CBS News, il 52% degli elettori all’uscita dei seggi ha dichiarato la propria convinzione che l’economia americana stia andando molto male. Era il 13% alle elezioni del 2000. Nonostante questo, però, la preferenza di voto è stata data ugualmente a George Bush perché – come ha detto alle telecamere un operaio disoccupato dell’Ohio, lo Stato che ha decretato le elezioni – «Bush ci fa del male, è vero. L’economia è a pezzi e io ho perso il lavoro. Ma in questo momento è più importante la difesa della moralità del paese. Perciò ho votato Bush».

Per il presidente Bush (metodista) ha votato il 52% dei cattolici, che lo hanno preferito al cattolico John Kerry. Nel 2000 la maggioranza dei cattolici votò a favore del democratico Al Gore (battista). A favore di Bush hanno votato tutti i maggiori gruppi religiosi, senza distinzione fra ebrei, protestanti, cattolici, ad eccezione di musulmani.2 Per il candidato repubblicano ha votato il 61% di chi va regolarmente in chiesa o in sinagoga ogni settimana (negli Stati Uniti i praticanti sono il 41% della popolazione e degli elettori). Il candidato democratico Kerry ha raccolto invece l’appoggio del 62% di chi non frequenta mai le chiese, che però corrisponde al 14% dell’elettorato.

La «battaglia sui valori» e la «questione religiosa» sono state determinanti nella rielezione di Bush alla Casa Bianca, più di qualunque altro tema politico. Senza la mobilitazione di quattro milioni di evangelici che non avevano votato nel 2000, oggi il presidente degli Stati Uniti d’America sarebbe John Kerry. «Credevamo fossero le elezioni del terrorismo e della guerra in Iraq – ha commentato Bill Schneider, uno dei maggiori politologi americani – Invece saranno ricordate come le elezioni dei valori morali».

Perché tutto questo? Come mai l’elezione del presidente di un paese in guerra e con una pesante crisi economica è stata vissuta dalla maggioranza come una crociata sui valori morali?

 

La rivoluzione conservatrice

La centralità della questione religiosa in queste elezioni non è un fattore passeggero, ma influenzerà molto la politica americana (e quindi mondiale) per parecchi anni. Gli Stati Uniti sono un paese profondamente religioso, e nato su fondamenta religiose. L’85% degli americani afferma nei sondaggi di ritenere la religione importante nella propria vita, e il 70% vuole come presidente «un uomo timorato di Dio e di forte fede». Anche se i padri fondatori, James Madison e Thomas Jefferson, hanno posto come principio guida la separazione fra Stato e chiesa, la religione è stato l’elemento propulsivo della democrazia americana, come si evince dalla stessa Dichiarazione di Indipendenza. Secondo il sociologo e politologo Robert Putnam: «in America il senso religioso è l’elemento che crea comunità. Ogni significativa riforma negli Stati Uniti, compreso il movimento dei diritti civili o la lotta alla schiavitù, ha avuto profonde radici religiose. Storicamente non c’è sindacato o altra realtà sociale così incisiva nella società americana come le chiese».

Negli ultimi vent’anni si è verificato uno spostamento in senso fortemente conservatore e fondamentalista di questa carica religiosa degli americani. Secondo il sociologo ed economista Robert Reich, ciò è dovuto alla forte perdita di identità e di sicurezze della generazione successiva ai baby boomers, dei figli del benessere degli anni Sessanta, unita a un profondo disorientamento seguito alla rivoluzione femminista e dei costumi degli anni Settanta, alla liberalizzazione dei diritti civili dell’individuo, alla globalizzazione e alla forte immigrazione.3 «Oggi i figli degli anni Sessanta stanno peggio dei loro genitori – afferma Robert Reich – Hanno stipendi più bassi. Svolgono lavori più precari. Non sono sicuri di poter avere una pensione decente quando saranno vecchi, e se si ammalano rischiano di essere senza una copertura sanitaria sufficiente per far fronte agli imprevisti». È la generazione del dopo Vietnam, che ha perso le sue sicurezze e la sua identità, ed è in cerca di valori forti, di certezze, di rassicurazioni. Mai come oggi gli americani avvertono il bisogno della religione come sicurezza di vita e saldezza di principi, in un mondo globalizzato che da un giorno all’altro cancella milioni di posti di lavoro, trasferendoli altrove. «La forza di George W. Bush, la forza dei repubblicani – continua Robert Reich – è stata quella di aver capito questa trasformazione profonda dell’America, questo bisogno di essere rassicurati, e averlo tradotto in temi politici. Qui nasce l’agenda politica del presidente: lotta agli immigrati che portano via il lavoro, libertà di possesso delle armi per difendersi, odio verso i gay e le femministe che sovvertono l’ordine morale, avversione verso tutto ciò che sa di intellettuale, di francese, di snob, forte riarmo militare per tornare a essere i primi nel mondo e riconquistare il primato morale della difesa della libertà».

