Reagire alla sfida cinese. Rischi di declino e prospettive di rilancio della manifattura italiana

Di Stefano Chiarlone Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

L’integrazione economica della Cina è destinata a modificare in maniera strutturale i vantaggi competitivi delle nazioni, inclusa l’Italia. Essa acquisisce, inoltre, particolare pericolosità per l’Italia perché si completa in una fase nella quale la nostra economia tende verso un eventuale declino. Lo scenario recente della macroeconomia italiana è stato particolarmente negativo, nonostante una forte ripresa del commercio mondiale, prevalentemente a causa della debolezza degli investimenti e di una performance delle esportazioni altamente insoddisfacente, solo in parte per l’apprezzamento dell’euro.

L’integrazione economica della Cina è destinata a modificare in maniera strutturale i vantaggi competitivi delle nazioni, inclusa l’Italia. Essa acquisisce, inoltre, particolare pericolosità per l’Italia perché si completa in una fase nella quale la nostra economia tende verso un eventuale declino.

Lo scenario recente della macroeconomia italiana è stato particolarmente negativo, nonostante una forte ripresa del commercio mondiale, prevalentemente a causa della debolezza degli investimenti e di una performance delle esportazioni altamente insoddisfacente, solo in parte per l’apprezzamento dell’euro. Non sono difficoltà congiunturali: la Banca d’Italia1 ha notato che la quota a prezzi costanti delle esportazioni italiane sul totale mondiale è calata dal 4,5% del 1995 al 3% del 2003. La riduzione della quota non è preoccupante in sé, poiché l’integrazione di nuove economie tende a ridurre le quote degli altri paesi, ma altri indicatori suggeriscono che nel caso italiano essa indica un problema di competitività. Le esportazioni manifatturiere non hanno ancora recuperato il valore nominale raggiunto nel 2000. Inoltre, il rapporto fra il saldo con l’estero e la somma di importazioni ed esportazioni del settore manifatturiero, un tipico indicatore di competitività, si è più che dimezzato nel 2004 (7,5%) rispetto al picco del 1996 (16,4%). Si tratta del valore più basso sin dalla svalutazione del 2002. Infine, la produzione industriale è in stallo da più di tre anni e la redditività operativa delle imprese manifatturiere è in riduzione. Il rapporto fra il margine operativo lordo e il valore della produzione del 2002-2003 (9,8%) è inferiore sia alla media calcolata a partire dal 1990 (11,7%), sia ai valori registrati nel rallentamento del 1996 (11,2%) e nella recessione del 1992-1993 (11%). In altre parole, la gestione industriale delle imprese determina ricavi netti più contenuti per ogni euro di produzione e quindi, coeteribus paribus, profitti più bassi. A completare lo scenario negativo, la crescita annua del PIL potenziale italiano è scesa all’1,6% dal 1991 al 2003 (rispetto al 2,4% degli anni Ottanta), ben inferiore al 2,1% stimato dalla Commissione europea2 per l’insieme dei paesi dell’area euro, che a sua volta è minore dell’attuale tasso di crescita potenziale degli Stati Uniti stimato intorno al 3,5% annuo.

All’integrazione cinese non possono essere attribuite tutte le difficoltà della manifattura italiana che affondano le loro radici nelle scelte di politica economica e industriale dell’ultimo trentennio. Essa, tuttavia, concorre a rendere più probabile che questi problemi si traducano in un declino industriale, proprio perché le sue produzioni sono spesso in diretta concorrenza con quelle italiane, che non possono competere sul terreno dei costi. La Cina ha vantaggi comparati nella produzione di calzature, arredamento e idraulica, tessile e abbigliamento. Sono settori chiave per l’Italia, nei quali la concorrenza è spesso basata sui prezzi, con poche eccezioni di nicchia nel campo del lusso e dell’alta qualità. Accanto ad essi, l’Italia eccelle nella metalmeccanica e nei beni strumentali e ha una presenza di nicchia in settori science-based (robotica, radar, diagnostici-elettromedicali, getters, semiconduttori) e a forti economie di scala (elettrodomestici bianchi, materiali edilizi, siderurgia), mentre è debole negli altri settori a più elevato contenuto tecnologico.3 La Cina, invece, si sta rafforzando in settori avanzati, fra cui quelli dell’Information and communication technology,4 gli elettrodomestici e il settore radiotelevisivo anche grazie all’apprendimento innescato dagli investimenti diretti dall’estero. Affinché la similitudine fra le produzioni cinesi e italiane costituisca una effettiva minaccia competitiva occorre che Cina e Italia esportino prodotti di medesima qualità sugli stessi mercati.

