Sul terrorismo

Di Alfredo Reichlin Giovedì 01 Settembre 2005 02:00 Stampa

La questione che vorrei porre riguarda come la sinistra si pone di fronte a quel fenomeno terribile e indecifrabile che è il terrorismo. Siamo sicuri di averne preso le esatte misure? Parto da qui non solo perché la vita quotidiana della gente comune è già cambiata e il suo immaginario è sempre più dominato dalla insicurezza e dalla paura del futuro, ma perché c’è una nuova destra che si sta formando anche in Italia. Una destra che sta facendo leva sulle nuove domande che la gente si pone e sul fatto che la sinistra sembra non rendersi conto del bisogno di valori che finalmente ritorna dopo anni di esaltazione del darwinismo sociale e dell’onnipotenza solitaria dell’individuo.

 

La questione che vorrei porre riguarda come la sinistra si pone di fronte a quel fenomeno terribile e indecifrabile che è il terrorismo. Siamo sicuri di averne preso le esatte misure? Parto da qui non solo perché la vita quotidiana della gente comune è già cambiata e il suo immaginario è sempre più dominato dalla insicurezza e dalla paura del futuro, ma perché c’è una nuova destra che si sta formando anche in Italia. Una destra che sta facendo leva sulle nuove domande che la gente si pone e sul fatto che la sinistra sembra non rendersi conto del bisogno di valori che finalmente ritorna dopo anni di esaltazione del darwinismo sociale e dell’onnipotenza solitaria dell’individuo.

Stiamo sottovalutando l’importanza di questa sfida culturale, la quale si intreccia con quella della Chiesa. Stiamo attenti, perché «dopo Berlusconi» può non esserci solo il pericolo di non so quale neo-centrismo. Possiamo trovarci di fronte a una nuova destra molto pericolosa, che si sfida – ripeto – anche sul terreno ideale, del «dove va il mondo», un terreno che la sinistra dovrebbe cominciare a frequentare.

Certo, l’errore più grave sarebbe quello di mostrarci tolleranti o addirittura inermi di fronte a questa inaudita barbarie. Ed è chiaro che abbiamo il dovere di mettere in atto contro il terrorismo tutte le misure di sicurezza che sono necessarie. Ma il punto su cui vorrei che riflettessimo meglio non è tanto quello del loro costo in termini di restrizioni degli spazi di libertà e di democrazia, quanto se la guerra al terrorismo, così come è stata impostata dalla potenza egemone, non ci stia cacciando in un vicolo cieco.

Il problema che voglio sollevare è se dietro il disastro dell’Iraq (che, certamente, ha finito con alimentare il terrorismo invece di spegnerlo) non ci sono solo gli errori e gli inganni di quella spedizione, ma una incomprensione più di fondo della nuova struttura del modo. Così a me sembra, anche se so bene che il tema è molto complesso e un’analisi veramente convincente del mondo come si sta sviluppando con la globalizzazione non è ancora stata fatta. Tuttavia ciò che appare ormai abbastanza evidente è che l’eccessiva fiducia nelle cosiddette forze di mercato (che poi, di fatto, consistono nel grande gioco della finanza internazionale pilotato dal «signoraggio» del dollaro) come sola guida dello sviluppo ha portato con sé, insieme a fenomeni grandiosi quali il decollo di paesi come l’India e la Cina, problemi altrettanto grandi. Problemi (questa è la novità) i quali – in assenza di cambiamenti profondi di guida – cominciano ad assumere il volto angoscioso di eventi non più governabili; disastri ecologici e ambientali, rottura dei vecchi equilibri tra culture e religioni, oppure la creazione di mostruose baraccopoli in conseguenza della distruzione delle agricolture di sussistenza.

Si può discutere se il bilancio economico di questa forma della globalizzazione, dopotutto, non è solo negativo. Ma se guardiamo agli effetti sociali risulta chiaro che non può reggere (pena fenomeni nuovi di disgregazione e di imbarbarimento) quella potente ideologia che non solo distrugge il legame sociale e proclama l’individuo come unico soggetto storico, ma fa del mercato il decisore pressoché assoluto del destino di ogni essere vivente, ricco o povero, bianco o nero. 