Il secondo fattore della rivoluzione conservatrice americana è stata la mobilitazione di questa «maggioranza silenziosa». Fu Ronald Reagan il primo a capire che c’era un malessere profondo nella società americana, che poteva essere organizzato politicamente. Ma fu Pat Robertson, il potente telepredicatore, proprietario della catena televisiva «Christian network», autentica superpotenza mediatica, a trasformare negli anni Ottanta la rabbia silenziosa in lobby stabilmente organizzata, in grado di influenzare la politica e risultare determinante al momento del voto.

«A cominciare dalla fine degli anni Settanta, mentre i cristiani liberali dormivano, i fondamentalisti hanno costruito la loro potente rete», spiega Robert Edgar, ex deputato democratico e segretario generale del consiglio nazionale delle chiese. «Chiedevano a tutti un dollaro a preghiera. Ma soprattutto chiedevano il loro indirizzo e la lista dei valori in cui credevano. È lì che è nata la falange della destra cristiana». Così, temi come l’aborto, le cellule staminali, la lotta alla pornografia, i matrimoni gay, la preghiera a scuola, il creazionismo contrapposto al darwinismo, la difesa della bandiera sono diventati centrali nell’agenda politica, oscurando questioni come le politiche sociali, i diritti delle minoranze, i fondi per la salute e l’istruzione, la difesa dell’ambiente, il mantenimento del sistema pensionistico, la pace e una maggiore equità sociale, la lotta all’AIDS e alla fame nel mondo.

 

Ottanta milioni di seguaci

Motore di questa rivoluzione conservatrice sono le chiese evangeliche, i cosiddetti «evangelical», che raccolgono ormai ottanta milioni di seguaci, dispongono di decine di TV e quotidiani, centinaia di radio e di riviste, hanno le migliori scuole e università del paese. Le preferite da Bush, che instillano nel loro popolo e in milioni di altre persone un cristianesimo aggressivo, dedito a una guerra religiosa sotterranea contro cattolici, musulmani ed ebrei. Tutto il Sud e il Mid-West, dal North Dakota all’Alabama, dalla Florida al Texas sono i loro feudi. Coprono i 4/5 del territorio federale e costituiscono «un bastione del cristianesimo e della conservazione, una delle fondamenta del bushismo», come ha dichiarato al «Corriere della Sera» Michael Walzer, maestro del pensiero politico neoliberale. «Il divario culturale fra le due Americhe è enorme. Il popolo evangelico disprezza Washington, New York, Boston, le roccaforti del liberalismo, e individua in Hollywood la moderna Gomorra».

«Le elezioni hanno confermato che c’è una nazione divisa, non solo politicamente, ma prima ancora in termini di interpretazione della volontà di Dio», ha commentato al «New York Times» il leader dei cristiano-sociali Robert Edgar. «La verità – ribatte invece Harvey Mansfield, repubblicano, professore di scienza di governo e padre dei neocons – è che le chiese tradizionali sono diventate piuttosto liberal. Basta vedere cosa è successo nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II. Le chiese sono state quindi sorpassate da movimenti più attenti ai fondamenti della religione». «Questi hanno aggregato trasversalmente protestanti, cattolici ed ebrei. Una volta si diceva che l’America era divisa in tre gruppi religiosi: protestanti, cattolici ed ebrei. Oggi non è più così. Oggi la divisione è fra conservatori e modernisti». Ai primi fanno capo le contee rurali, gli stati del Sud e del Mid-West, l’America retro contrapposta all’America metro, la costa atlantica e pacifica, le metropoli.

Gli stessi vescovi cattolici (una parte, per lo meno) si sono schierati contro il cattolico Kerry. «Votare chi è a favore dell’aborto (Kerry n.d.r.) è un peccato che richiede la confessione», ha tuonato padre Charles Chaput, frate cappuccino e arcivescovo di Denver. E monsignor Bernard Schmitt, vescovo di Wheeling-Charleston, in West Virginia, ha scritto ai suoi parrocchiani per ricordare che votare Kerry «è peccato mortale», viste le sue posizioni liberali sull’aborto e le cellule staminali; subito spalleggiato dall’arcivescovo di St. Louis, Raymond Burk, che ha scomodato il giudizio di Dio, come a Sodoma e Gomorra, se l’America consentirà il matrimonio dei gay.

