Perché all'Europa serve più giustizia sociale

Di Roger Liddle Lunedì 02 Gennaio 2006 02:00 Stampa

Dalla pubblicazione del Libro bianco di Delors sull’occupazione, l’Europa ha ripetutamente manifestato il bisogno di una «riforma economica». A questo ha fatto seguito l’avvio della Strategia europea per l’occupazione nella seconda metà del 1997, e infine l’approvazione della Strategia di Lisbona, a marzo del 2000, in cui si prometteva di «fare dell’Europa l’area economica basata sulla conoscenza più dinamica e socialmente più inclusiva del mondo entro il 2010». La maggior parte di queste iniziative ha conseguito unicamente un successo parziale. Nei paesi fondatori della Comunità europea l’impatto sulle performance economiche è stato percepito solo in minima parte.  

Dalla pubblicazione del Libro bianco di Delors sull’occupazione, l’Europa ha ripetutamente manifestato il bisogno di una «riforma economica». A questo ha fatto seguito l’avvio della Strategia europea per l’occupazione nella seconda metà del 1997, e infine l’approvazione della Strategia di Lisbona, a marzo del 2000, in cui si prometteva di «fare dell’Europa l’area economica basata sulla conoscenza più dinamica e socialmente più inclusiva del mondo entro il 2010».

La maggior parte di queste iniziative ha conseguito unicamente un successo parziale. Nei paesi fondatori della Comunità europea l’impatto sulle performance economiche è stato percepito solo in minima parte. Dalla metà degli anni Novanta, nonostante la media della produttività per un’ora di lavoro continui ad essere più alta in Francia e in Belgio che negli agli Stati Uniti, la crescita della produttività in Europa è stata minore di quella americana.1 Il tasso di occupazione complessivo dell’UE a quindici si è attestato intorno al 64,7% nel 2004, mentre l’Agenda di Lisbona prevede un aumento generale che permetta di raggiungere il 70% nel 2010.

Le riforme ci sono state, ma non sempre hanno seguito un orientamento coerente e i loro effetti sono poco visibili.2 Ciò può essere imputato in parte al periodo di incubazione di cui ogni riforma necessita, ma anche alla natura parziale della sfera di applicazione delle riforme. In Germania, ad esempio, le riforme del mercato del lavoro mirate alla creazione di nuova occupazione, non sono state accompagnate da un’adeguata deregolamentazione del mercato finanziario e di quello dei beni, che a sua volta avrebbe potuto stimolare la domanda di nuovi posti di lavoro.

La revisione di medio periodo degli obiettivi di Lisbona, elaborata nell’ottobre 2004 dal gruppo presieduto da Wim Kok, ha sottolineato l’assoluta necessità di definire in modo più chiaro e preciso le aree di intervento a cui dare la priorità. La revisione della Strategia di Lisbona, pubblicata dalla Commissione Barroso nel febbraio del 2005, ha poi dato la massima priorità alle politiche per la crescita e l’occupazione; non ha invece recepito l’altra importante raccomandazione del gruppo Kok per cui è necessario «elencare e denunciare» le mancanze degli Stati membri. Ciò ha evidenziato il vero punto debole della Strategia di Lisbona, ossia il fatto che la maggior parte delle riforme indicate dall’Unione europea può essere realizzata solo dagli Stati membri.

Il dibattito ha messo in luce alcune gravi lacune dell’Agenda di Lisbona. Da una parte, esiste un notevole consenso politico sugli obiettivi della riforma economica, dall’altra, ci si domanda fino a che punto una riforma strutturale si possa definire solo in termini di maggiore liberalizzazione e flessibilità e minor ruolo dello Stato. Quale dovrà essere il ruolo degli investimenti pubblici nell’ambito delle politiche per il miglioramento della competitività e in quello del finanziamento della riforma del welfare? Le nuove normative fiscali europee soffocheranno le riforme, o saranno strutturate in modo da favorirle? All’inizio l’Agenda di Lisbona è stata considerata come l’espressione di una sorta di consenso rispetto ad una «terza via», in quanto sottolineava che, oltre che nell’apertura dei mercati e nella flessibilità del mercato del lavoro, era importante investire nella conoscenza e nell’inclusione sociale. Purtroppo le promesse in essa contenute non sono state rispettate.