Il risultato, come sostengono Beck e Bauman, è che il mondo è a «rischio». Ma il rischio maggiore che io vedo è che il mondo stia entrando in una lunga fase di anarchia. E ciò per una ragione altamente politica, che è davvero di portata storica: perché per la prima volta la struttura politica del mondo è priva di un ordine, di un asse di governo, di una guida. Questo è il problema cruciale del nostro tempo, un grandissimo problema che non nasce – come dice il senatore Pera – dalla «crisi dei valori», ma dall’esaurirsi, con la mondializzazione, di quel lungo ciclo storico iniziato in Europa qualche secolo fa, dopo le guerre di religione. Ecco perché quando esaltiamo la «civiltà occidentale» dovremmo anche renderci conto del fatto che è entrata in crisi quella straordinaria conquista della civiltà occidentale che è stata la nascita degli Stati sovrani, il cui principio d’ordine era il rispetto della sovranità e la creazione del cittadino libero in quanto sottoposto solo alla legge del suo Stato. Insomma, la scoperta dei diritti come conquista storica e non solo dei valori assoluti contrapposti tra loro. Se al tramonto di questa idea della statualità e della sovranità si aggiunge l’entrata in campo di potentati e soggetti (dalle multinazionali, alle reti del crimine, al controllo della scienza) che non hanno più nulla della statualità novecentesca, si dovrebbe cominciare a capire perché la strategia militare degli Stati Uniti contro il terrorismo non funziona.

La forza del terrorismo sta esattamente nel fatto che sono finite le guerre tra Stati (cioè tra entità la cui struttura e i cui codici sono paragonabili) e in conseguenza di ciò è emersa quella cosa inquietante e sconosciuta che è una guerra senza regole, senza confini e senza territori. Questa è la novità e non è piccola, perché ci pone di fronte alla possibile diffusione di un conflitto endemico che non ha più nulla di razionale e di politico. Intanto è evidente che ciò a cui siamo di fronte è qualcosa di totalmente diverso dal «partigiano» il quale uccide per la sua causa nazionale. Assistiamo piuttosto a una sorta di condizione esistenziale: a un odio mortale, a un rifiuto di tutto. Ecco perché mi sembra sbagliato lo schema americano e della destra mondiale (quella italiana compresa) che riduce tutto a uno scontro tra i valori dell’Occidente, che chiamano a una nuova crociata contro «i meticci», i barbari. Stiamo freschi. Oltretutto, non ci si rende conto delle nuove possibilità che la tecnoscienza offre anche ai «meticci», anche a pochi di essi, per gli effetti catastrofici, molto più grandi delle Torri di New York, che potrebbero avere una valigetta radioattiva, una epidemia di antrace, una intrusione distruttiva nelle reti informatiche.

Cosa pensa la sinistra? Qual è il suo ruolo? È solo quello di «moderare» la destra? Oppure si rende conto che, se è vero che certi fenomeni mostruosi come il terrorismo nascono da quello che ho chiamato il «disordine mondiale», il problema della sinistra, cioè del ritorno in campo di un pensiero razionale, non è un compito che possiamo delegare ai preti?

La mia preoccupazione è sempre quella: come uscire dalla difensiva e ritrovare le ragioni forti di una funzione essenziale di progresso della sinistra in un mondo come quello che qui è stato tratteggiato. La risposta io tenderei a trovarla non tanto nella ridefinizione a priori di una griglia di nuovi valori, quanto in uno sforzo di ridefinizione del terreno storico-politico e quindi dei conflitti, delle contraddizioni, dei rischi e dei dilemmi reali su cui le forze del progresso e quelle della conservazione si affrontano e concretamente si nominano (al di là delle parole). Forse non si è ragionato abbastanza intorno alla fondamentale discontinuità che caratterizza il nostro tempo rispetto a tutta la storia passata. La novità non sta solo nella potenza sconvolgente di una rivoluzione scientifica e tecnologica che ha rivoluzionato i processi produttivi. L’avvento di questa nuova forma del capitalismo si intreccia con l’altra grande novità storica, che vede l’emergere di una condizione nuova di interdipendenza che collega tutto il pianeta in un reticolo sempre più stretto di feedback e di interconnessioni. E insieme a questo e a fronte di questo, nel fatto che si manifesta una drammatica incapacità della politica a governare quella «unità del mondo» che è sempre più nella realtà delle cose.

