Promemoria per un'analisi dei beni culturali in Italia oggi

Di Pietro Giovanni Guzzo Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

È forse opportuno riaffermare che il «bene culturale», in sé, non ha valore economico: almeno nel senso volgare nel quale lo si intende quando lo si sente definire come «tesoro» o simili. Certamente ogni manufatto ha un suo proprio valore venale, e quindi anche i beni culturali, ma non è quest’ultimo che rende un qualsiasi manufatto bene culturale. E sarà quindi opportuno insistere sulla definizione. Da un punto di vista storico, l’attribuzione ai beni culturali di un valore economico (che occorre tenere distinto da una sempre possibile valutazione commerciale) deriva da un pernicioso fraintendimento circa il loro inserimento nel Patrimoine National, a seguito delle confische operate dalla Repubblica francese, appena nata sulla spinta della Rivoluzione. In quel periodo si procedette a incamerare nel generale Patrimoine National anche le opere d’arte che fino ad allora costituivano decorazione delle dimore nobiliari e ornamento delle chiese e dei conventi e, quindi, pertinevano a patrimoni privati.

È forse opportuno riaffermare che il «bene culturale», in sé, non ha valore economico: almeno nel senso volgare nel quale lo si intende quando lo si sente definire come «tesoro» o simili. Certamente ogni manufatto ha un suo proprio valore venale, e quindi anche i beni culturali, ma non è quest’ultimo che rende un qualsiasi manufatto bene culturale. E sarà quindi opportuno insistere sulla definizione.

Da un punto di vista storico, l’attribuzione ai beni culturali di un valore economico (che occorre tenere distinto da una sempre possibile valutazione commerciale) deriva da un pernicioso fraintendimento circa il loro inserimento nel Patrimoine National, a seguito delle confische operate dalla Repubblica francese, appena nata sulla spinta della Rivoluzione. In quel periodo si procedette a incamerare nel generale Patrimoine National anche le opere d’arte che fino ad allora costituivano decorazione delle dimore nobiliari e ornamento delle chiese e dei conventi e, quindi, pertinevano a patrimoni privati. Con il dichiarato scopo che esse fossero destinate alla formazione e al diletto del popolo, sul quale posava il fondamento della nazione, ed a spese del quale esse stesse erano state prodotte in precedenza, ma gestite in maniera tale da precludergliene il godimento.

Pur in questa schematica ed elementare semplificazione, si evidenzia come la valutazione economica fosse del tutto estranea alle motivazioni di quella cruciale assegnazione al Patrimoine National. Pur stando così le cose, dal bene culturale derivano indotti che rivestono una significati va valenza economica: dal turismo alle attività che si realizzano per la sua conservazione. Per la gioia degli economisti, occorrerà insistere su una tale dinamica di processo.

È la «coerente tutela» che garantisce l’innesco dell’indotto, non il presunto, variabile e arbitrario «valore economico» del bene in sé. Ed è proprio a questo specifico livello dell’applicazione della tutela che si avvertono, oggi in maniera acuta, tutte le deficienze e le sottovalutazioni del sistema. Quasi che, per gli anni e i decenni precedenti ai nostri, i manufatti costituenti beni culturali fossero stati considerati come doni di Dio, elementi naturali a noi giunti dalla creazione, e non invece opere dell’uomo e, in quanto tali, necessitanti di continua e attenta manutenzione. Come, d’altronde, solo da tempi recentissimi si è cominciato a preoccuparsi anche per le autentiche consistenze naturali, dalle acque alle pendici montuose: in breve l’ambiente.

Il disinteresse e/o la sottovalutazione della natura storica dei beni culturali, in specie di quelli che si manifestano sotto forme modeste, non monumentali e artisticamente non «belli», hanno fatto conseguire un derivato restringimento di assegnazione di risorse, non solo economiche, ma anche di sistema, da utilizzare a loro vantaggio.

Oltre a motivi «etici», la sottolineatura della non economicità in sé dei beni culturali vale anche per quanto riguarda recenti episodi legati al commercio e allo scavo clandestino di essi. Nelle vicende, non tutte cristalline, che hanno occupato la più recente cronaca, quel che sembra rilevante non è che il patrimonio demaniale italiano si sia arricchito del valore, peraltro convenzionale, dei manufatti antichi restituiti allo Stato, ma che sia stato riconosciuto che questi si trovano all’estero in contravvenzione della legge italiana, con ciò rafforzando l’interesse pubblico a tutelare il proprio territorio, all’interno del quale si trovano le aree archeologiche.