Nonostante la sovrapposizione fra le esportazioni cinesi e italiane sia cresciuta dal 18% del 1991 al 40,7% del 2002, il vantaggio qualitativo dei prodotti italiani è in grado, in molti casi, di ridurre la pressione concorrenziale effettiva.5 Un paragone con Francia e Spagna mostra che, sebbene maggiormente esposti alla concorrenza cinese per caratteristiche settoriali, i produttori italiani sono stati più abili a utilizzare l’innovazione qualitativa per differenziare i loro prodotti e garantirsi protezione dalla concorrenza di prezzo. Tuttavia, la pressione cinese, depurata dal vantaggio qualitativo, è aumentata dal 3,5% del 1991 all’8,2% del 2002, e inizia a influenzare la profittabilità dei produttori di gamma media. In altre parole, si può rispondere alla concorrenza cinese innalzando la qualità dei prodotti, ma non si possono mantenere a lungo le quote di mercato nei comparti a minore valore aggiunto. In questo senso è preoccupante che vi siano per ora pochi segnali di una radicale trasformazione del modello di specializzazione italiano. La concorrenza cinese tocca soprattutto i settori tradizionali. Nel sistema persona emerge chiaramente l’impatto della differenziazione qualitativa. Essa riduce gli indici di sovrapposizione dall’85,2% al 4,8% nelle calzature e dal 58,8% al 4,1% nel tessile e abbigliamento. Fra gli altri settori di forza italiani, per i manufatti non metallici che includono la ceramica, e per elettrodomestici, arredamento e idraulica, la pressione concorrenziale effettiva è nettamente superiore, situandosi fra l’11% e il 12%. Ciò dipende proprio dal minore impatto protettivo della qualità, ovvero dal minore impatto delle strategie di marchio e della moda.

Una lettura dell’integrazione cinese centrata solo sulla minaccia competitiva è miope. Fra il 1992 e il 2003 i consumi procapite cinesi sono aumentati da 214 a 506 dollari (a prezzi 1995) sia per la crescita economica, sia per la migrazione dalla campagna alle città, la cui popolazione è passata dal 29% al 39% del totale, che ha modificato le necessità di spesa. L’aumento del reddito ha contribuito a creare un mercato potenziale molto interessante e stime recenti suggeriscono che poco meno del 4% delle famiglie ha un reddito corrispondente a 20.000 dollari statunitensi in parità di potere d’acquisto, cioè un elevato potere d’acquisto.6 Inoltre, l’aumento degli investimenti diretti esteri, superiori a 53 miliardi di dollari nel 2003, indica le potenzialità per i beni intermedi e di investimento, fra cui i macchinari. L’aumento degli investimenti superiore al 25% annuo nel 2003 e nel 2004 e a due cifre dall’inizio del nuovo millennio, dipende da più motivazioni e in parte da una politica fiscale volta ad aumentare la dotazione infrastrutturale, per esempio investendo sui collegamenti ferroviari. Inoltre, l’eccesso di investimenti in altri settori ha creato tensioni sulla disponibilità e sul costo dell’energia, oltre a gravi problemi di inquinamento, anche perché molte industrie utilizzano tecnologie e materiali obsoleti. Sono evidenti le opportunità di mercato che emergono nell’ingegneria civile e industriale, nell’impiantistica e nelle tecnologie ambientali.