Con in più il grande fatto che con la fine del mondo bipolare è saltato ogni punto di riferimento politico. In passato, ad ogni grande guerra o rivolgimento storico faceva seguito un ridisegno dell’ordine mondiale (Versailles, il congresso di Vienna). Dopo il crollo del Muro di Berlino un riequilibrio non c’è stato. L’America ha riempito la scena, e il resto è stato silenzio. L’Europa si è bloccata e tra i segni di debolezza c’è il modo con cui la sinistra continua a dividersi tra filo-americani e antiamericani. Né gli uni né gli altri sembrano consapevoli che il vero problema è l’impossibilità (incapacità) degli Stati Uniti di svolgere quel ruolo pacificatore ed egemone che nel passato svolsero i grandi imperi. Sbagliano gli anti-americani. È serio l’argomento di chi ci ricorda che nella storia c’è sempre stato un «egemone» (Venezia, l’Olanda, l’Inghilterra) senza il quale il mondo non si governa. Ma il quesito che bisognerebbe porsi, anche per capire se il futuro riserva o meno un ruolo e una funzione centrale alla sinistra, è questo: l’unilateralismo americano, l’idea di imporsi come qualcosa di più di un impero territoriale, come un modello (il «paese di Dio») anche con la forza, è realizzabile? Io non lo credo. E ciò sopratutto per la semplice ragione che non è un modello. Non è imitabile da nessuno. L’Inghilterra industriale lo era: anche il vecchio mondo agricolo poteva pensare che questo sarebbe stato il suo futuro («de te fabula narratur», scriveva Marx). Non lo è un meccanismo come quello finanziario di questi anni, ma soprattutto il modello di consumi americano che farebbe saltare tutti gli equilibri non solo economici, ma dell’ecosfera.

Eppure un ordine nuovo ci vuole. Pensiamo agli effetti catastrofici che può avere – se lasciato in queste condizioni – un mondo fatto di quasi duecento Stati, molti dei quali semi-feudali, altri nelle mani di avventurieri senza scrupoli, altri ancora privi di quel minimo di capacità di autogoverno che consente di non dipendere troppo dagli aiuti esterni. Non basta quindi dire ONU, non regge l’idea che per affrontare problemi come quelli di oggi è sufficiente che ciascuno di questi Stati eserciti la sua sovranità come crede. Le conseguenze possono essere enormi: balcanizzazione, genocidi di intere etnie, caos politico ed economico. Con in più il ruolo crescente di quei potentati sovranazionali (finanza, lobbies, reti della comunicazione, servizi segreti) che sfuggono a ogni controllo democratico e svuotano di significato i diritti dell’uomo comune, ovvero quella che è stata la più grande conquista (insieme alla tecnica) della civiltà occidentale; la sovranità, la separazione tra lo Stato e le regioni, i clan familiari, le tribù, e al loro posto la formazione del cittadino garantito nei suoi diritti dal potere del suo Stato.

Ecco allora ciò che si potrebbe dire. Il terrorismo ha molte cause, ma dopotutto la sua novità rispetto ai terrorismi passati non è solo il fondamentalismo islamico, ma l’aver trovato un nuovo brodo di cultura nel disordine mondiale. Insomma, il terrorismo come sottoprodotto di questa sorta di grande anarchia. Questa è la mia tesi. Ed è in fondo anche la tesi di Alain Tourain, secondo il quale il terrorismo islamico è l’ultima tappa del fallimento dei tentativi di creazione di nuovi Stati nel Medio Oriente. Fallimento del mondo arabo innanzitutto, di cui Nasser ha rappresentato la figura principale; fallimento delle repubbliche islamiche, che resistono solamente in Iran. E aggiunge Touraine: ciò che fa più paura del terrorismo è anche ciò che ne rivela maggiormente le debolezze. In realtà non parla in nome di nessuno; non si iscrive all’interno di nessuna strategia.

Io sono d’accordo, ma penso che questo fallimento non ci può consolare. Resta il fatto che non riusciamo a misuraci con le domande di un mondo che diventa sempre più popoloso rispetto alla «fortezza bianca», che inoltre è abitato da una popolazione molto più giovane della nostra la quale (ecco l’altra esplosiva novità) è andata a scuola, vede la TV, è informata. Possibile che vediamo così poco tante forze, persone, culture che esistono e sono in movimento dal Mediterraneo orientale al Mar della Cina? È giusto non guardare più a questo mondo con gli occhi del paternalismo (il «fardello dell’uomo bianco») e porre quindi il problema della universitalità dei diritti umani, a cominciare da quelli delle donne. Ma ciò che la cultura egemone dell’Occidente sta proponendo è un’altra cosa. È il suo peculiare modello politico incentrato sul binomio mercato-liberaldemocrazia. Con il paradosso che le conseguenze sono quelle che vediamo. Anche in Occidente si stanno restringendo gli spazi democratici.