I primi segnali di allarme sono venuti con il «no» di Francia e Olanda al referendum sul trattato costituzionale. In entrambi i paesi è diffusa l’idea che la bocciatura referendaria riguardi non tanto le carenze del testo della costituzione, quanto il binomio Europa-Bruxelles, che gli elettori sentono sempre più estraneo.

In altre parole, la mancata approvazione del trattato costituzionale, dovuta al malcontento popolare rispetto alle politiche economiche e sociali adottate, è anche la conseguenza dell’incapacità dei leader politici europei di presentare ai loro elettori in modo convincente le loro argomentazioni in favore della riforma economica e sociale. L’Europa ha bisogno di un nuovo consenso riformista; non più solo di una nuova «chiave di lettura», ma di nuovi contenuti che, aggiungendosi alle riforme già in atto, diano vita anche ad una maggiore giustizia sociale.

 

L’attuale deficit di giustizia sociale in Europa

Nessuno dei modelli di welfare capitalism dell’Europa di oggi soddisfa i principi fondamentali di giustizia sociale che la maggior parte dei cittadini europei ritengono validi. In primo luogo, ci sono gravi problemi occupazionali in molti Stati membri. A ciò si aggiunge il fatto che siamo solo parzialmente al riparo dai rischi sociali. I sistemi di welfare continuano a offrire una certa tutela, con livelli variabili di generosità, nei confronti dei rischi tipici dell’industrializzazione del XIX secolo – disoccupazione, malattia, incidenti sul lavoro e povertà per i più anziani – ma si trovano anche a dover fare i conti con le sfide legate ai nuovi rischi sociali della vita moderna. In terzo luogo, il legame di solidarietà tra le generazioni si è frantumato. Gli anziani dell’Europa a quindici hanno vissuto piuttosto bene, il tasso di povertà fra i pensionati si è ridotto ed è ora circoscritto – se considerato un problema solo quando presente su larga scala – ai nuovi paesi membri. Negli anni Novanta la povertà fra i minori ha però assunto dimensioni notevoli in diversi paesi europei, mentre in altri sta gravando sui giovani la maggior parte del peso della disoccupazione. A ciò si aggiunge il fatto che è aumentato il divario fra insiders e outsiders nel mercato del lavoro europeo. I vecchi meccanismi del diritto del lavoro e delle relazioni industriali che avevano la funzione di garantire un trattamento equo sul posto di lavoro, non riescono più a proteggere i deboli nei confronti dei più forti. Inoltre, aumentano le differenze salariali, sia a causa dei cospicui premi percepiti da chi ricopre posizioni di vertice, sia per la sostanziale mancanza di domanda di lavoro per i ruoli di più basso profilo. Infine, bisogna considerare che, dopo anni di restrizioni alla spesa pubblica dovute ad una crescita lenta, la qualità dei servizi pubblici in molti paesi europei sta cominciando a degradarsi. Molti Stati membri hanno un patrimonio di infrastrutture di alta qualità realizzate in tempi economicamente più prosperi di quelli attuali, che però rischia di logorarsi sempre di più se la crescita rimane debole e i bilanci pubblici continuano a chiudere in disavanzo. La struttura della spesa pubblica in molti paesi membri rimane cristallizzata su schemi vecchi. Nonostante ciò, per molti politici europei il modello sociale rimane un’icona delle grandi conquiste dei partiti socialdemocratici e cristiano-democratici del secondo dopoguerra.

 

La dimensione della giustizia sociale nelle future sfide dell’Unione

Il documento della Commissione preparato per il vertice di Hampton Court dell’ottobre 2005 identificava nella globalizzazione e nella demografia le due minacce principali alla sopravvivenza dei «modelli sociali» europei. Le nuove sfide che il Modello sociale europeo deve affrontare hanno entrambe notevoli implicazioni per la giustizia sociale e impongono perciò interventi in suo favore.