L’Italia ha sfruttato poco, finora, queste opportunità.7 Nel 2003, la quota italiana sulle importazioni cinesi era l’1,2%, minore del 5,9% tedesco e dell’8,2% americano, e in linea solo con l’1,5% francese. Sebbene le importazioni manifatturiere cinesi siano cresciute del 412% fra 1992 e 2003, quelle dall’Italia lo hanno fatto solo del 208%. Pesa il fatto che una quota rilevante delle importazioni dall’Italia è polarizzato su prodotti tradizionali. Le importazioni cinesi in questi settori sono cresciute appena del 118,7%. Nella fase iniziale del suo sviluppo, la Cina non è un forte consumatore di beni di lusso, nei quali l’Italia è avvantaggiata, e le imprese italiane non possono competere in Cina sui prodotti di bassa e media gamma. È ancora più preoccupante che la domanda di macchine strumentali (241,9%) sia cresciuta meno di quanto abbiano fatto altri settori, fra cui le apparecchiature elettriche ed elettroniche (544%). A queste difficoltà si aggiunge il rischio che i limitati investimenti diretti italiani in Cina, nettamente inferiori a quelli degli altri paesi europei, riducano le possibilità di beneficiare dell’aumento futuro della domanda cinese che deriverà dalla crescita economica e dalle liberalizzazioni imposte dall’adesione al WTO. Infatti, da un lato, una quota elevata delle importazioni cinesi è assorbita da imprese a capitale estero che operano come base di assemblaggio di componenti importati dal paese di provenienza. Dall’altro, la presenza in loco permette un miglior presidio della rete distributiva, con impatti positivi sulla comprensione dei mercati e sulle vendite, e una maggiore possibilità di controllare imitatori e concorrenti.

Le difficoltà macroeconomiche e l’impatto dell’integrazione cinese hanno rinnovato le preoccupazioni sulla specializzazione italiana. Gli altri paesi avanzati sono specializzati in produzioni intensive in alta tecnologia e conoscenza8 e caratterizzate da una più elevata crescita della domanda, come l’auto, l’elettronica, la chimica, l’ICT e l’aereospazio. Sono settori dominati da grandi imprese capaci di sfruttare le economie di scala, di investire consistentemente in ricerca di base e applicata, e che possono imporre prezzi ben più elevati dei costi marginali di produzione. Si tratta inoltre di settori meno soggetti alla concorrenza dei paesi emergenti e all’imitazione. Salvo le nicchie del lusso, invece, i settori tradizionali si confrontano con un mercato di sostituzione che sconta forti tensioni al ribasso sui prezzi, come anche la lavorazione di metalli e la produzione di elettrodomestici. Per le macchine strumentali invece la necessità di adattare i prodotti alle esigenze dei clienti riduce le dinamiche al ribasso dei prezzi. I numeri sono impietosi. Fra il 1991 e il 2001, la specializzazione manifatturiera italiana è correlata negativamente sia con la graduatoria dei settori caratterizzati da importazioni OCSE dinamiche (-22,5%), indicando che la quota di mercato italiana si riduce anche perché nel mondo si vendono prodotti che l’Italia non esporta, sia con quella dei settori a più alta redditività (-35,2%), calcolata utilizzando il margine operativo lordo. Solo la Grecia (-25%) si posiziona su comparti a domanda più statica tra i paesi europei e dell’America settentrionale. Migliori i dati che riguardano Francia (-18,7%) e Germania (-6,5%), ma soprattutto Giappone (+16,8%), Stati Uniti (+32,6%), e Gran Bretagna (+7,6%). Inoltre, la correlazione fra specializzazione e redditività settoriale è positiva per altri paesi come Francia (+19,8%), Germania (+25,8%), Regno Unito (+23,6%) e Stati Uniti (+22,0%).