Il problema che pongo non è quello delle (in parte inevitabili) misure repressive. Mi chiedo se la risposta vera a questo accumulo di odii e di violenze che sta mettendo il mondo davvero a rischio possa essere solo quella (senza dubbio necessaria) di intraprendere atti politici e culturali orientati al dialogo e al reciproco riconoscimento. Solo questo? Oppure, arrivati a questo punto dello sviluppo dell’uomo moderno, del suo ingresso nel flusso della conoscenza e quindi della mutazione in atto, della sua figura storica e antropologica, non bisogna cominciare a chiedersi perché la sinistra non sente la necessità di mettere in campo una idea meno formale e meno chiusa della democrazia? Questo, e non altro, è dopotutto il suo compito dopo il Novecento, cioè dopo il secolo dell’emancipazione del lavoro: operare per estendere il campo della libertà umana. Una libertà intesa sempre più come padronanza di sé e delle proprie capacità, come espressione, quindi, di quell’immenso potenziale di capacità, bisogni, idee, diritti, sogni che sta nel mondo: nel vecchio come nel nuovo mondo. Una democrazia, quindi, che avanza, si estende, esprime nuovi contenuti, che si dà nuove forme.

Credo che il richiamo al rispetto del valore universale dei diritti umani sia necessario. Ma la novità vera è che è finita l’epoca in cui questi diritti si incarnavano nel potere degli Stati sovrani. Anche l’uomo è un soggetto storico e lo è anche l’uomo occidentale. Anche noi siamo entrati nell’epoca che segna la fine dell’uomo giuridico a cui le leggi del suo paese concedono diritti, identità, protezione. E se di questo si tratta, cioè della fine dell’uomo protetto dai confini del suo Stato e delle leggi del suo territorio, allora diventa non una utopia, ma una necessità assillante la fondazione di una nuova democrazia post-nazionale e quindi l’affermazione di nuovi diritti e nuovi poteri. Il cittadino europeo. Questa è davvero una grande idea. Perciò la lotta al terrorismo riguarda la sinistra e solo lei può vincerla.

Ma quale sinistra? Una sinistra che ricominci a pensare una idea di progresso, di futuro, e quindi non solo di valori, ma anche di nuovi strumenti e nuove azioni capaci di garantire una convivenza umana. E ciò in un mondo in cui, data la potenza della scienza e dei mezzi distruttivi disponibili, si rivelano sempre più necessarie forme nuove di convivenza, di socialità, di integrazione politica e culturale a livello mondiale. Quindi niente affatto per ragioni ideologiche o per una qualche nostalgia di quel pensiero finalistico e deterministico che fu della sinistra storica. La ragione moderna, attuale, sta nel fatto – mi pare – che in questa terra che, osservata dai satelliti, ci appare così piccola e fragile, una specie, la nostra, è diventata tanto numerosa e tanto potente – a causa dell’accelerazione prodigiosa dei suoi mezzi produttivi e del ritmo demografico (e per di più la potenza produttiva concentrata nella parte più ricca del mondo, e quella demografica nella parte più povera) – da costituire una minaccia per la sopravvivenza della vita sul pianeta.

È questa, oggi, la via al progresso? A me pare di sì. Essa potrebbe esprimersi così. Se è vero che la potenza tecnologica ha tanto sopravanzato il nostro potere politico e il nostro modo di pensare; se è vero che prevedere gli effetti delle grandi scelte economiche e scientifiche (data la loro incisività sugli equilibri del sistema, data la loro lunga durata, date le interdipendenze che ne moltiplicano e ne complicano le retroazioni) diventa sempre più difficile; se è vero che ciò mette fuori gioco le vecchie idee di progresso lineare perché non possiamo più affidarci a percorsi prestabiliti e guardare al futuro con quelle certezze che furono il fondamento e la forza della sinistra; se è vero che lo sviluppo storico ha creato sempre più differenze e interdipendenze, complessità e incertezze, allora è altrettanto vero che, nell’incertezza delle previsioni, l’unica certezza diventa la volontà dell’uomo. Allora il bisogno di progetto che le forze dominanti si sono tanto affannate in questi anni a proclamare come inutile, fuori gioco, perché tanto a risolvere i problemi bastava il mercato, ridiventa invece in un mondo così incerto sempre più necessario. Un progetto che però non sia prevaricatore e livellatore, ma resti aperto alla libertà e alle differenze, tra le razze, i sessi, le persone. La libertà è ormai inseparabile dalla responsabilità e dall’avanzamento di una nuova coscienza, non soltanto di classe ma di sistema.