L’interpretazione ottimistica secondo la quale la globalizzazione è portatrice di potenziali benefici per tutti non convince più. L’impatto congiunto del mercato unico, dell’allargamento dell’UE e della globalizzazione dovrebbe favorire l’incremento del potenziale di crescita dell’Europa, grazie alle forze di concorrenza economica e alla ricerca sfrenata di vantaggi comparati che questi fenomeni hanno liberato. Ma questi benefici vanno distribuiti su tutta la popolazione – in termini di prezzi al consumo più bassi e redditi più elevati – mentre i costi rimangono un problema specifico per i lavoratori che sono interessati dagli effetti della trasformazione industriale. La delocalizzazione, ad esempio, è un fenomeno nel complesso positivo per la competitività dell’Europa, poiché consente alle aziende europee di sfruttare costi più bassi di manodopera e serbatoi altrimenti inutilizzati di conoscenze specialistiche presenti dei nuovi paesi membri. In questo modo le aziende europee possono competere sul mercato globale e allo stesso tempo lasciare che il capitale rimanga in Europa e non venga invece investito all’estero. Ci sono però delle «vittime» sociali nell’Europa occidentale che pagano il prezzo della perdita di posti di lavoro a bassa specializzazione.

Lo stesso vale per la «minaccia» competitiva proveniente dall’Asia, ossia, sostanzialmente, dalla rinascita della Cina e dell’India. L’Europa nel suo complesso ha una posizione sui mercati internazionali – in quanto fornitore di merci e servizi di «alta gamma» – tale da poter trarre vantaggio dalla globalizzazione. Il fatto di rivolgersi alla fascia più alta del mercato avrà necessariamente un impatto forte sulla struttura occupazionale delle aziende che competono sui mercati internazionali. Allo stesso modo, l’esternalizzazione dei servizi per l’industria avrà un impatto sui ceti più alti e sui lavori tradizionalmente svolti dai ceti medi.

La percezione negativa della globalizzazione riflette quindi paure legittime. In questo quadro, la spinta dell’UE verso un mercato unico, un’unica valuta e verso l’allargamento, viene vista come un modo per potenziare le forze economiche di un liberismo di mercato senza freni. La riforma strutturale è vista come un strumento che accresce le disuguaglianze e accentua il senso di insicurezza.

I sistemi europei di welfare si occupano poco del lavoro a più bassa retribuzione che è tipico dell’economica dei servizi. Alle nuove politiche si richiede quindi di portare quel quid in più nei guadagni che spinga gli stipendi più bassi verso l’alto, fino a fargli raggiungere un livello superiore a quello di sussistenza, e che aumenti il potenziale produttivo dei lavoratori in modo che possano vedere aumentate le proprie retribuzioni. Questo comporta un concetto più ampio di responsabilità dello Stato, che deve promuovere l’occupabilità e non semplicemente dare posti di lavoro ai disoccupati.

Allo stesso tempo devono essere abbattute quelle barriere che impediscono all’Europa di raggiungere alti livelli di occupazione. Ad esempio, il concetto desueto di «equità salariale», che si traduce in alti salari nazionali minimi e in livelli nazionali uniformi di retribuzione nel settore pubblico, potrebbe non essere adeguato a quelle realtà in cui le differenze economiche regionali sono particolarmente accentuate. Inoltre, false nozioni di equità impongono alti costi di previdenza sociale sugli stipendi più bassi, nella convinzione che ogni cittadino dovrebbe dare un contributo proporzionato ai propri mezzi: ciò corrisponde in sostanza ad una tassa sugli stipendi più bassi. In Europa, quindi, i politici devono mirare a ottenere un nuovo consenso, fondato su un solido contenuto politico, circa il modo in cui è possibile aiutare al meglio i cittadini vittime del cambiamento economico ad adattarsi alle nuove occupazioni, in particolare eliminando le barriere che impediscono la creazione di nuova occupazione nel settore dei servizi.