Le difficoltà sono accentuate dalla globalizzazione dei mercati di sbocco e di produzione, poiché le imprese manifatturiere fronteggiano la concorrenza internazionale sia sui mercati esteri, sia su quello interno. Per l’Italia, fra 1991 e 2003, il peso delle esportazioni sul fatturato è passato dal 22,5% al 33,5%, mentre la penetrazione interna delle importazioni è salita dal 21,3% al 30,2%. Queste pressioni possono esercitare un effetto di stimolo e spingere le imprese alla ricerca di maggiore produttività. Infatti, una recente lettura dell’economia italiana9 suggerisce che è stata la pressione competitiva a determinare il miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, mentre la sua scomparsa ne ha innescato l’esaurimento. Tuttavia, valgono alcuni caveat. In primo luogo, l’aumento della concorrenza non ha toccato molti settori terziari a monte e a valle, come i servizi di pubblica utilità e quelli professionali, dove è mancata una opportuna liberalizzazione. Il minor livello di concorrenza ha avuto sulle aziende esposte alla competizione internazionale un impatto negativo,10 che è stato particolarmente pesante per quelle che fanno del servizio alla clientela uno dei punti strategici principali. Inoltre, esso è più oneroso per le imprese per le quali il prezzo di vendita è la principale variabile di competizione, ovvero quelle posizionate sulla media e bassa qualità ed esposte alla concorrenza dei paesi emergenti. In secondo luogo, anche liberalizzando questi servizi, la pressione della competizione è favorevole per le imprese dotate di vantaggi competitivi che possono crescere in un mercato più ampio, ma è insostenibile se si opera su linee di prodotto in cui i vantaggi si sono esauriti. Questo è, probabilmente, il caso di alcune imprese nei settori più maturi e nei comparti di bassa e media qualità, per le quali l’ingresso dei paesi emergenti ha eroso i vantaggi competitivi, gli spazi di mercato e i margini di redditività.

Non è possibile né auspicabile rincorrere la Cina, né i paesi emergenti che la seguiranno, in una gara al ribasso per cui occorre capire come l’Italia può muoversi verso una specializzazione più adeguata. Secondo molti, la strategia migliore per rispondere a queste difficoltà e sopravvivere all’integrazione cinese, anche sfruttandone le potenzialità, è spostare la struttura produttiva verso maggiore qualità e valore aggiunto nei settori tradizionali del «Made in Italy». Occorre perseguire un’innovazione sistematica e continua, di prodotto e di modello di business per proteggersi dalla riduzione tendenziale dei prezzi e dei margini di profitto. Tuttavia, sembra inevitabile che nei settori tradizionali le imprese dei paesi emergenti siano vincenti nella bassa, e spesso nella media, gamma. Allo stesso modo sembra evidente che le opportunità sui nuovi mercati saranno soprattutto per le imprese che producono beni di alta qualità, unica ragione che può spingere i consumatori a sostenere i costi dei prodotti italiani. Ciò implica due corollari. Il primo è la necessità di un’espansione internazionale commerciale sempre più stabile e profonda, dotandosi di adeguate reti distributive internazionali, e di focalizzarsi solo sulle attività nelle quali si è competitivi. Il secondo è una costante riduzione dei costi, a livello qualitativo pari o superiore, attraverso una maggiore produttività, l’innovazione di processo, l’avanzamento tecnologico e adeguate strategie di delocalizzazione e approvvigionamento internazionale.