Se quanto fin qui accennato viene riconosciuto per valido, ne consegue che la garanzia dell’innesco e del funzionamento a regime dell’indotto derivante dai beni culturali è assicurata solamente se gli stessi sono mantenuti in buono stato. Il che significa che di essi deve essere garantita tutta la filiera di attività tecnica e scientifica che ne assicura l’identificazione, la conoscenza, il restauro, la manutenzione, la fruizione pubblica.

In caso contrario, il richiamo che i beni culturali sono in grado di esercitare per lo svolgimento di attività economiche indotte si affievolisce, fino a cessare del tutto, con il conseguente venir meno dell’indotto, e quindi delle attività economiche conseguenti.

Una tale banale considerazione non attiene solamente alle fisicità dei beni culturali e alla loro qualità, ma anche alla qualità del contesto territoriale nel quale i beni culturali sono localizzati. Musei, aree archeologiche e monumentali in genere non debbono essere considerate «isole felici» (o, piuttosto «ghetti dorati»), perché così non riuscirebbero a estrinsecare appieno la loro capacità di creare un indotto dalla chiara valenza economica.

Il saper fare necessario a compiere secondo il metodo appropriato la filiera di attività che rendono il bene culturale valido innesco di attività economiche è esclusivamente tecnico: composto dalle diverse tecniche operative che sono strettamente attinenti ad esso.

Di altrettanto rispetto devono godere quelle altre tecniche che sono in grado sia di innescare, sia di portare a regime, sia infine di rinvigorire l’indotto che si origina dai beni culturali: ma, appunto, si tratta di tecniche «indotte», non quindi, subalterne in quanto autonome in se stesse, ma «di secondo momento». Come tali, le loro forme applicative vanno contemperate con quelle proprie dei saperi tecnici che hanno la responsabilità di garantire il benessere del bene culturale.

Nei saperi tecnici indotti si ascrive anche il saper fare politico, al quale occorre riconoscere la primazia nel destinare fondi finanziari, anche a favore dei beni culturali; ma, anche in questo caso, verso dove sarebbero indirizzati i fondi se i beni culturali non fossero riconosciuti come tali dai tecnici della politica?

In conseguenza di quanto sopra, occorre ripensare profondamente l’attuale organizzazione del ministero per i beni e le attività culturali. A cominciare dalla possibilità che la materia «beni culturali» sia affidata ad un’Agenzia, come già proposto nel 1967 dalla Commissione Franceschini, dipendente da un ministero da identificare, ma preferibilmente vicino alla sfera della ricerca storica.

Beni culturali e «cultura», in senso generico, così come oggi è intesa al limite del consumo e dello status symbol, appartengono a due categorie differenti fra loro. I primi sono prodotti di culture più o meno antiche, ma comunque appartenenti al passato, e quindi storiche e non più partecipate da noi contemporanei. La seconda, invece, è contraddistinta dalla sua contemporanea produzione: anche nel caso si assista alla rappresentazione di una tragedia di Eschilo, ad essa fanno sostanza e contorno attori e registi vivi, costumi appena disegnati e confezionati (anche quelli all’antica), musica, per non ricordare l’illuminazione elettrica e l’amplificazione sonora.

I beni culturali vanno conservati; la «cultura» va aiutata ad esprimersi: quindi, oltre che differenti in sé, le due categorie richiedono anche diverse filosofie e prassi di gestione. L’aver messo insieme queste due categorie dentro uno stesso ministero è conseguenza di un equivoco teoretico, che non finisce di produrre danni pratici.

Il ministro, o il presidente dell’Agenzia, dovrebbe essere sorretto da un consiglio tecnico sulle scelte strategiche e da uffici dedicati: alla pianificazione dell’uso delle risorse finanziarie, sia pubbliche sia private, ad una scuola di professionalizzazione e aggiornamento del personale, e all’omogeneità dei criteri nell’amministrazione del personale.

Allo stesso modo, dovrebbe essere istituito un Comitato di coordinamento, eletto dalle regioni, rivolto all’attuazione coordinata dei programmi di competenza dello Stato e delle regioni. Le previsioni della vigente Costituzione al riguardo andrebbero riviste, alla luce della non esaltante esperienza finora compiuta.

La struttura organizzativa e gestionale dovrebbe essere composta da due direttori generali: uno per i beni culturali e paesaggistici e un secondo per archivi e biblioteche. Da essi dipenderebbero gli Istituti centrali, le Soprintendenze territoriali, gli archivi e le biblioteche. Le circoscrizioni territoriali degli uffici periferici dovrebbero essere ripensate orientandole ad un’ampiezza corrispondente a quella della regione di riferimento. Eventuali circoscrizioni infra-regionali dovrebbero essere attentamente e seriamente motivate, senza far ricorso a precedenti situazioni amministrative, in specie se recenti.