 

Dov’è che i modelli sociali europei hanno funzionato e perché

Per crescita economica, livello di occupazione e per inclusione sociale, i paesi nordici membri dell’UE hanno registrato i migliori risultati nell’ultimo decennio. Tradizionalmente, gli esperti di politica sociale spiegano l’eccezionalità di questi paesi con il fatto che essi sono piccoli e vantano un alto grado di omogeneità sociale, per cui è stato possibile costruire un consenso sociale durevole basato sulla disponibilità dei cittadini a pagare tasse molto più alte della media europea. L’idea che i paesi nordici, sebbene modelli straordinari di successo, non possano essere imitati è un’idea sbagliata.

In primo luogo i loro governi hanno cercato di creare nuove fonti di vantaggio comparato. Non si tratta solo di investire nella ricerca e nello sviluppo; quello che conta sono la velocità di diffusione delle tecnologie e gli investimenti nel campo dell’istruzione. I paesi nordici non hanno semplicemente cercato di liberalizzare e deregolamentare i loro sistemi per poi fermarsi ad aspettarne i risultati: al contrario, hanno perseguito politiche attive per la creazione di nuovi vantaggi comparati. In secondo luogo, preso atto che i paesi piccoli devono obbligatoriamente rendersi concorrenziali se vogliono competere in un’economia aperta e sempre più globale, essi hanno dimostrato un grande impegno nella realizzazione di una maggiore flessibilizzazione del mercato interno. Queste riforme hanno interessato anche il mercato del lavoro e lo Stato sociale, all’interno del quale si è dato vita a forme più moderne di tutela sociale, destinate a proteggere i cittadini e non i posti di lavoro, o mirate a perseguire politiche attive per preparare i lavoratori ai cambiamenti del mercato del lavoro.

Il successo di questi paesi non deve però spingerci a perseguire una incondizionata deregolamentazione dei diritti dei lavoratori. Alcuni diritti individuali – ad esempio la lotta contro le discriminazioni o la promozione di lavori compatibili con gli impegni familiari – vanno rafforzati, mentre i diritti del lavoro che ritardano l’adeguamento economico, possono al contrario essere controproducenti per gli stessi lavoratori che ne sono titolari, in quanto lasciano credere alla gente che è possibile conservare le vecchie occupazioni, quando invece il punto centrale è come aiutare i lavoratori a prepararsi al nuovo.

L’esperienza dei paesi nordici indica che non c’è conflittualità tra competitività e modelli sociali europei di successo. Nulla suffraga l’opinione che per essere competitivi si debbano «ridurre le tasse e le spese». Con questo non si vuole dire che il modello nordico sia al sicuro dalle principali sfide del futuro. La sfida più seria che il loro sistema assistenziale affronterà sarà probabilmente il costo sempre più alto dei servizi pubblici legato alla concentrazione dell’occupazione nella pubblica amministrazione a bassa produttività. In assenza di iniziative adeguate, queste problematiche creeranno pressioni irrefrenabili sul carico fiscale e porteranno a livelli insostenibili di indebitamento.

 

Alcuni dei modelli sociali europei frenano il cambiamento

Un punto di forza tradizionale del Modello sociale europeo è stato la sua capacità ad aiutare i lavoratori ad accettare e ad adattarsi ai rapidi cambiamenti della propria situazione economica. Tuttavia, nonostante i vantaggi offerti dall’esistenza di una forte rete di sicurezza, il modello sociale potrebbe anche agire da freno del cambiamento invece di favorirlo. Leggi eccessivamente restrittive a tutela dell’occupazione non incoraggiano gli imprenditori ad assumere nuovi lavoratori o ad offrire loro contratti diversi da quelli standard.