Ma non sembra una strategia che può consentire di salvaguardare la struttura produttiva del paese senza costi economici e occupazionali. In primo luogo, le imprese italiane hanno già reagito alla pressione competitiva aumentando la qualità delle esportazioni. Questa scelta emerge dall’aumento dei valori medi unitari delle esportazioni di prodotti tradizionali registrato mensilmente dall’ISTAT e dai numeri relativi alla pressione concorrenziale cinese. Il calo del valore delle esportazioni e dei saldi di bilancia commerciale mostra che questa strategia ha dei costi in termini di minori quantità esportate. Inoltre, perseguire una innovazione continua e una internazionalizzazione stabile richiede strutture organizzative complesse, spesso di difficile realizzazione per le piccole imprese, che costituiscono il grosso dell’industria italiana. La crescente assenza di grandi imprese limita la possibilità di perseguire questa strategia, oltre che quella di cercare diversificazioni correlate in settori a più alto contenuto di conoscenza e tecnologia. Non va trascurato che esistono anche vincoli dal lato dell’offerta e della domanda. Non tutte le imprese sono in grado di migliorare la qualità e il contenuto di innovazione o aumentare nettamente la produttività. Per esempio, recenti ricerche11 suggeriscono che le piccole imprese italiane spesso non sono neppure in grado di adottare con prontezza l’ICT. Inoltre, il valore marginale che i consumatori danno a ogni unità di innovazione incrementale di cui viene dotato un prodotto esistente e il sovrapprezzo che essi sono disposti a pagare è inevitabilmente decrescente. In altre parole, il mercato dei beni di qualità elevata è più piccolo e, sebbene garantisca margini più elevati a chi riesce a servirlo, non sembra possa garantire la sopravvivenza di tutte le imprese sottoposte alla concorrenza dei paesi emergenti.

Queste considerazioni fanno dubitare del futuro di un modello di sviluppo centrato solo sull’innovazione finalizzata a un continuo miglioramento qualitativo dei prodotti, in settori con elevati livelli d’imitazione, non solo per l’integrazione della Cina. La criticità di questa specializzazione risulta ancora più grave se si considera che il forte aumento della produttività e dei consumi che ha caratterizzato l’ultimo ventennio deriva dall’importanza dell’economia della conoscenza. Le scelte di allocazione dei consumatori, in altre parole, si stanno muovendo verso nuove tipologie di prodotti. Ciò sottolinea l’importanza di agevolare la nascita di nuove vocazioni manifatturiere e terziarie in settori ad alta intensità di conoscenza, notoriamente caratterizzati da costi d’accesso elevati e lunghe curve di apprendimento. Allo stesso tempo, occorre favorire lo sfruttamento di opportunità di crescita internazionale anche in settori a più elevato contenuto scientifico e di ingegneria applicata, come quelli collegati all’impiantistica e alle infrastrutture.

Le prospettive di una transizione rapida e indolore in questa direzione sembrano critiche. La limitata attività di ricerca e sviluppo, e in particolare quella del settore privato (0,57% del PIL mentre la media europea è circa l’1,3%), ha limitato, finora, la riconversione in questa direzione. È significativo anche il ritardo italiano nella classifica dei laureati in materie scientifiche e di ingegneria: appena il 6,1% della popolazione nella classe di età fra i 20 e i 29 anni, contro un valore di 12,4% per l’Europa a 15.12 Una tipica spiegazione per questo ritardo è che i settori tradizionali sono contraddistinti da un limitato peso della ricerca scientifica e da innovazioni informali che spesso non sono rilevate dalle statistiche. Infatti, l’Italia è prima in Europa nella creazione di nuovi prodotti, che rappresentano oltre il 13,5% del fatturato, contro il 6,5% della media dell’Unione europea.13 Questo peso è superiore al 25% per i settori tessile, abbigliamento, pelli e calzature. Una recente ricerca,14 tuttavia, mostra che l’Italia non investe poco in ricerca e sviluppo solo per la sua connotazione settoriale. Infatti, applicando all’Italia la specializzazione di altri paesi, la percentuale di ricerca e sviluppo continuerebbe a rimanere inferiore.