Nel caso in una stessa regione sussistessero più uffici periferici relativi a una stessa branca, i relativi responsabili svolgerebbero a rotazione il compito di relazionarsi con gli uffici competenti della regione, all’interno dei criteri stabiliti nel Comitato di coordinamento centrale. Operando in tal modo, la coerenza regionale dell’attività a favore dei beni culturali sarebbe congrua a quella concordata centralmente, senza la necessità di istituire un livello decisionale intermedio, attualmente rappresentato dalle Direzioni regionali, la cui attuale deriva verso atteggiamenti di «potere», in molti casi non sostanziato da alcun sapere tecnico, è tutta contenuta in nuce nella loro istituzione, conseguente al D.P.R. 368/98.

In ogni caso, tutti gli uffici periferici dovrebbero essere dotati di autonomia finanziaria, amministrativa, contabile, organizzativa e scientifica. Il che non vuol dire farli diventare autosufficienti, ma piuttosto far passare la loro gestione da burocratica a manageriale, vista la necessità di elaborare bilanci in pareggio, e la facilità di ricevere stanziamenti e contributi sia pubblici sia privati senza le lungaggini burocratiche degli attuali necessari passaggi ministeriali e finalizzati a obiettivi specifici sia di bilancio sia di programma di attività.

Il personale in servizio dovrebbe essere prevalentemente di specializzazione tecnica: per raggiungere un tale scopo potrebbe essere utilizzata accortamente la previsione di legge che riduce il numero degli impiegati delle pubbliche amministrazioni. Con l’attuale applicazione di questa previsione, la pubblica amministrazione si riduce progressivamente, ma rimane sempre uguale a se stessa, quasi si tratti di rappresentazioni a scale sempre maggiori. Ad un determinato momento (ormai non lontano nel tempo) di tale perverso, continuo rimpicciolimento, si arriverà alla paralisi completa: anche se sulla carta rimangono presenti tutte le figure professionali.

Con la proposta correzione del sistema di applicazione del non completo rimpiazzo dei pensionamenti, invece, si avrà un progressivo irrobustimento del ruolo tecnico e il parallelo affievolirsi di quello pertinenti a livelli inferiori e non tecnici.

In ogni caso, la quantità del personale di ruolo andrà scemando e la sua amministrazione potrà agevolmente essere curata da un’apposita divisione riferita ad ognuno dei due direttori generali, i quali agiranno secondo i criteri dell’ufficio di omogeneità.

Proposte del genere non sono le uniche che si ritengono opportune per cercare di migliorare l’attuale, deficitario stato di fatto. Occorrerà proporre procedure semplificate e specifiche per la realizzazione dei lavori, in quanto le procedure previste dalla normativa vigente (legge 109 del 1994 S.M.I.) sono talvolta inutili e, sempre, farraginose. Ovviamente andrà salvaguardato il criterio di trasparenza ed equità.

Ancora, occorrerà rivedere profondamente la normativa relativa agli sgravi fiscali relativi alle sponsorizzazioni private, così da renderle effettivamente convenienti. Una tale forma di finanziamento delle attività a favore dei beni culturali può unirsi all’utilizzo in questa stessa direzione del recupero dall’evasione fiscale, ove essa venisse perseguita con efficacia, così da poter dare a questa azione di doverosa equità un significato etico ulteriore.

Un tema intrecciato a quello dei beni culturali è costituito dall’università: se non altro in quanto i tecnici dei beni culturali si formano all’interno di essa. Fino al 1974, le Antichità e Belle arti erano comprese nello stesso ministero. Nonostante le affinità, la principale delle quali è rappresentata dallo stesso impegno nella conoscenza e nella critica storica, tra operatori dei beni culturali e operatori dell’università è evidente la profonda diversità delle rispettive prassi: dedicate, rispettivamente, alla tutela e alla didattica, cioè a due sbocchi tecnicamente assai differenti fra loro.

Solamente per i curricula di natura archeologica è necessaria un’esperienza di scavo. La diffusa rivendicazione delle università di essere parte integrante del mondo dei beni culturali, intesi come pubblica amministrazione, è quindi in realtà di dimensione ridotta. Altra cosa è la conoscenza diretta dei beni culturali, e la libertà di esercitarsi su di essi con ricerche, proposte, simulazioni: ma tale libera attività didattica e speculativa, oltre che pedagogica, non giustifica ingerenze o appropriazioni.