Ancora più controversa è la questione dell’impatto dei modelli sociali sul piano dell’«efficienza». L’azione dei sindacati, potrebbe rendere il cambiamento più difficile per gli imprenditori. Quello che viene sostenuto spesso dai fautori del modello sociale tradizionale è che l’introduzione di norme comuni, lungi dal ridurre la competitività dell’Europa, dovrebbe essere considerata piuttosto come un fattore positivo. Questo è uno dei cavalli di battaglia di chi sosteneva che il resto dell’Europa avesse molto da imparare dal capitalismo partecipativo del «modello Renano». Tuttavia, questo modello si è dimostrato più efficace in condizioni economiche stabili; quando la concorrenza sul mercato dei prodotti è sottoposta a cambiamenti radicali e quando i requisiti per il successo competitivo si spostano dal miglioramento della qualità interna al lavoro alla ricerca di un più rapido sfruttamento delle scoperte innovative, allora le aziende possono avere bisogno di relazioni industriali più flessibili.

Il modello tedesco vanta ancora molti convinti sostenitori. Le grandi aziende tedesche sono state ristrutturate in modo efficace e hanno introdotto salari e condizioni più flessibili. Ma questo è avvenuto per ragioni di «forza maggiore», sotto la minaccia di una possibile rilocalizzazione all’estero, poiché sempre più numerose sono le aziende che rinunciano alla contrattazione collettiva di categoria preferendo invece accordi decentrati a livello di fabbrica. Per le piccole e medie imprese, la questione potrebbe essere diversa, ed esse potrebbero sentirsi eccessivamente vincolate dagli impegni legati all’assunzione del personale e alle limitazioni poste alla loro capacità di ristrutturare le sedi all’estero per reagire rapidamente a eventuali fluttuazioni della domanda. Se ciò risponde a verità, esso è però, allo stesso tempo, un motivo di seria preoccupazione, perché è in questo tipo di azienda che in futuro verrà creata la maggior parte dei posti di lavoro nel settore privato.

 

Il neoliberismo non è l’unica possibilità per l’Europa

Il Modello sociale europeo per tradizione era visto come un modello che imponeva regole, istituzioni e culture destinati a «modellare» le risposte del mercato, oltre che a tentare semplicemente di «correggere» i risultati del mercato socialmente indesiderati attraverso un forte welfare e misure ridistributive in favore dei ceti più poveri. Però le dinamiche che nel passato hanno cercato di modellare le risposte del mercato sono state spazzate via nella convinzione che nella situazione attuale esse rallentino la crescita. Il quesito al quale dobbiamo rispondere è quindi: è il modello neoliberale l’unica alternativa per l’Europa? Non mancano i nostalgici di una Unione europea di stampo keynesiano, che ricrei e restituisca il potere di intervento economico che gli Stati nazione sono stati in grado di esercitare dopoguerra. Altri vedono una potenziale alternativa nell’attività normativa dell’UE, che potrebbe così colmare le lacune lasciate dal crollo dei vecchi vincoli sul capitalismo. Tuttavia, le normative comunitarie rischiano di rallentare l’innovazione e di accentuare la frattura tra insiders e outsiders nel mercato del lavoro. La regolamentazione ha i suoi costi, non può fornire interventi sociali efficaci «a poco prezzo».

La vera alternativa al neoliberismo è un welfare State dello sviluppo e dell’empowerment: un modello di welfare che diventi proprio dell’UE. L’Europa ha bisogno di un «Lisbona plus», che sia in grado di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione e che allo stesso tempo sia aperto al mondo e in grado di investire nel futuro. L’Europa deve imparare dall’esempio dei paesi nordici e seguire l’esempio dei mercati più aperti. Una sterzata in direzione del protezionismo getterebbe l’Europa nell’isolamento rispetto ai mercati internazionali, in un momento in cui questi ultimi si rinnovano radicalmente per rispondere alla crescita dei sistemi produttivi asiatici. Questo avrebbe delle conseguenze disastrose a lungo termine sulla capacità dell’Europa di competere sui mercati globali, e quindi sui livelli di vita all’interno dell’Unione. Al contrario, l’UE dovrebbe dare maggiore impulso all’apertura dei mercati. La liberalizzazione dei mercati può contribuire a creare nuovi posti di lavoro, come insegnano i casi delle compagnie aeree a basso costo e della telefonia mobile. La Direttiva europea sui servizi nel mercato interno gioca un ruolo fondamentale per la creazione di nuovi posti di lavoro. Una normativa più severa sulla competitività che consenta agli operatori istituzionali di sopravvivere, offrirebbe nuove opportunità occupazionali alle piccole e medie imprese.