Una spiegazione alternativa è che la ridotta dimensione delle imprese italiane riduce la loro attività di ricerca e sviluppo formale e anche la domanda di mercato per i laureati scientifici. I dati dell’ISTAT mostrano che la percentuale di imprese innovatrici aumenta al crescere delle loro dimensioni. Per esempio, per quelle con un numero di addetti fra 10 e 19 il 70% degli investimenti è in macchinari e solo il 12% in ricerca e sviluppo interna, mentre per quelle con più di 250 addetti i valori sono, rispettivamente, il 50,2% e il 29,2%. Le due spiegazioni sono complementari, poiché la questione dimensionale ha influito sulla specializzazione italiana. Un saggio recente15 rileva che il modello italiano è in buona parte un riflesso del «nanismo» delle imprese che ha impedito il passaggio verso produzioni più complesse. Non va dimenticato che la limitata dimensione influisce negativamente anche sull’internazionalizzazione stabile, spesso indispensabile per modelli di business e catene di produzione e approvvigionamento innovativi. Un tessuto di piccole imprese opera meglio in presenza di imprese più grandi che agiscano come committente, diffusore di conoscenze e tecnologie, portatore di scala e che costituiscono la controparte ideale per la collaborazione con i laboratori di ricerca. D’altro canto, non è infrequente che le nuove imprese tecnologiche, per esempio, nascano come spin-off di multinazionali o da professionisti e ricercatori fuoriusciti dalle grandi imprese o dalle università. Infine, la scarsità di multinazionali italiane preclude l’effetto volano che deriva dal fatto che le filiali estere tendono a rifornirsi dai sub-fornitori localizzati negli indotti di provenienza e ad aiutarli nel loro percorso di internazionalizzazione.

In conclusione, per il rilancio dell’economia italiana non occorre una strategia miracolistica, la cosiddetta scossa, perché essa soffre di problemi competitivi e non congiunturali. L’obiettivo primario dell’operatore pubblico dovrebbe essere, piuttosto, favorire la crescita delle imprese, ridurre le distorsioni e agevolare la concentrazione delle risorse negli spazi dove la struttura dei costi e le dotazioni consentono un’adeguata competitività.

Sembra opportuna una liberalizzazione dei servizi di pubblica utilità, mantenendo in mano pubblica solo la proprietà delle reti, e delle professioni liberali, intervenendo drasticamente sugli albi che sono un fardello pesante per il paese, oltre a limitare le opportunità di lavoro di molti capaci e meritevoli giovani potenziali professionisti. L’obiettivo è quello di ridurre l’onere improprio che si scarica sulle imprese che operano sui mercati internazionali. Non di minore importanza sarebbe una politica fiscale che incentivi le operazioni di fusione e acquisizione di piccole e medie imprese dello stesso settore, se volte ad acquisire una dimensione adeguata all’internazionalizzazione stabile e agli investimenti in innovazione, e che rinnovi gli incentivi all’utilizzo di capitale di rischio già sperimentati nella scorsa legislatura. A queste condizioni, anche l’auspicio di accentuare l’investimento in internazionalizzazione e in ricerca e sviluppo sarebbe meno retorico. Queste regole andrebbero, inoltre, disegnate in modo da stimolare migliori pratiche di corporate governance e per costituire una risposta al problema del passaggio generazionale delle imprese familiari.