 

God, gun, gay: così si vincono le elezioni nell’America profonda

La geniale intuizione di George W. Bush, ma soprattutto del suo stratega della campagna elettorale Karl Rove, è stata quella di mobilitare questa America profonda contro l’altra, di galvanizzare l’America cristiana contro quella liberal, l’America repubblicana contro quella democratica, in una crociata di difesa della «moralità del paese», per rimettere un forte credo religioso al centro della politica e della società americana. Era l’unico modo per vincere una campagna elettorale difficile, in bilico, con forti problemi di politica interna sul tappeto e una lista di pesanti fallimenti, non solo di politica estera, nei quattro anni di Amministrazione Bush. Grazie alla crociata sui valori morali, la battaglia è stata vinta.

L’America che è andata alle elezioni a novembre, infatti, è un paese che ha il più alto debito federale della sua storia: 2,3 milioni di miliardi di dollari. Il bilancio federale è tenuto in piedi dai titoli di Stato acquistati da cinesi e giapponesi. Il deficit annuo ammonta nel 2004 a 413 miliardi di dollari. Il costo dell’assistenza sanitaria per le famiglie americane è salito del 64% negli ultimi quattro anni; il costo per l’educazione è aumentato del 35%; il prezzo della benzina è rincarato del 40,4%; solo nel primo trimestre 2004 1,2 milioni di famiglie americane hanno perso la casa perché non potevano più pagare il mutuo; la detassazione ha favorito solo i ceti più ricchi (il 10% dei contribuenti, corrispondente alla fascia più alta, ha beneficiato del 50% delle riduzioni fiscali). A questo va aggiunta la perdita di un milione e 600.000 posti di lavoro; un impoverimento generalizzato del ceto medio; salari più bassi per i nuovi posti di lavoro, come quelli creati in Arizona (in media 32,937 dollari, rispetto a 46,415 dollari di un corrispettivo stipendio nell’industria). A ciò si somma il fallimento della guerra in Iraq, che ha già portato a oltre 1.200 vittime fra i giovani americani, e che da mesi registra una crescente opposizione nell’opinione pubblica interna, con una preoccupazione diffusa su come uscirne e non restarne impantanati in un secondo tragico Vietnam.

L’unico modo per contrastare questo pesante bilancio negativo era di porlo in secondo piano, di farlo oscurare da un coinvolgimento emotivo più forte. La paura del terrorismo, del nemico esterno, non era sufficiente. Era necessario creare una paura più grande, più intensa ancora: la paura del nemico interno, del nemico che minaccia la tenuta della società americana. Ecco quindi la grande battaglia. Le tre magiche G: God, gun, gay. I tre assi nella manica, senza cui non si vince in tutti gli Stati del Sud e del Mid-West.

Il calcolo di Karl Rove è stato semplice. Nelle elezioni del 2000 quattro milioni di «evangelical» e di cristiani conservatori non si sono recati alle urne, in parte perché di solito non votano (come gli amish); in parte perché disturbati dall’arresto di Bush nel 1976, perché colto a guidare in stato di ubriachezza. Tanto era bastato per tenerli lontani dai seggi. Nella potente organizzazione politica dei repubblicani (milioni di elettori schedati, con tanto di relativi indirizzi e «valori morali» dichiarati), mancavano all’appello quei quattro milioni di elettori che avrebbero fatto la differenza.

Di qui il cambio di registro alla campagna elettorale, trasformata in una crociata tra il bene e il male, tra l’America dei valori e la sua dissoluzione, tra il condottiero della luce e l’abisso delle tenebre. A passare a Bush la palla vincente per fare gol, ci hanno pensato alcuni sindaci, come quello di San Francisco, e alcuni corti di giustizia, come quella del Massachusetts, che nell’anno precedente le elezioni hanno consentito la celebrazione di matrimoni gay. Questo ha reso visibile anche simbolicamente al grande pubblico i termini della «Santa Battaglia» in atto nel paese, e ha dato la stura all’oceanica mobilitazione dell’elettorato, come non si vedeva dagli anni Sessanta. In undici Stati, accanto alla scheda per la Casa Bianca, è stata consegnata agli elettori la scheda per il referendum sui matrimoni gay. In tutti gli undici Stati, la popolazione si è espressa a stragrande maggioranza contro il matrimonio gay, dal tollerante Oregon (lo Stato del vivi e lascia vivere), ai più conservatori Stati del Mid-West. Dovunque si sia tenuto, il referendum contro i matrimoni gay ha mobilitato elettori, ed elettori che poi hanno espresso sull’altra scheda la preferenza a Bush. L’ex presidente Clinton aveva suggerito a Kerry di schierarsi anche lui contro il matrimonio gay. Il candidato democratico, pur dicendosi contrario a legalizzare unioni fra persone dello stesso sesso, ha preferito non cavalcare il tema. E questo gli è costato la presidenza.