Ci sono legittimi timori che un’«economia d’impresa» rischi di creare maggiori disuguaglianze; ma la sfida principale rispetto alla questione della giustizia sociale riguarda però gli strumenti necessari per fare di un’economia europea più intraprendente una fonte di maggiori opportunità per tutti; in cui creare un’impresa, o ampliarla, venga considerata una strada percorribile anche da coloro che oggi non la considerano un’ipotesi percorribile.

Così come hanno fatto i paesi nordici, anche l’Europa nel suo complesso deve trovare le risorse per investire nell’economia della conoscenza. Il «deficit dell’economica della conoscenza» che l’Europa ha registrato in passato si sta ampliando (solo il Regno Unito ha risultati di poco superiori alla media europea): non solo siamo indietro rispetto agli Stati Uniti, ma la Cina e l’India si stanno rapidamente avvicinando ai nostri livelli. La riforma del settore della formazione d’eccellenza è un’altra priorità dell’UE: attualmente le università europee occupano posizioni di secondo piano soprattutto per problemi legati al budget. In linea di principio vi è un forte consenso rispetto alla necessità di potenziare le politiche europee per la ricerca e la formazione d’eccellenza.

 

Perché l’UE dovrebbe intervenire?

Molti sostengono che lo specifico nazionale supera in valore qualsiasi eventuale elemento condiviso contenuto nel Modello sociale europeo. Dato che le soluzioni proposte si incentrano essenzialmente su un intervento a livello nazionale, a che scopo riaprire il dibattito sul Modello sociale europeo, con il livello di responsabilità dell’UE che esso comporta? In primo luogo, ogni Stato membro dell’Unione ha molto interesse a che vi sia un buon livello di benessere economico anche negli altri membri. Essi condividono uno spazio economico fortemente integrato, per cui la debolezza economica di un singolo paese si ripercuote negativamente su tutti gli altri. In secondo luogo, il successo economico e l’efficienza del modello sociale di uno Stato membro sono strettamente legati tra di loro. È possibile coniugare un alto livello di equità con l’efficienza economica, e l’esperienza dei paesi nordici ne è la dimostrazione. D’altro canto, alcuni modelli, che privilegiano l’equità e che sono tipici di alcuni fra i paesi fondatori, non risultano molto efficaci sul piano della crescita e dell’occupazione. In terzo luogo, data l’importanza delle competenze dell’Unione per il mercato unico, è impossibile separare il dibattito sulle tematiche economiche da quello sulle questioni sociali ad esso collegate, anche se le politiche sociali sono in primis responsabilità degli Stati membri e non sono state attribuite all’Unione. È diffusa la percezione che le riforme economiche strutturali a livello comunitario abbiano un impatto significativo sui modelli sociali nazionali: ne è la prova l’acceso dibattito in corso in molti Stati membri sulla proposta di Direttiva sui servizi. Le pressioni per una maggiore protezione del modello sociale a livello nazionale potrebbero far crescere l’opposizione all’apertura dei mercati a livello di Unione. Al contrario, la mancata realizzazione di forme economiche a livello di UE potrebbe compromettere nel lungo periodo la sostenibilità economica dei modelli sociali nazionali.

In quarto luogo, i membri dell’euro si trovano in una posizione particolare di interdipendenza, per effetto delle strette interconnessioni esistenti tra le riforme dello Stato sociale e del mercato del lavoro e la politica monetaria che ora condividono. Il successo delle riforme del welfare potrà portare ad una maggiore flessibilità, che a sua volta potrebbe permettere una politica monetaria meno restrittiva. Tuttavia, i singoli Stati membri dell’euro saranno meno incentivati a portare avanti riforme difficili sul piano politico, se gli altri paesi membri non seguiranno il loro esempio e se i tassi di interesse comunitari rimarranno invariati.