L’operatore pubblico dovrebbe incentivare e contribuire finanziariamente all’upgrading qualitativo e tecnologico nei settori in cui il paese è presente e per le imprese che hanno capacità di co-finanziamento, poiché questa attività presenta un effetto benefico di esternalità per il sistema. Non vanno trascurate le operazioni di spinta e supporto dell’internazionalizzazione stabile di settori tradizionali e non, soprattutto commerciale, perché la motivazione dell’intervento pubblico non deve essere la ricerca di manodopera a basso costo in comparti in cui non si è più capaci di rimanere altrimenti sul mercato, ma l’estensione delle capacità di vendita estera delle imprese del paese. Contestualmente, dato che è improbabile la sopravvivenza sul territorio di molte produzioni di bassa qualità, le risorse pubbliche andrebbero investite in un sistema di welfare e di formazione adeguato a ridurre i costi sociali della loro chiusura, piuttosto che per incentivare la sopravvivenza di imprese dal destino segnato. Per molte di loro, invece, opportune delocalizzazioni delle fasi di produzione più standardizzate consentirebbero di conservare, perlomeno, la proprietà italiana e di mantenere sul territorio le professionalità più avanzate. Per favorire la nascita di nuove imprese manifatturiere e terziarie a elevata intensità di conoscenza, anche come spin-off dell’attività di ricerca, si potrebbe incentivare fiscalmente, anche con valenza retroattiva come avviene altrove, e affiancare economicamente le più promettenti start-up innovative, in settori ad alta intensità di cultura e conoscenza e radicate nei territori. A questo fine vanno sfruttate le capacità di segnalazione e selezione degli intermediari finanziari specializzati, anche affiancandoli nelle prime fasi del progetto. Infatti, proprio nelle prime fasi, l’esistenza di fallimenti di mercato e le limitate dimensioni degli investimenti tendono a limitare la loro necessaria partecipazione.

Ovviamente, per il successo di questa strategia è cruciale una riforma del sistema universitario e della ricerca che spinga verso la valorizzazione, anche economica, del merito dei ricercatori, non solo nei settori scientifici, e favorisca la loro imprenditorialità. Si tratta di una condizione indispensabile perché l’Italia torni ad attrarre i cervelli dai quali possono nascere idee che generano opportunità di business.

Queste misure non possono avere contraccolpi immediati e, d’altro canto, una politica industriale non può sciogliere nel breve periodo nodi di lunga data. Inoltre, non sembra che vi siano le possibilità per un intervento di stimolo della domanda o di riduzione fiscale di adeguata incisività. Tuttavia, esse dovrebbero avere un importante effetto dinamico di creazione di fiducia per gli imprenditori e di riallocazione delle risorse. Esso potrebbe rilanciare l’accumulazione produttiva e stimolare un’azione imprenditoriale che progressivamente riporteranno lungo un sentiero di crescita, sostenibile e sostenuta, l’Italia e agevoleranno la modernizzazione e l’adeguamento della sua industria ai vantaggi comparati nazionali.

 

 

Bibliografia

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5 Amighini e S. Chiarlone, Rischi e opportunità dell’integrazione commerciale cinese per il modello di specializzazione internazionale dell’Italia, LIUC Paper 151, 2004.

6 J.R. Woetzel, A guide to doing business in China, in «Mckinsey Quarterly», Special Edition: What global executives think, 2004.

7 Amighini e Chiarlone, Opportunità e rischi dell’integrazione commerciale cinese per il sistema manifatturiero italiano, in Rapporto ICE 2003-04, L’Italia nell’economia internazionale.

8 Chiarlone, Criticità e prospettive della specializzazione internazionale dell’Italia, Scenari Economici, III, 2003.

9 G. Nardozzi, Miracolo e declino. Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, Roma-Bari 2004.

10 G. Tesauro, Presentazione, in «Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato», Relazione Annuale 2002, Roma, 11 giugno 2003.

11 S. Rossi, Economia Italiana. Perchè la deriva non si muti in declino, in «Il Mulino», 4/2004.

12 Commissione europea, European Innovation Scoreboard 2004, Bruxelles, Novembre 2004.

13 Centro Studi Confindustria, La Ricerca e l’Innovazione in Italia, Roma, Ottobre 2003.

14 G. Foresti, Specializzazione produttiva e struttura dimensionale delle imprese: come spiegare la limitata attività di ricerca dell’industria italiana, in «Rivista di Politica Economica» (in corso di pubblicazione).

15 S. Trento, Stagnazione e frammentazione produttiva, in «Il Mulino», 6/2003.