«L’Ohio è lo Stato gemello della Pennsylvania» ha dichiarato Gerry Bauer, a capo dell’Unione per la preservazione del matrimonio. «Tutti e due erano Stati in bilico. In Ohio però c’era il referendum contro il matrimonio gay, e ha vinto Bush. In Pennsylvania, no. E ha vinto Kerry». «La mobilitazione politica degli evangelical è il cambiamento più rilevante degli ultimi venticinque anni di elezioni americane», ha dichiarato Laura Olson, docente di Scienze politiche alla Clemson University. «In tutti gli Stati dove il consenso fra i due candidati era testa a testa, ha segnato la svolta per Bush».

 

Fede in Bush, più che nella sua politica

Il presidente Bush ha saputo quindi trasferire il giudizio sulla sua politica (fallimentare) in un giudizio sulla sua battaglia ideale (di alto coinvolgimento emotivo) e sulla sua persona (che richiede fiducia e totale dedizione, non ragionamenti). «Gli elettori sono stati colpiti dal carattere di Bush, dalla sua capacità di trasmettere senso di leadership, di essere determinato», spiega Harvey Mansfield, dell’Università di Harvard. «Forse sono stati colpiti più da questo che dalla sua politica. È stata una questione di fiducia. Gli americani hanno visto in Bush il condottiero in questa difficile battaglia. Battaglia contro i nemici esterni e nemici interni ai valori americani». Tutto il resto è passato in secondo piano. Un sondaggio del «Los Angeles Times» conferma che il 79% degli elettori di Bush è convinto che l’economia americana vada bene. Il 90% degli elettori di Kerry è convinto che stia andando a rotoli. L’83% dei repubblicani vota Bush perché crede in lui. La metà degli elettori d Kerry l’ha votato per votare contro Bush. La stragrande maggioranza degli elettori di Bush è convinta che vi fosse un coinvolgimento diretto tra il regime di Saddam Hussein e l’attentato alle Torri gemelle di New York. Come pure che in Iraq vi fosse una pericolosa concentrazione di armi di distruzione di massa, e che quindi la guerra fosse indispensabile. Lo stesso linguaggio di Bush fa continuamente riferimento a immagini bibliche, a visioni profetiche, a prospettive escatologiche. «Bush per esempio parla dell’Iraq, dicendo che Dio ha dato agli iracheni il diritto di vivere liberamente. Dio ha dato il diritto all’Iraq di essere una democrazia. – spiega Harvey Mansfield – Sono concetti che non derivano dalla Bibbia, ma piuttosto dalle teorie liberali. Ma è come se Dio fosse dietro questo concetto. Quindi, anche se non c’è scritto nella Bibbia, per Bush c’è la volontà di Dio dietro questa missione».

La forte mobilitazione del fronte conservatore attraverso sistemi modernissimi, data-base aggiornatissimi, e un sistema di dimensioni industriali di coinvolgimento porta a porta e di telefonate (in Nevada su una popolazione di poco più di mezzo milione di persone sono state effettuate 130.000 telefonate mirate ad altrettante famiglie da parte dei volontari repubblicani), si è tradotta in un plebiscito non solo per Bush, ma per l’intero Partito repubblicano. La crociata sui valori morali ha portato a Bush 59 milioni di voti, otto milioni in più rispetto al 2000, passando dal 47,8% al 51,1% dei consensi. Il Partito repubblicano ha fatto il pieno al Senato (passando da 51 a 55 rappresentanti) e alla Camera. Come pure fra i governatori degli Stati, di cui ha la maggioranza. Gli effetti della crociata morale si sono visti anche sul gruppo ispanico che, per la prima volta, quasi per metà ha votato repubblicano, e sulle donne sposate, sulle mamme, in maggioranza elettrici democratiche, che stavolta hanno votato per Bush.

Questa spaccatura del paese, evidenziata dal voto, minaccia ora di accentuarsi ancora di più. Il blocco conservatore, infatti, uscito vincitore dalle elezioni, ha inteso il plebiscito a Bush come un mandato per cambiare alle radici il modello culturale americano e mettere in atto un’agenda politica «teocratica»: nominare nei quattro, forse cinque, posti di giudice costituzionale che si libereranno durante il secondo mandato, persone rigidamente conservatrici sui temi morali, dalla bioetica al matrimonio gay; ingaggiare una battaglia culturale contro Hollywood per arrestarne l’influsso sui costumi morali; abolire la teoria evoluzionista darwiniana nelle scuole per reintrodurre il creazionismo; dichiarare l’aborto fuorilegge; reintrodurre la preghiera obbligatoria nelle scuole. Come annunciò alla Convenzione repubblicana del 1992 Pat Buchanan: «Nel paese è in atto una guerra religiosa profonda per la salvezza dell’anima dell’America».