Naturalmente, c’è anche chi sostiene che, per quanto questi punti siano validi, dati i limiti dei poteri dell’UE in questo campo, non è molto utile discutere in quale modo un’azione a livello comunitario potrebbe, ipoteticamente, dare maggior vigore alle iniziative riformiste degli Stati membri. A quel punto sarebbe preferibile lasciare tali questioni alla piena responsabilità degli Stati membri. Eppure, molti Stati membri, con governi sia di destra che di sinistra, hanno incontrato grosse difficoltà di natura politica a formare coalizioni elettorali efficaci che realizzino le riforme.

Alcuni sostenitori del modello liberista liquideranno sbrigativamente tutto questo dibattito sul modello sociale, dicendo che è solo una manifestazione di sentimentalismo per il passato e un freno che impedisce agli Stati membri dell’Europa di abbracciare senza remore la globalizzazione e la crescita sostenuta che la seguirà. A loro parere, gli Stati membri dell’UE dovrebbero abbandonare il loro impegno tradizionale a favore della solidarietà e della coesione sociale, per puntare invece su obiettivi più dinamici, di tipo americano. Eppure, i principi del «dialogo sociale» e del consenso godono ancora di un vasto sostegno, sia nelle forze di centrodestra che in quelle di centrosinistra. I partiti di centrodestra al governo hanno incontrato grosse difficoltà nel tentativo di attuare riforme strutturali di apertura del mercato, proprio perché manca un consenso di fondo sulle riforme, che andrebbero a scapito di un numero eccessivo dei loro abituali elettori (spesso pensionati e dipendenti pubblici).

Stando così le cose, il vero problema consiste nel capire se le leadership europee potranno svolgere un ruolo utile nel rafforzare l’impegno verso le riforme. Fare propria l’idea che il «futuro del Modello sociale europeo» è un interesse comune a tutti gli europei non deve pregiudicare la responsabilità primaria dei singoli Stati per quanto riguarda le riforme. I modelli sociali europei hanno profonde radici storiche e sono parte integrante dell’identità nazionale. L’Europa non può essere il sostituto di una forte leadership interna, ma può contribuire a chiarire se i modelli sociali degli Stati membri sono «inefficienti», ed indicare che cosa è necessario modificare affinché gli Stati membri possano effettuare le loro legittime scelte politiche circa il grado di ridistribuzione e di solidarietà sociale che sta loro a cuore. Quando si parla di politica sociale, «Bruxelles» non deve mai diventare il nemico della scelta politica nazionale: dovrà invece essere il «facilitatore» di una scelta più efficace. Il che comporta un cambiamento in quello che è stato l’atteggiamento tradizionale dell’UE nei confronti della politica sociale.

 

In che modo l’UE può aiutare gli Stati membri a perseguire strategie riformiste di giustizia sociale

Agli Stati membri serve una nuova road map per le riforme, una strategia di giustizia sociale per l’ammodernamento del welfare e del mercato del lavoro. Gli strumenti politici per farlo sono già disponibili e sono i programmi nazionali di riforma previsti dalla strategia di Lisbona come modificata nel 2005. Oltre a ciò bisognerà chiedere agli Stati membri un nuovo impegno politico in favore di un metodo di coordinamento più trasparente.

Il contenuto specifico di una road map per la giustizia sociale, che consenta una riforma del welfare e del mercato del lavoro dovrà essere concordato dal Consiglio europeo, e potrà articolarsi in un numero limitato di obiettivi europei che dovranno però essere realistici. Si dovrà costituire quindi un nuovo Consiglio consultivo per l’ammodernamento della società, forte di esperti le cui qualità e la cui autonomia intellettuale siano assolutamente indiscutibili. Non dovrà rappresentare interessi specifici, ma sarà tenuto a preparare la propria valutazione delle riforme che ogni singolo Stato membro attuerà per adeguarsi alla road map della giustizia sociale. Si dovrà istituire anche una nuova procedura di vigilanza multilaterale per valutare i programmi nazionali di riforma. La Commissione dovrà farsi carico, con il supporto del Consiglio consultivo summenzionato, degli apsetti tecnici del lavoro e dovrà essere in grado di presentare le proprie raccomandazioni direttamente agli Stati membri.