 

Da Bush a Berlusconi: nel 2006 una crociata morale?

Pur essendo la realtà italiana in parte diversa da quella americana, un parallelo fra quanto è avvenuto alle presidenziali 2004 e a quanto potrebbe avvenire alle prossime politiche del 2006 è inevitabile. Anche in Italia, infatti, l’economia va male, le esportazioni sono crollate, il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito, la guerra si dimostra lunga e senza successo, il bilancio del governo Berlusconi è deludente, a detta degli stessi alleati, in quasi tutti i campi. Di fronte a una situazione di questo tipo, per Berlusconi l’unica via di salvezza potrebbe essere inventarsi una crociata morale da lanciare nel paese e attorno alla quale mobilitare la popolazione, diffondendo un profondo senso di paura e di bisogno di una guida sicura, di un profeta capace di capitanare la biblica battaglia fra la luce e le tenebre. Pensiamo, ad esempio, quale tipo di reazione potrebbe portare anche in Italia la richiesta di legittimazione dei matrimoni gay, e una corrispettiva crociata a difesa della moralità messa in atto dal centrodestra. O l’introduzione dell’insegnamento del corano a scuola, o la richiesta, al contrario, di reintrodurre obbligatoriamente il crocifisso a scuola e nei luoghi pubblici. O forse una battaglia contro l’Europa anticattolica, che cancella l’identità del nostro paese e uccide le autonomie locali. Battaglie che probabilmente dividerebbero il paese e porterebbero a far scivolare in secondo piano temi più importanti e rilevanti come l’economia nazionale, i conti pubblici, le riforme mancate.

La riflessione sul dopo-voto in America ha portato i democratici a riconoscere di aver bisogno di un maggior radicamento nella nuova realtà sociale del paese, una maggior comprensione del cambiamento avvenuto, un’attenzione più convinta alle richieste di sicurezza, di identità, di valori forti espressi dalla società americana. In secondo luogo, di avere candidati che possano interpretare al meglio tale sensibilità, per tradurla in un’agenda politica diversa da quella conservatrice, socialmente attenta ai problemi, capace di far ridiventare centrali battaglie come la copertura sanitaria per tutti, una migliore educazione scolastica, il rispetto per l’ambiente, maggiori garanzie previdenziali per i giovani, maggiore attenzione alle famiglie e ai loro bisogni, specie alle famiglie più numerose o con redditi più bassi. In terzo luogo, la sconfitta ha portato i democratici a ripensare la propria organizzazione, puntando molto sulla mobilitazione personale attorno ad alcune idee forti e precise, facilmente comprensibili dal grande pubblico, che facciano capire immediatamente il senso della battaglia e gli obiettivi che si vogliono raggiungere. E infine, la consapevolezza che non basta avere argomenti convincenti e razionali. Bisogna prepararsi a fronteggiare anche battaglie sull’irrazionale, crociate che colpiscono le viscere e non l’intelligenza, offrendo risposte tranquillizzanti, rassicuranti, altrettanto efficaci nell’incidere sull’immaginario collettivo.

La vittoria di Bush e la sconfitta dei democratici può forse insegnare molto anche in Italia. Alle elezioni 2006 manca poco più di un anno.

 

 

Bibliografia

1 Secondo l’indagine nazionale Edison/Mitofsky, ciò che ha contato di più al momento del voto sono stati: i valori morali (22% degli elettori), l’economia (20%), il terrorismo (19%), l’Iraq (15%), l’assistenza sanitaria (8%), le tasse (5%) e l’educazione (4%).

2 Secondo l’indagine PBS-TV, Religion&Ethics NewsWeekly, per i repubblicani ha votato il 78% dei protestanti born-again, l’80% dei mormoni, il 24% degli ebrei (tradizionale roccaforte democratica) e il 44% degli ispanici (altra roccaforte democratica). Ha invece votato per Kerry il 92% dei musulmani, che nel 2000 avevano votato a maggioranza per Bush, ma che corrispondono solo all’1% dell’elettorato.

3 Cfr. S. Huntington, Who are we: the challenges to America’s national identity, Simon&Schuster, New York 2004.