Si dovrà altresì costituire un Consiglio dei ministri straordinario incaricato di coordinare e discutere le valutazioni ricevute. Sarà opportuno sollecitare i capi di governo affinché nominino al Consiglio straordinario un rappresentante del governo responsabile di tutti gli aspetti di questa agenda.

Le linee guida generali di politica economica dovranno dare maggior peso all’analisi della composizione della spesa pubblica degli Stati membri e della misura in cui rispetta i criteri di investimento sociale produttivo e la road map della giustizia sociale. Più che la quantità, il punto chiave della questione riguarderà quindi la composizione e l’efficienza della spesa pubblica, che è elevata in molti Stati membri ma non riesce nonostante ciò a realizzare gli obiettivi previsti di giustizia sociale proprio perché è gestita in maniera inadeguata o con enormi sprechi legati alla presenza di una burocrazia eccessivamente centralizzata.

Il Patto di stabilità e di crescita dovrebbe prevedere maggiori margini di flessibilità per gli Stati membri che avviino significativi programmi di riforma. Questo concetto è stato già riconosciuto per la riforma delle pensioni, ma che motivo c’è di limitarlo esclusivamente alle pensioni? È essenziale un impegno politico molto più incisivo da parte del Consiglio europeo, che dovrebbe elaborare un accordo preliminare per dare priorità in ambito nazionale alla road map per la giustizia sociale e avviare dibattiti a livello nazionale sulle raccomandazioni del Consiglio consultivo.

Una nuova strategia di giustizia sociale dovrebbe prevedere inoltre i seguenti provvedimenti: il passaggio a uno Stato sociale non più passivo ma fortemente attivo, che riesca a promuovere livelli più alti di occupazione, prevedendo sia diritti che doveri per i beneficiari; maggiore flessibilità del mercato del lavoro grazie a norme generali di assunzione e licenziamento più flessibili; una riforma del partenariato sociale; riforme strutturali che aprano i mercati e creino nuovi posti di lavoro a medio termine; un intervento complessivo per fornire assistenza ai lavoratori vittime delle ristrutturazioni e trasformazioni industriali; un welfare che incoraggi l’assunzione di rischi a tutti i livelli della società; una strategia che crei «posti migliori» per i lavoratori con scarsa specializzazione, mirata ad aumentare la loro produttività e il loro reddito potenziale; un approccio coerente che faccia della formazione continua una realtà concreta; una strategia di investimenti a favore della natalità e della prima infanzia, e contro la diffusione della povertà fra i minori; una politica per la terza età che ponga fine al ricorso al prepensionamento come mezzo di aggiustamento economico e che incoraggi le persone a lavorare più a lungo; maggiore impegno politico nel garantire l’integrazione sociale delle minoranze etniche e degli immigrati; una strategia di investimenti per rendere migliori le performance dell’Europa nell’economia della conoscenza, che sia incentrata sul miglioramento della scuola dell’obbligo, sulla formazione d’eccellenza e sulla ricerca e che preveda anche maggiori risorse e riforme radicali circa le loro modalità di erogazione; una riforma dello Stato che snellisca la burocrazia nei servizi pubblici e pro m u ova diversità, scelta e autonomia; infine, una politica di finanziamento dello Stato sociale e dei pubblici servizi che realizzi un migliore equilibrio tra i finanziamenti a carico dei contribuenti e quelli a carico dei fondi assicurativi.

 

 

Note

1 Cfr. R. Liddle, Economic Reform in Europe, Policy Network, Londra 2004.

2 Ad esempio, il Fondo monetario internazionale sostiene che l’Agenda 2010 di riforme del sistema sociale della Germania ha inciso sull’occupazione meno di quanto sarebbe stato possibile se nel contempo si fosse realizzata una liberalizzazione parallela dei mercati dei prodotti, come ad esempio la liberalizzazione dell’orario di apertura dei negozi.